CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 36415 depositata il 7 ottobre 2021
Reati tributari – Dichiarazioni dei redditi con elementi passivi fittizi – Profitto della frode fiscale – Riciclaggio – Condanna – Legale rappresentante – Misura cautelare personale
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza in data 30 Marzo 2021 il Tribunale di Torino, pronunziando sulla richiesta di riesame presentata da F. F. avverso l’ordinanza del 17/02/2021 con la quale il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino aveva applicato al predetto la misura cautelare della custodia in carcere perchè gravemente indiziato dei reati di cui ai capi 1) (artt. 81, 110 c.p., 2 D.Lgs. 74/2000) e 5) (art. 648-ter.1 c.p.) nonché disposto nei confronti del predetto la misura reale del sequestro preventivo in relazione al reato di cui al capo 1), confermava l’ordinanza impugnata.
1.1. Il. Tribunale, nel rigettare le censure proposte, ricostruiva la genesi delle indagini ed il contenuto delle contestazioni aventi ad oggetto, in primo luogo, la società Y. Italia s.r.l. la quale, secondo quanto accertato dall’ Agenzia delle Entrate per le annualità 2014, 2015 e 2016, aveva indicato elementi fittizi per un importo complessivo di euro 6.991.749,00 con IVA indebitamente detrattata per euro 1.619.110,00 relativa a fatture emesse in favore di società c.d. cartiere e le condotte di alcuni soggetti, fra cui I’odierno ricorrente, che in vario modo avevano beneficiato dei relativi flussi finanziari provenienti dal sistema fraudolento allestito. I giudici di merito evidenziavano come, sulla scorta di quanto ricostruito dalla Guardia di Finanza, la condotta materiale relativa alla presentazione delle dichiarazioni dei redditi indicanti elementi passivi fittizi oltre che al coindagato M., legale rappresentante della società Y. Italia s.r.I., andava riferita all’ odierno ricorrente il quale agiva in stretto coordinamento con il primo e che l’ utilizzo delle fatture false costituiva necessario presupposto per tenere in piedi il meccanismo fraudolento in questione.
I giudici del riesame descrivevano, pure, l’attività di autoriciclaggio contestata ritenendo che il F. oltre a riciclare i proventi della truffa di cui al capo 4) aveva reimpiegato parte del corrispettivo dell’IVA evasa.
2. Il difensore di fiducia di F. F. ha proposto ricorso per cassazione impugnando il provvedimento suindicato sia in relazione alla misura cautelare personale che con riferimento alla misura cautelare reale sulla base dei seguenti motivi.
2.1. Con il primo motivo deduce, ex art. 606 comma 1 lett. b) ed e) c.p.p., erronea applicazione dell’art. 273 c.p.p. in relazione agli artt. 110 c.p. e 2 D.Lgs. 74/2000, per erronea ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine al dolo specifico del delitto di dichiarazione fraudolenta mediate uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e, comunque, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione.
Lamenta che la medesima struttura del preteso disegno criminoso ipotizzato nel provvedimento genetico e confermato in sede di riesame appariva del tutto incompatibile con la qualificazione dei fatti ai sensi dell’art. 2 D.Lgs. 74/2000 risultando, dal tenore della medesima ordinanza, che gli indagati avrebbero asseritamente utilizzato fatture indicanti prestazioni fittizie al fine esclusivo di ottenere e giustificare le disposizioni di pagamento impartite dai conti della Y. Italia s.r.I., essendo, invece, del tutto irrilevante il conseguimento di un risparmio fiscale a favore della società.
Rileva che difettava ogni individuazione degli specifici elementi dell’effettivo perseguimento della finalità evasiva occorrendo la prova del dolo specifico ai sensi della citata norma la cui struttura era incompatibile con l’ipotesi di dolo eventuale.
Osserva che la prescritta finalità evasiva non era ipotizzata in via diretta in capo a nessuno dei compartecipi e che l’assenza di prova del dolo specifico emergeva chiaramente dal fatto che al pagamento di ciascuna delle fatture in contestazione era sempre corrisposta l’effettiva fuoriuscita del relativo saldo a debito e, mai, un qualunque vantaggio per la società.
2.2. Con il secondo motivo lamenta, ex art. 606 comma 1 lett. b) ed.e) c.p.p., erronea applicazione dell’art. 273 c.p.p. in relazione all’art. 648-ter 1. c.p. quanto all’ erronea individuazione del delitto di frode fiscale di cui al capo 1) quale delitto generatore del profitto oggetto di reinvestimento, e comunque manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione.
