Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 36407 depositata il 26 agosto 2019
Reati fiscali – Pena accessoria – Applicabilità d’ufficio – In Appello – Sussiste
RITENUTO IN FATTO
1. – Con sentenza del 23 febbraio 2016, la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza emessa il 24 ottobre 2013 dal Tribunale di Roma, che aveva condannato l’imputato per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 perché, quale legale rappresentante della società “Affissioni & Servizi Soc. Coop.”, al fine di evadere le imposte, aveva annotato e indicato nella dichiarazione dei redditi fatture per operazioni inesistenti emesse dalla “Azzurra s.r.l.”.
2. – Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. – Con un primo motivo, si censurano il travisamento di una prova decisiva e il vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta responsabilità dell’imputato per il reato contestato. La Corte d’appello avrebbe del tutto travisato la prova, prodotta dalla difesa, circa la reale sussistenza della Azzurra s.r.l. e la sua operatività del periodo di commissione dei reati, tanto più considerando che proprio sulla ritenuta natura di “cartiera” della predetta società si era fondata la statuizione di condanna confermata dalla Corte d’appello. In particolare, i giudici del gravame avrebbero completamente omesso di considerare la visura camerale dalla quale sarebbe chiaramente emerso che la Azzurra s.r.l. non era attiva esclusivamente nel settore delle pulizie, ma anche nel settore “dell’affissione stradale, della realizzazione di impianti pubblicitari e di qualsiasi lavoro tipografico e pubblicitario”. Il documento in questione avrebbe dunque riscontrato le dichiarazioni dell’imputato secondo cui l’Azzurra s.r.l. si occupava delle commesse che la Affissioni & Servizi non riusciva ad evadere per scarsità di forza lavoro.
La Corte d’appello avrebbe, altresì, omesso di rispondere alla censura volta ad evidenziare che se la Affissioni & Servizi avesse voluto evadere le imposte, si sarebbe avvalsa di una società costituita ad hoc e non di un’azienda esistente da svariati anni che, per stessa ammissione dei funzionari dell’Agenzia delle entrate, aveva intrattenuto rapporti commerciali con altre società, sia prima che dopo il 2007.
2.2. – In secondo luogo, si lamenta la violazione del dell’art. 597 c.p.p., per essere la Corte d’appello pervenuta ad una reformatio in peius della sentenza impugnata. I giudici del gravame, infatti, avrebbero applicato per la prima volta le sanzioni accessorie di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12 senza che vi fosse impugnazione del pubblico ministero. Inoltre, secondo le prospettazioni difensive, la Corte d’appello avrebbe violato il principio secondo cui, in tema di reati tributari, le pene accessorie comminate attraverso la previsione di un limite minimo e di un limite massimo di durata, rientrano tra quelle di durata non espressamente determinata dalla legge, ed andrebbero quindi parametrate, ai sensi dell’art. 37 c.p., alla durata della pena principale inflitta all’imputato. Infatti, i giudici del gravame, nell’applicare la sanzione accessoria dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche, si sarebbero inspiegabilmente discostati dal minimo edittale previsto per legge, a differenza di quanto fatto per la pena detentiva.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. – Il ricorso è inammissibile.
3.1. – Il primo motivo di ricorso – con cui si censura la mancata valutazione di una prova decisiva – è inammissibile, perché rivolto, oltretutto in base a rilievi generici e meramente assertivi, ad ottenere una rivalutazione di elementi già presi adeguatamente in considerazione dai giudici di secondo grado. Deve in ogni caso osservarsi che, contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa, la Corte d’appello ha considerato le allegazioni prodotte dal ricorrente, ma le ha correttamente ritenute irrilevanti rispetto ai dirimenti elementi accusatori. In particolare – come evidenziato dai giudici del gravame non assume alcun rilevo il fatto che la società “Azzurra s.r.l.” era operativa dal 2003 e aveva oggetto sociale rivolto anche all’affissione di materiale pubblicitario oltre che di pulizie, perché dagli atti acquisiti in dibattimento è emerso pacificamente che la richiamata società – pur essendo iscritta nel registro delle imprese da anni – non svolgeva alcuna attività e, soprattutto, non aveva dipendenti. Tanto basta per confermare la natura “cartiera” della “Azzurra s.r.l.” e confutare la tesi della difesa – basata su indimostrate asserzioni – secondo cui il ricorrente aveva un accordo verbale con la predetta società di cui si serviva per evadere le commesse eccessive per la sua forza lavoro.
3.2. – Manifestamente infondato è il secondo motivo di ricorso, con cui si censura la violazione di legge in ordine all’applicazione delle sanzioni accessorie.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, la Corte d’appello ha correttamente applicato le sanzioni accessorie omesse dal primo giudice. La giurisprudenza di questa Corte, infatti, afferma pacificamente che la previsione di cui all’art. 597 c.p.p., comma 3, – che sancisce il divieto della reformatio in peius quando appellante sia il solo imputato – non contempla, tra i provvedimenti peggiorativi inibiti al giudice di appello, le pene accessorie che, ex art. 20 c.p., conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa. È pertanto legittima l’applicazione d’ufficio, da parte del giudice di appello delle pene accessorie non applicate in primo grado (ex plurimis, Sez. 3, n. 30122 del 20/12/2016; Sez. 6, n. 49759 del 27/11/2012). Né la tesi del ricorrente può essere accolta con riferimento alla determinazione del quantum delle sanzioni accessorie.
La Corte d’appello, infatti, ha correttamente applicato i principi giurisprudenziali richiamati dalla difesa, così determinando in un anno di durata tanto la pena principale quanto le pene accessorie. A tale proposito, deve rilevarsi che il principio secondo cui la durata delle pene accessorie temporanee previste dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 12, conseguenti alla condanna per reati tributari, deve essere dal giudice uniformata, ai sensi dell’art. 37 c.p., a quella della pena principale inflitta (ex plurimis, Sez. 3, n. 8041, del 3/01/2018) implica che la pena principale e quella accessoria devono avere la stessa durata e non certamente che la pena accessoria debba applicarsi secondo il quantum edittale scelto per la pena principale. In altri termini, non è vero che se la pena principale viene applicata nel minimo edittale anche la pena accessoria deve essere riconosciuta nella sua minima estensione. Ciò che rileva è che la durata concretamente determinata sia la medesima.
4. – Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. E deve ricordarsi che l’inammissibilità del ricorso per cassazione preclude in ogni caso la possibilità di rilevare d’ufficio, ai sensi dell’art. 129 c.p.p. e art. 609 c.p.p., comma 2, l’estinzione del reato per prescrizione maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede e neppure dedotta con i motivi di ricorso (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 25/03/2016, Rv. 266818-1).
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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