Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 36491 depositata il 28 agosto 2019
Reati fiscali – Omessa dichiarazione – Indagini di mercato – Rilevanza – Sussiste
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 06/12/2018 della Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Pavia del 19/03/2018 – con la quale V.M. era stato dichiarato responsabile del reato di cui all’art. 81 cpv c.p. e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5 e condannato alla pena di anni due di reclusione ed alle correlate pene accessorie – rideterminava la pena in mesi nove di reclusione, previa riconoscimento della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla recidiva di cui all’art. 99 c.p., comma 1, e riduceva a mesi nove la durata della pena accessoria dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione V.M., a mezzo del difensore di fiducia, articolando quattro motivi di seguito enunciati.
Con il primo motivo deduce violazione di legge, mancata assunzione di prove decisive e vizio di motivazione in relazione alla mancata rinnovazione dell’istruzione probatoria, lamentando che la Corte di appello aveva disatteso il relativo motivo di appello con motivazione apodittica quanto al teste P. e con omessa motivazione con riferimento ai testi M., N., C. e N..
Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione, lamentando che la Corte territoriale aveva confermato l’affermazione di responsabilità in violazione della regola di giudizio dell'”al di là di ogni ragionevole dubbio”, basandosi su atti ispettivi e di accertamento dell’Agenzia delle Entrate, pur ritenuti nulli.
Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al superamento della soglia di punibilità, lamentando che sul punto la Corte territoriale si era basata su accertamento meramente presuntivo.
Con il quarto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, avendo il ricorrente rivestito la qualifica di amministratore di diritto della società, ma non avendo di fatto gestito detta società.
Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel giudizio di appello è evenienza eccezionale, subordinata ad una valutazione giudiziale di assoluta necessità.
La rinnovazione del dibattimento, infatti, postula una deroga alla presunzione di completezza della indagine istruttoria svolta in primo grado ed ha caratteristica di istituto eccezionale, nel senso che ad essa può farsi ricorso quando appaia assolutamente indispensabile, cioè nel solo caso in cui il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti (Sez. 2, n. 8106 del 26/04/2000, Rv. 216532; Sez. 2, n. 3458 del 01/12/2005, dep. 27/01/2006, Rv. 233391; Sez. 2, 15/05/2013, n. 36630; Sez. 2, 27/09/2013, n. 41808).
Il giudice d’appello, inoltre, ha l’obbligo di disporre la rinnovazione del dibattimento solo quando la richiesta della parte sia riconducibile alla violazione del diritto alla prova, non esercitato non per inerzia colpevole, ma per forza maggiore o per la sopravvenienza della prova dopo il giudizio, o quando la sua ammissione sia stata irragionevolmente negata dal giudice di primo grado.
In tutti gli altri casi, la rinnovazione del dibattimento è rimessa al potere discrezionale del giudice, il quale è tenuto a dar conto delle ragioni del rifiuto quanto meno in modo indiretto, dimostrando in positivo la sufficiente consistenza e la assorbente concludenza delle prove già acquisite (Sez. 2, n. 45739 del 04/11/2003, Rv. 226977).
Il provvedimento di rigetto della richiesta di rinnovazione istruttoria in appello, infatti, può essere motivato anche implicitamente in presenza di un quadro probatorio definito, certo e non abbisognevole di approfondimenti indispensabili (Sez. 6, n. 11907 del 13/12/2013, dep. 12/03/2014, Rv. 259893; Sez. 4, n. 47095 del 02/12/2009, Rv. 245996).
Nella specie, la Corte territoriale, ha ribadito la valutazione di attendibilità della persona offesa ed ha esplicitamente motivato circa la non necessità di disporre una consulenza psicologica, con argomentazioni adeguata e scevra da illogicità che si sottrae al sindacato di legittimità (pag 6 della sentenza impugnata).
2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Questa Corte ha affermato che le patologie dell’avviso di accertamento si esauriscono nell’ambito del rapporto giuridico processual-tributario e attengono esclusivamente alla pretesa che con esso viene esercitata dall’Erario. Tali patologie, invece, non incidono sulla attitudine dell’atto a veicolare nel processo penale le informazioni che se ne possono trarre. In particolare, si è osservato che in sede tributaria l’avviso di accertamento è l’atto con cui l’Erario promuove la pretesa all’esatto adempimento dell’obbligazione tributaria: esso è atto di impulso che per la sua validità deve possedere specifici requisiti il cui rispetto è presidiato dalla sanzione di nullità che paralizza la pretesa stessa. In sede penale l’avviso di accertamento subisce, però, una trasformazione genetica: esso non è più atto di impulso, ma documento che veicola informazioni (Sez.3, n. 35294 del 2/04/2016, Rv. 267544, in motivazione).
La Corte territoriale, nel disattendere il motivo di appello con il quale si contestava l’utilizzabilità degli atti ispettivi e dell’avviso di accertamento come prova in sede penale, ha fatto buon governo del principio di diritto suesposto ed il motivo di ricorso, pertanto, risulta manifestamente infondato.
La doglianza, peraltro, presenta un ulteriore profilo di inammissibilità per genericità, in quanto l’accertamento tributario non ha costituito l’unica fonte di prova sulla quale si è basata l’affermazione di responsabilità, avendo i Giudici di merito dato rilievo probatorio anche ai documenti contabili.
