CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 36421 depositata il 26 agosto 2019
Lavoro – Crisi d’impresa come causa di forza maggiore – Omesso versamento all’Inps delle ritenute effettuate sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti – Reato – Punibilità
Ritenuto in fatto
1. Con l’impugnata sentenza, in parziale riforma della decisione emessa dal Tribunale di Brescia e appellata dall’imputata, la Corte di appello di Brescia dichiarava non doversi procedere nei confronti di T.T. in ordine al delitto di cui all’art. 2, comma 1 bis, d.l. n. 463 del 1983 relativamente al periodo da gennaio a novembre 2010 perché estinto per prescrizione, e rideterminava in tre mesi di reclusione e 550 euro di multa la pena inflitta per i residui periodi in contestazione (dicembre 2010 e da febbraio a maggio 2011), nel resto confermando la pronuncia di primo grado.
2. Avverso l’indicata sentenza, l’imputata, per il tramite del difensore di fiducia, propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. in relazione all’art. 51 cod. pen. Assume la ricorrente che la Corte territoriale non avrebbe considerato il conflitto di doveri giuridici nel quale versava l’imputata: se pagare i propri dipendenti ovvero l’Erario, ciò che integrerebbe la causa di giustificazione prevista dall’art. 51 cod. pen. Sotto altro profilo, la Corte territoriale non avrebbe valutato la consulenza tecnica, da cui risulta che la crisi aziendale è stata determinata da una mancanza di liquidità, verificatasi nel periodo 2009-2011, a causa del venir meno delle linee di credito da parte delle banche, situazione a cui l’imputata ha cercato di rimediare rifinanziando la società per 2,8 milioni di euro.
2.2. Con il secondo Motivo si eccepisce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione all’art. 45 cod. pen. Ad avviso della ricorrente, la Corte territoriale avrebbe motivato in modo lacunoso e contraddittorio con riferimento alla possibilità di qualificare la crisi d’impresa come causa di forza maggiore, di cui, si sostiene, ricorrevano tutti i presupposti, come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità puntualmente indicata, in quanto l’imputata aveva intrapreso tutte le soluzioni alternative per fronteggiare la situazione di crisi finanziaria, come emerge dalla consulenza di parte che la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare.
2.3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen. in relazione all’art. 2, comma 1 bis, d.l. n. 463 del 1983. Secondo la ricorrente, la Corte territoriale avrebbe indicato una serie di principi non condivisibili e, comunque, non applicabili nel caso in esame, in quanto l’accertamento dell’elemento soggettivo del reato non potrebbe limitarsi a un riscontro astratto della volontarietà della condotta, ma deve indagare anche l’esigibilità in concreto del comportamento doveroso. Nel caso in esame, come ritenuto dal Tribunale, è pacifico che, avendo subito la contrazione delle linee di credito in conseguenza di vicissitudini giudiziarie personali, l’imputata abbia dovuto utilizzare la leva del debito previdenziale e assistenziale per far fronte ad altri pagamenti obbligatori, con la prospettiva di gestire in futuro gli oneri previdenziali mediante rateizzazioni, ciò che realizzerebbe l’invocata situazione di forza maggiore. La ricorrente, inoltre, contesta l’interpretazione secondo cui sul datore di lavoro graverebbe un onere di accantonamento delle somme per i contributi previdenziali, in quanto smentita dallo stesso comma 1 bis, che consente il pagamento di dette somme entro tre mesi dalla contestazione.
Considerato in diritto
1. I tre motivi, che possono essere esaminanti congiuntamente stante la stretta correlazione logica e giuridica delle censure dedotte, sono, nel complesso, infondati.
2. L’art. 2, comma 1 bis, d.l. n. 463 del 1983, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 638 del 1983, reprime la condotta del datore di lavoro che omette di versare all’INPS le ritenute effettuate sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti per un importo superiore a 10 mila euro anni; il reato è punibile a titolo di dolo generico, non essendo richiesto che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evasione contributiva.