Rileva che i giudici del riesame non avevano considerato che il profitto dell’ asserito reato di frode fiscale – consistente nel risparmio di spesa che si sarebbe generato con l’ indicazione delle fatture in dichiarazione tanto con riguardo alle imposte dirette che con riguardo all’IVA – era maturato, esclusivamente, in capo alla contribuente Y. Italia s.r.I., che ne aveva fruito direttamente dopo la presentazione della dichiarazione fiscale con la quale era stato fatto uso delle fatture in questione.
Conseguentemente le somme ricevute dall’ indagato a titolo di corrispettivo per le fatture asseritamente false e, poi, da questi reinvestite nelle attività economiche di cui al capo 5) non potevano costituire il provento del delitto di frode fiscale di cui al capo 1) atteso che nei reati tributari il profitto è costituito, per giurisprudenza pacifica, dall’ imposta evasa, con la ulteriore precisazione che il F. non aveva mai avuto la disponibilità del profitto illecito derivante dal delitto di dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti per la intuibile ragione che tale profitto, coincidente con il risparmio di spesa, si era generato direttamente ed esclusivamente in capo alla società Y. Italia s.r.l. Evidenzia che, a tutto concedere, la condotta di autoriciclaggio poteva essere qualificata alla stregua dell’art. 648-ter. 1 comma 2 c.p., che in ragione dei ridotti limiti edittali non consente la custodia cautelare in carcere.
2.3. Con il terzo motivo (riguardante esclusivamente la misura cautelare personale) deduce, ex art. 606 comma 1 lett. c) ed e) c.p.p., inosservanza dell’art. 274 c.p.p. per erronea ritenuta sussistenza dell’esigenze cautelari e inosservanza dell’art. 275 c.p.p. per violazione dei principi di adeguatezza e proporzionalità nella scelta della misura e, comunque, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione.
Lamenta l’evidente vizio del provvedimento impugnato in ordine alle esigenze cautelari non risultando indicate le ragioni giuridicamente apprezzabili in relazione alla ritenuta sussistenza di una situazione di concreto ed attuale pericolo di reiterazione dei reati. Evidenzia, in particolare, che difettava la prova di elementi specifici e concreti da cui desumere il pericolo di recidivanza, essendosi il tribunale limitato a fornire una valutazione negativa in relazione alla personalità dell’indagato ed alla gravità dei fatti contestati.
Osserva, ancora, che la motivazione del provvedimento impugnato era meramente apodittica e basata su mere supposizioni quanto alla ritenuta adeguatezza e proporzionalità della misura concessa.
2.4. Con il quarto motivo (riguardante esclusivamente la misura cautelare reale) rileva, ex art. 606 comma 1 lett. c) ed e) c.p.p., erronea dell’art. 321 c.p.p. e 12-bis D.Lgs. 74/2000 per erronea individuazione del profitto del reato di cui al capo 1) dell’incolpazione provvisoria e, comunque, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione.
Assume che erroneamente il tribunale, quanto al disposto sequestro preventivo, aveva ritenuto che i meccanismi propri delle dichiarazioni periodiche e delle dichiarazioni ai fini IVA non escludevano che l’importo di euro 1.600.000,00 versato in pagamento IVA costituisse il profitto monetizzato del reato fiscale non considerando che il vantaggio economico della frode fiscale di cui al capo 1), coincidente con il risparmio di imposta, si era incardinato in capo alla società Y. Italia s.r.l. ed era del tutto estraneo rispetto all’ importo di euro 1.600.000,00 versato in pagamento IVA menzionato il cui mancato versamento non era dipeso dalla frode fiscale quanto piuttosto dalla circostanza che le società cartiere non versavano gli importi destinati a coprire l’ IVA, apprendendo le relative somme.
Osserva che, per come comprovato in atti, il preteso vantaggio fiscale della Y. Italia s.r.l. in materia di IVA per le annualità 2014, 2015 e 2016 era in avanzata fase di definizione agevolata risultando già versato l’importo di euro 157.000,00 circa sicchè doveva trovare applicazione la clausola di salvaguardia di cui all’art. 12 – bis comma 2 D. Lgs. 74/2000 secondo cui la confisca ed il sequestro ad essa funzionale non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’ erario.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato nei limiti appresso specificati.
2. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Va ricordato che l’art. 2 (Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) del D.lgs. 74/2000, come da modificato dall’art. 39, comma 1, lett. a), D.L. 26 ottobre 2019, n. 124, convertito, con modificazioni, dalla L. 19 dicembre 2019, n. 157, stabilisce che “È punito con la reclusione da quattro a otto anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi. Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria”.
Secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, con argomentazioni che non appaiono né carenti né illogiche né contraddittorie, il ricorrente si è reso sicuramente responsabile della condotta criminosa ascrittagli al capo sub. 1 della incolpazione provvisoria (art. 2 cit.): è pacifico, infatti, che fu lui a contattare “le società cartiere” ed a chiedere l’emissione di fatture per operazioni inesistenti (cfr. pag. 4 ss. dell’ordinanza impugnata).
