Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 36642 depositata il 29 agosto 2019
Reati fiscali – Omesso versamento Iva – Crisi di liquidità – Rimanenze magazzino – Omessa smobilizzazione – Sussiste
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’impugnata sentenza, in parziale riforma della decisione emessa dal Tribunale di Brescia e appellata dall’imputato, la Corte d’appello di Brescia riconosceva all’imputato il beneficio della non menzione ex art. 175 c.p., nel resto confermando la pronuncia di primo grado, che aveva condannato F.F. alla pena di giustizia, condizionalmente sospesa, in relazione al delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter perché, quale legale rappresentante della Telemarket spa, in relazione all’annualità 2010, non versava l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, per un ammontare complessivo pari a 2.539.828 Euro.
2. Avverso l’indicata sentenza, l’imputato, per il tramite del difensore di fiducia, propone ricorso per cassazione, affidato a un unico, articolato, motivo, con cui deduce violazione di legge con riferimento all’art. 43 c.p. e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter in relazione alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo e correlato vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Ad avviso del ricorrente, la Corte territoriale avrebbe desunto, in maniera illogica, la sussistenza del dolo dal fatto che, nonostante la crisi aziendale e la conseguente crisi di liquidità, il F. avesse provveduto al pagamento al pagamento delle retribuzioni, con ciò ritenendo che l’impossibilità ad adempiere non avesse carattere assoluto; in tal modo, si obietta, la Corte territoriale avrebbe indebitamente confuso il piano della forza maggiore con quello della prova dell’elemento soggettivo, errore stigmatizzato, in una vicenda analoga, da Cass., Sez. III, 23/11/2017, n. 6737. Parimenti, nemmeno potrebbe assumere una valenza dimostrativa del dolo la circostanza che per il mese di dicembre 2010 l’imputato versò l’acconto IVA, non potendo la sussistenza dell’elemento soggettivo essere ritenuta sulla base della constatata esistenza di altri pagamenti, alcuni dei quali in favore proprio dell’Erario.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. In premessa, va evidenziato che si è in presenza di una “doppia conforme” statuizione di responsabilità, il che limita all’evidenza i poteri di rinnovata valutazione della Corte di legittimità, nel senso che, ai limiti conseguenti all’impossibilità per la Cassazione di procedere ad una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perché è estraneo al giudizio di cassazione il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati probatori, si aggiunge l’ulteriore limite in forza del quale neppure potrebbe evocarsi il tema del “travisamento della prova”, a meno che (ma non è questo il caso, alla luce dei motivi di ricorso) il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che, in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano.
Va, poi, ulteriormente precisato che, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 – dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011 – dep. 12/04/2012, Valerio, Rv. 252615).
3. Ciò premesso, con riguardo al delitto previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter va osservato che nella sostituzione tributaria, il sostituto, quale debitore di una somma costituente reddito per il sostituito, allorché procede al versamento in favore di quest’ultimo, deve trattenere una percentuale dell’emolumento (c.d. ritenuta alla fonte) per poi versarlo all’Erario nel termine di legge. Il debito verso il fisco relativo al versamento delle ritenute è collegato con quello dell’erogazione degli emolumenti ai collaboratori: ogni qualvolta il sostituto d’imposta effettua tali erogazioni, deriva, quindi, a suo carico l’obbligo di accantonare le somme dovute all’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria.
Pertanto, la situazione di chi non versa l’imposta si risolve, di regola, in una condotta, cosciente e volontaria, la quale, in modo progressivo, si articola, in un primo momento, con il mancato accantonamento delle somme trattenute, successivamente con l’omesso versamento secondo le cadenze previste dalla normativa tributaria e, infine, con la prosecuzione della condotta omissiva fino al termine ultimo fissato dalla norma penale. Il legislatore ha ritenuto, dunque, di tutelare non qualsiasi tributo non versato, ma solo quelli dovuti all’erario e trattenuti dal contribuente e che, fin dall’origine, avevano un preciso vincolo di destinazione.
Sotto il profilo soggettivo, va osservato che, mentre molte delle condotte penalmente sanzionate dal D.Lgs. n. 74 del 2000, richiedono che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte, questa specifica direzione della volontà non emerge dal testo del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter che, pertanto, è punito a titolo di dolo generico, per la cui integrazione è, perciò, sufficiente la consapevolezza, in capo all’agente, di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato, consapevolezza che deve investire anche la soglia di punibilità, la quale, contribuendo a definirne il disvalore, è un elemento costitutivo del fatto.
4. Alla luce di tali premesse, non può, quindi, di regola, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte alla esigenza predetta (Sez. 3, n. 37528 del 12/06/2013 – dep. 13/09/2013, Corlianò, Rv. 257683).
Ciò non significa che, in astratto, siano possibili casi – il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito e, come tale, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato – in cui possa invocarsi l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere l’obbligazione tributaria. È tuttavia necessario che siano assolti precisi oneri di allegazione che, per quanto attiene alla crisi di liquidità, devono investire non solo l’aspetto circa la non imputabilità al sostituto di imposta della crisi economica, che improvvisamente avrebbe interessato l’impresa, ma anche che detta crisi non possa essere stata adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto (Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014 – dep. 15/05/2014, Zanchi, Rv. 259190, la quale ha considerato irrilevante la mancata riscossione di crediti osservando che l’inadempimento dei clienti rientra nel normale rischio di impresa; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013 – dep. 04/02/2014, Mercutello, Rv. 258055). Occorre, cioè, la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055; Sez.3, n. 43599 del 09/09/2015, dep.29/10/2015, Rv. 265262).
5. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi ora ricordati, valorizzando, in proposito, un dato dirimente, con il quale non si confronta il ricorrente, ossia che, al momento della scadenza del termine per il pagamento dell’iva, la società disponeva di una rimanenza di magazzino per oltre 86 milioni di Euro, il cui smobilizzo avrebbe ampiamente consentito di assolvere al debito tributario.
Come correttamente evidenziato dalla Corte, il ricorrente ha deliberatamente scelto di non smobilizzare, anche in parte, il magazzino pur di tutelare il patrimonio aziendale e di “salvaguardare” il futuro della società; si è trattato perciò di una decisione non coattivamente imposta, ma liberamente presa dal F., che, come logicamente desunto dalla Corte di appello, con il suo contegno ha dimostrato la volontà di privilegiare l’equilibrio finanziario della società a discapito dell’adempimento dell’obbligazione tributaria.
È ben vero che, nei reati omissivi propri, come quello in esame, occorre prima verificare la concreta possibilità per l’agente di adempiere, ossia l’esigibilità della condotta (perché ad impossibilia nemo tenetur) e quindi accertare la sussistenza dell’elemento soggettivo, ossia se l’omissione fu consapevole e volontaria.
Nel caso in esame, come detto, è pacifico che il F. fosse nelle condizioni di poter adempiere, se solo l’avesse voluto, avendo la società un magazzino del valore di 86 milioni di Euro, ampiamente superiore all’importo da versare all’Erario; nondimeno, il F. decise di non ricorrere a quella risorsa, con ciò dimostrando la volontà di non adempiere all’obbligazione tributaria, pure avendone la possibilità, ciò che integra il dolo richiesto dalla fattispecie in esame.
6. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13/06/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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