3. A differenza di quanto opinato dalla ricorrente, specie con il terzo motivo, occorre ribadire che il debito contributivo è collegato al pagamento delle retribuzioni: ogni qualvolta il datore di lavoro effettua tali pagamenti sorge, a suo carico, l’obbligo di versare le somme dovute all’INPS, trattenendole sulle retribuzioni stesse di cui costituiscono quota parte. L’art. 2115 cod. civ., infatti, impone al datore di lavoro di versare anche la parte di contributo che è a carico del lavoratore, salvo il diritto di rivalsa. L’art. 19 l. n. 218 del 1952 prevede inoltre che “il contributo a carico del lavoratore è trattenuto dal datore di lavoro sulla retribuzione del periodo di paga cui il contributo si riferisce”; ciò significa che il datore di lavoro è il responsabile unico del pagamento dei contributi anche per la quota a carico del lavoratore.
La ritenuta deve essere riferita allo stesso periodo di paga al quale il contributo si riferisce, come si desume 1 l. n. 4 del 1953, che prevede l’obbligo, imposto al datore di lavoro, di indicare, nel prospetto paga, la distinta delle singole trattenute. Appare dunque chiaro che, attraverso il meccanismo della trattenuta, il datore di lavoro aziona e rende concreto il suo diritto di rivalsa mediante la (anticipata) costituzione della provvista finanziaria necessaria a far fronte – pro-quota lavoratore dipendente – alla sua obbligazione nei confronti dell’INPS. Il contributo, infatti, è percentualmente quantificato sull’ammontare della retribuzione lorda del lavoratore, come prevede l’art. 17 l. n. 218 del 1952, e, pur costituendone una quota ideale – perché corrispondente a una somma fisicamente non consegnata al lavoratore stesso -, si tratta pur sempre di una parte della retribuzione utilizzata dal datore a fini di rivalsa.
Tale ricostruzione non è smentita, ma confortata, dalla previsione dell’art. 1 comma 1 bis, ultima parte, secondo cui il datore di lavoro non è punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, se provvede al pagamento entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento selle violazione. Si tratta infatti di una speciale causa di non punibilità, di cui può beneficiare il datore di lavoro ove, appunto, versi integralmente quanto dovuto, così realizzando, sia pur tardivamente ma entro un limite temporale certo e predefinito, l’interesse dell’INPS alla percezione delle ritenute.
L’omesso versamento delle ritenute effettuate a fini contributivi sulle retribuzioni effettivamente corrisposte si traduce, pertanto, nella distrazione ad altri fini di somme di denaro astrattamente di pertinenza del lavoratore dipendente, il che, anticipando quanto si dirà oltre, confligge in astratto con la tesi della crisi di liquidità, logicamente contraddetta dalla disponibilità del danaro sufficiente al pagamento delle retribuzioni, onerando chi l’invoca di ben più precisi e stringenti oneri probatori.
4. Alla luce di tali premesse, non può, quindi, di regola, essere invocata, per escludere la colpevolezza, o, meglio, l’esigibilità della condotta, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte alla esigenza predetta (Sez. 3, n. 37528 del 12/06/2013 – dep. 13/09/2013, Coniano, Rv. 257683). Ciò non significa che, in astratto, siano possibili casi – il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito e, come tale, è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato – in cui possa riconoscersi l’assoluta impossibilità di adempiere l’obbligazione tributaria: ad impossibilia nemo tenetur.
A tal proposito, questa Corte ha sempre predicato la necessità che siano assolti, sul punto, precisi oneri di allegazione che, per quanto attiene alla crisi di liquidità, devono investire non solo l’aspetto circa la non imputabilità al sostituto di imposta della crisi economica, che improvvisamente avrebbe interessato l’impresa, ma anche che detta crisi non possa essere stata adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto (Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014 – dep. 15/05/2014, Zanchi, Rv. 259190, la quale ha considerato irrilevante la mancata riscossione di crediti osservando che l’inadempimento dei clienti rientra nel normale rischio di impresa). Occorre, cioè, la prova che non sia stato altrimenti possibile reperire le risorse economiche e finanziarle necessarie a consentire il corretto e puntuale adempimento dell’obbligazione contributiva, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055, che, pur pronunciate in tema di omesso versamento delle ritenute effettuate a titolo fiscale sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, esprimono principi del tutto sovrapponibili al caso di specie).