La suddetta circostanza di fatto conclama, quindi, come correttamente ricostruito dai giudici di merito, che il ricorrente era ben cosciente e consapevole della sua condotta criminosa.
La difesa, tuttavia, sostiene che l’intendimento del ricorrente era ben altro: per costui, infatti, secondo l’assunto difensivo, era indifferente che da quella condotta la Y. Italia s.r.l. conseguisse un vantaggio fiscale in quanto per l’indagato ciò che rilevava era che quelle false fatture fossero funzionali al meccanismo truffaldino ordito ai danni della società stessa (e cioè impossessarsi delle somme retrocesse dalle società cartiere).
Incontroversa la questione della configurabilità oggettiva del reato in esame, tema strettamente connesso è quello della sussistenza dell’elemento psicologico del reato in materia di frodi fiscali, costituito dal dolo specifico, in relazione all’art. 2 d.lgs. 74/2000, la cui configurabilità, come detto, viene negata dal ricorrente.
In proposito va ricordato che il dolo nel delitto di utilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, di cui al D.lgs. n. 74 del 2000, art. 2, è ravvisabile nella consapevolezza, in chi utilizza il documento in dichiarazione, che colui che ha effettivamente reso la prestazione non ha provveduto alla fatturazione del corrispettivo versato dall’emittente, conseguendo in tal modo un indebito vantaggio fiscale in quanto l’Iva versata dall’utilizzatore della fattura non è stata pagata dall’esecutore della prestazione medesima (Sez. III, n. 19012/2015).
Infatti, una volta appurata l’oggettiva sussistenza della frode attraverso la ricostruzione dei passaggi in cui, in concreto, detto meccanismo si estrinseca, è insita nella stessa gestione di fatto delle società coinvolte, e conseguentemente nella regia e supervisione delle operazioni commerciali dalle stesse poste in essere, la piena consapevolezza, in capo ai soggetti agenti, del sistema fraudolento complessivo (Sez. III, n. 18924/2017; Id., n.39541/2017).
Ora, è del tutto evidente che la difesa, con la prospettazione di cui in ricorso, finisce per sovrappone due concetti completamente diversi della teorica del diritto penale sostanziale: il dolo (nelle sue varie forme) del reato che sta ad indicare la finalizzazione della condotta al risultato voluto dalla norma (nella specie: il dolo specifico di frode fiscale di cui all’art. 2 D.lgs. 74/2000, obiettivo perfettamente in concreto conseguito dal ricorrente in concorso con il legale rappresentante della società); del tutto differente, invece, è lo scopo della condotta che può essere il più vario (nella specie: impossessarsi delle somme restituite dalle società cartiere) e che, lungi dall’interferire con il dolo, refluisce esclusivamente sul trattamento sanzionatorio (art. 133 c.p.).
Questo meccanismo, d’altra parte, è ben noto nella sistematica del codice penale e, lungi dal far andare esente da responsabilità l’agente dal primo dei reati ideati e consumati (che, si potrebbero definire, rispettivamente, reato presupposto e reato “fine”), costituisce un’aggravante, come si evince agevolmente dall’art. 61 n. 2 c.p.
Non va, per altro verso, sottaciuto come in tema di rapporti tra dolo eventuale e reati a dolo specifico, la questione in esame, è stata risolta più volte affermativamente dalla giurisprudenza di legittimità.
Precisamente, la compatibilità del dolo eventuale con il dolo specifico richiesto dal Dlgs. n. 74 del 2000, art. 2 è stata ritenuta sia perché la finalità di evadere le imposte (o di ricevere un indebito rimborso) è ulteriore rispetto al fatto tipico, sia perché il reato di cui al D.lgs. n. 74 del 2000, art. 2 è reato di pericolo e non di danno, e, quindi, prescinde da una effettiva evasione del debito tributario, sia perché, in linea generale, la prevalente giurisprudenza, specie in materia di furto e di ricettazione, ritiene compatibile dolo eventuale e dolo specifico (queste ragioni giustificative sono esposte specificamente da Cass. n. 30492/2015; Id., n. 52411/2018; Id., n. 28158/2019).
Con specifico riferimento ai reati previsti dal D.lgs. n. 74 del 2000, si osserva che il dolo specifico ha una funzione di garanzia o comunque selettiva delle condotte rilevanti, e che, da un punto di vista logico, appare arduo credere che il complesso ed articolato meccanismo fraudolento, sfociante in una dichiarazione mendace, non sia sorretto da un atteggiamento psicologico di accettazione del rischio.