La doglianza è, quindi, priva della necessaria specificità perché formulata senza in alcun modo prospettare a questa Corte la possibile, ed in ipotesi, decisiva influenza degli elementi asseritamente inutilizzabili sulla complessiva motivazione posta a fondamento della contestata affermazione di responsabilità.
Questa Corte, infatti, con orientamento (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 20/02/2017, Rv. 269218; Sez. 6, n. 18764 del 05/02/2014, Rv. 259452; Sez. 4, n. 18764 del 5.2.2014, Rv. 259452; Sez. 3, n. 3207 del 2.10.2014, dep. 2015, Rv. 262011) che il Collegio condivide e ribadisce, ha osservato che, nei casi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità o la nullità di una prova dalla quale siano stati desunti elementi a carico, il motivo di ricorso deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, essendo in ogni caso necessario valutare se le residue risultanze, nonostante l’espunzione di quella inutilizzabile, risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento; gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento.
3. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Va richiamato il principio di diritto, secondo cui, in tema di reati tributari, ai fini del superamento della soglia di punibilità di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, il giudice può legittimamente avvalersi dell’accertamento induttivo dell’imponibile compiuto dagli uffici finanziari (Sez. 3, n. 24811 del 28/04/2011, Rv. 250647; Sez. 3, n. 40992 del 14/05/2013, Rv. 257619).
È stato affermato, da un lato, che in tema di reati tributari, ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, il giudice può fare legittimamente ricorso ai verbali di constatazione redatti dalla Guardia di Finanza ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, nonché ricorrere all’accertamento induttivo dell’imponibile quando le scritture contabili imposte dalla legge siano state irregolarmente tenute (Sez. 3, n. 5786 del 18/12/2007 – dep. 06/02/2008, D’Amico, Rv. 238825) e, dall’altro, che il giudice può legittimamente fondare il proprio convincimento, in tema di responsabilità dell’imputato per omessa annotazione di ricavi, sia sull’informativa della G.d F. che abbia fatto riferimento a percentuali di ricarico attraverso una indagine sui dati mercato, che sull’accertamento induttivo dell’imponibile operato dall’ufficio finanziario quando la contabilità imposta dalla legge non sia stata tenuta regolarmente. Ciò a condizione che il giudice non si limiti a constatarne l’esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi in esso evidenziati, ma proceda a specifica, autonoma valutazione degli elementi nello stesso descritti comparandoli con quelli eventualmente acquisiti aliunde (Sez. 3, n. 1904 del 21/12/1999, dep. 21/02/2000, Zarbo E, Rv. 215694).
Nella specie, la Corte territoriale ha offerto sul punto articolata motivazione, basata su autonoma valutazione delle risultanze dell’accertamento induttivo in relazione ad approfondito esame del materiale probatorio acquisito (pagg. 8, 9 e 10 della sentenza impugnata), risultando, conseguentemente, accertato il superamento della soglia di punibilità.
La motivazione è congrua, logica ed in linea con i principi suesposti e si sottrae al sindacato di legittimità.
4. Il quarto motivo di ricorso ha ad oggetto censure non proponibili in sede di legittimità.
Il ricorrente, attraverso una formale denuncia di violazione di legge e vizio di motivazione, richiede sostanzialmente una rivisitazione, non consentita in questa sede, delle risultanze processuali.
Nel motivo in esame, in sostanza, si espongono censure le quali si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità, ricostruzione e valutazione, quindi, precluse in sede di giudizio di cassazione (cfr. Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, Fachini, Rv. 203767; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. 1, 16.11.2006, n. 42369, De Vita, Rv. 235507; sez. 6, 3.10.2006, n. 36546, Bruzzese, Rv. 235510; Sez. 3, 27.9.2006, n. 37006, Piras, Rv. 235508).
Tuttavia, nel ribadire che la Corte di Cassazione è giudice della motivazione, non già della decisione ed esclusa l’ammissibilità di una rivalutazione del compendio probatorio, va al contrario evidenziato che la sentenza impugnata ha fornito adeguata motivazione in merito alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, affermando che tale elemento trovava compiuta dimostrazione nella valutazione globale di plurimi elementi fattuali (l’imputato aveva ricoperto la carica di amministratore per diverso tempo, aveva di fatto continuato ad essere informato delle vicende societarie, aveva dichiarato di essere consapevole degli obblighi conseguenti all’assunzione della carica di amministratore).
L’accertamento del dolo, quale prova della coscienza e volontà del fatto, costituisce un accertamento di fatto volto a conoscere e ricostruire il fatto storico e deve fondarsi sulla considerazione di tutte le circostanze esteriori dello stesso.
La motivazione offerta dalla Corte territoriale a fondamento dell’accertamento dell’elemento psicologico ha tenuto conto di tutti gli elementi fattuali rilevanti, e si connota come adeguata e priva di vizi logici e, pertanto, si sottrae al sindacato di legittimità.
5. Consegue, pertanto, la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
6. Essendo il ricorso inammissibile e, in base al disposto dell’art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.
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