5. Rileva, sul punto, il Collegio come una siffatta situazione di impossibilità sia stata nondimeno esclusa, in fatto, dai giudici di merito, i quali hanno evidenziato come l’azienda, alla scadenza mensile della relativa obbligazione retributiva, avesse continuato a corrispondere lo stipendio ai dipendenti, come riferito dai testi B. e L., nonché a pagare i fornitori e le banche: segno che, evidentemente, come correttamente ritenuto dalla Corte territoriale (p. 7), la crisi di liquidità non era affatto assoluta e che, pertanto, l’impresa non si trovava in quella situazione di impossibilità di compiere scelte alternative, ovvero nella condizione di una condotta (omissiva) irresistibilmente coartata verso un determinato risultato o effetto (il mancato versamento delle ritenute previdenziali). Ciò che, pertanto, consente di rilevare la palese insussistenza, nella specie, di una situazione di “forza maggiore”, dedotta con il secondo motivo di ricorso.
6. Valgano, in proposito, due ulteriori considerazioni.
Sotto un primo profilo, deve osservarsi come la corresponsione, ogni mese, delle retribuzioni, non abbia consentito di dimostrare la dedotta situazione di impossibilità di adempimento delle obbligazioni previdenziali alla scadenza del termine mensile. Pertanto, la condizione di assoluta illiquidità, pur presente come dato sistemico nell’economia dell’azienda, non è stata dimostrata nella sua reale efficienza causale rispetto alla condotta omissiva.
Ma soprattutto, come più volte osservato dalla giurisprudenza di questa Corte, non è possibile riconoscere alcuna valenza esimente o anche semplicemente scusante a una situazione astrattamente idonea a escludere l’elemento soggettivo e finanche la suitas della condotta quando tale situazione sia stata preordinata alla realizzazione della condotta medesima (secondo lo schema tipico della cd. actio libera in causa) o anche solo prevista come certa o altamente probabile, secondo uno schema riconducibile al cd. dolo eventuale. E nel caso di specie, anche a voler ritenere dimostrata l’impossibilità del versamento alla scadenza del termine per gli adempimenti contributivi, l’imputata aveva previsto come risultato certo che, a fronte della reiterazione, mese dopo mese, del pagamento delle retribuzioni, non avrebbe potuto adempiere agli obblighi contributivi, essendo necessario procedere all’ulteriore pagamento delle spettanze dei lavoratori; ciò che, del resto, la stessa ricorrente ha apertamente rivendicato allorché ha sottolineato di aver scelto di pagare i dipendenti.
7. Quest’ultima osservazione, peraltro, introduce la questione, enunciata con il primo motivico di ricorso, relativa al conflitto tra l’obbligo contributivo e il diritto dei lavoratori a percepire la retribuzione agli stessi spettante, diritto avente copertura costituzionale ex art. 36 Cost. Sul punto, la difesa opina erroneamente che la condotta di omesso versamento delle ritenute previdenziali sarebbe scriminata, sul piano dell’illiceità penale, dalla scelta del datore di lavoro di destinare le somme disponibili al pagamento delle retribuzioni, sicché la decisione dell’imputata sarebbe stata “giustificata” ai sensi dell’art. 51 cod. pen. In realtà, entrambi i diritti, quello correlato all’obbligazione previdenziale e quello riferibile all’obbligo retributivo, sono considerati meritevoli di tutela e tuttavia, nel caso dell’eventuale conflitto tra essi, va privilegiato quello che, solo, riceve, secondo la non irragionevole scelta del legislatore, una tutela penalistica attraverso la previsione della fattispecie incriminatrice qui in rilievo, considerando che tale conflitto è sorto a seguito della condotta dell’imputata, la quale, come sopra si è evidenziato, ha omesso di accantonare le ritenute previdenziali, trattenendole sulle retribuzioni corrisposte mensilmente ai lavoratori. Pertanto, l’imputata avrebbe dovuto, dinnanzi al contestuale sorgere delle due obbligazioni, accantonare le somme corrispondenti al debito previdenziale, onde provvedere al versamento entro il sedici del mese successivo. Dunque, anche le relative doglianze sul punto sono infondate.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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