Pertanto, in tema di reati tributari, il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’articolo 2 del D.lgs. 10 marzo 2000 n. 74, rappresentato dal perseguimento della finalità evasiva, che deve aggiungersi alla volontà di realizzare l’evento tipico (la presentazione della dichiarazione), è compatibile con il dolo eventuale, da intendere in termini di lucida accettazione, da parte dell’agente, dell’evento lesivo, e quindi anche del fine di evasione o di indebito rimborso, come conseguenza della sua condotta.
Va, infine, richiamata la pacifica giurisprudenza di questa Corte, citata dal Tribunale del riesame (e non contestata neppure dalla difesa), secondo la quale “in tema di reati tributari, ai fini della configurabilità del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, non è necessario, sotto il profilo soggettivo, che il fine di favorire l’evasione fiscale di terzi attraverso l’utilizzo delle fatture emesse sia esclusivo, essendo integrato anche quando la condotta sia commessa per conseguire anche un concorrente profitto personale” (ex plurimis Cass. 39316/2019).
Dal tutte le considerazioni che precedono emerge all’ evidenza che le censure di cui al primo motivo di impugnazione sono prive di fondamento alcuno.
3. Il secondo motivo può trovare accoglimento, rimanendo assorbiti gli altri.
Va premesso che il tribunale del riesame, nel confermare il titolo custodiale relativo al reato di autoriciclaggio di cui al capo 5) della incolpazione provvisoria, ha chiarito che il F. oltre a riciclare il provento della truffa di cui al capo 4) aveva reimpiegato parte del corrispettivo dell’IVA evasa, vale a dire i proventi del reato di cui al capo 1).
I giudici di merito, nel pervenire a tale conclusione, si sono, tuttavia, limitati ad affermare che appariva “suggestiva” l’ affermazione della difesa secondo cui il risparmio fiscale sarebbe stato conseguito solamente dalla società Y. Italia s.r.l. in quanto risultava incontrovertibilmente accertato che dalla società era stato drenato l’ intero importo delle fatture e che l’ importo del credito IVA era stato dirottato in parte verso il F. ovvero verso società a lui riferibili, precisando che certamente si era verificata una ipotesi di autoriciclaggio del provento della truffa .di cui al capo 4) “ma ciò non toglie che comunque sia stato oggetto di impiego la parte del corrispettivo delle fatture che rappresenta l’IVA evasa”.
Orbene in giurisprudenza è pacifico che in tema di reati tributari il profitto è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario (vedi sul punto Sez. U, Sentenza n. 18374 del 31/01/2013).
Come lamentato da parte ricorrente la motivazione si appalesa gravemente carente nella parte in cui il tribunale del riesame ha ritenuto configurabile il riciclaggio del risparmio di spesa derivante dalla minore imposta pagata per effetto del reato di cui all’art. 2 D.Lgs. 74/2000, non potendosi, certamente, ritenere che le somme ricevute dell’indagato di cui si fa cenno nell’ ordinanza impugnata (provenienti prevalentemente a titolo di corrispettivo per le fatture inesistenti) possano costituire tout court il provento del delitto di frode al capo 1).
Il Tribunale non ha, quindi, chiarito in base a quali ragioni, anche presuntive, era dato desumere che l’indagato avesse avuto, pure in concorso con il coindagato M. legale rappresentante della società Y. Italia s.r.I., la disponibilità del profitto (il “risparmio di spesa” nell’ accezione suindicata) derivante dalla commissione del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, avendo sul punto fornito indicazioni meramente apodittiche e prive di adeguato riscontro sia pure a livello indiziario.
In difetto di un simile congruo accertamento risulta fondata la contestazione secondo cui sarebbe configurabile, al più, il reato di cui all’art. 648-ter 1 comma 2 c.p. che in ragione dei limiti edittali non consente l’applicazione della misura custodiale inframuraria.
5. Di conseguenza, l’ordinanza impugnata va annullata con rinvio al Tribunale di Torino Sezione del Riesame delle misure cautelari per una nuova e motivata valutazione del compendio indiziario quanto alla configurabilità nella fattispecie in esame del reato di cui all’art. 648.1. ter comma 1 c.p. in relazione al profitto della frode fiscale.
Rimangono, conseguentemente, assorbiti per ragioni di ordine logico, il terzo motivo riguardante la verifica della sussistenza delle esigenze cautelari intimamente correlate al complessivo quadro indiziario ed anche il connesso quarto motivo relativo alla esatta individuazione del profitto da reato da sottoporre a sequestro preventivo.
6. Poiché dalla presente decisione non consegue la rimessione in libertà del ricorrente, deve disporsi – ai sensi dell’articolo 94, comma 1 ter, delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale – che copia della stessa sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario in cui l’indagato trovasi ristretto perché provveda a quanto stabilito dal comma 1 bis del citato articolo 94.
P.Q.M.
annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Torino Sezione del Riesame delle misure cautelari per nuovo esame.
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