CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 36699 depositata il 30 agosto 2019
Reati tributari – Fatture per operazioni inesistenti – Acquisti da società “cartiere” – Prova contraria di effettiva esistenza delle operazioni – Deduzione negli atti del processo di appello – Omesso esame delle questioni dedotte – Vizio di motivazione della sentenza
Ritenuto in fatto
1. La Corte di appello di Roma con la sentenza del 24 settembre 2018, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Roma del 26 ottobre 2010 (nel dispositivo erroneamente è indicata la data del 26 agosto 2016), ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di E.T., quale legale rappresentante della s.r.l. C.E.T., perché estinti per prescrizione i reati di cui ai capi a) e b) ex art. 2 d.lgs. 74/2000 per l’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti emesse dalla M.T. s.r.l. nelle dichiarazioni annuali 2009 e 2010, con un importo di Iva evasa rispettivamente di € 2.504,54 e 2.547,44.
La Corte territoriale ha invece confermato la condanna inflitta a E.T. per i reati di cui ai capi c) e d) ex art. 2 d.lgs. 74/2000 per l’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti emesse dalla M. s.r.l. nelle dichiarazioni 2011 e 2012, con un importo di Iva evasa rispettivamente di € 8.059,56 e 1.043,67 ed ha rideterminato la pena in anni uno, mesi 6 giorni 20 di reclusione, confermando nel resto la sentenza di primo grado.
2. Il difensore di E.T. ha proposto il ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Roma del 24 settembre 2018.
2.1. Con il primo motivo si deducono l’erronea applicazione del principio del ne bis in idem e del principio di specialità ed il vizio della motivazione nella forma del travisamento per invenzione. In estrema sintesi, in punto di diritto si richiama la tesi della sussistenza del ne bis in idem nei reati tributari ove per lo stesso fatto sia stata irrogata anche la sanzione amministrativa, ritenuta di natura sostanzialmente penale.
Si richiamano le norme interne (art. 19, 20 e 21 del d.lgs. 74/2000), l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), l’art. 4 protocollo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, gli artt. 111, 27 comma 3 Cost.; le sentenze Grande Stevens c. Italia (Cedu del 4 marzo 2014) e della Corte di Giustizia, l’interpretazione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sull’art. 649 cod. pen. (n.34655/2005). Si richiamano poi i principi espressi dalla Cedu con le sentenze successive alla Grande Stevens c. Italia e da alcune sentenze del Tribunale di Asti.
La Corte di appello avrebbe errato nell’applicare i principi su esposti ritenendo che vi sia una differenza tra l’illecito amministrativo e quello penale fondata sul dolo specifico ed in punto di fatto avrebbe erroneamente ritenuto che non vi sia identità soggettiva tra il destinatario della sanzione amministrativa e quella del processo penale: la Corte di appello avrebbe erroneamente indicato che il ricorrente sia il legale rappresentante della s.r.l. C., mentre gli avvisi di accertamento riguardavano la s.r.l. C..
Il travisamento della prova sarebbe evidente perché l’identità soggettiva sarebbe sussistente in quanto la società s.r.l. C. è stata destinataria del medesimo accertamento, concretizzatosi nel verbale di constatazione del 10 luglio 2013, da parte della Guardia di Finanza che ha generato sia il processo penale che quello tributari. Gli avvisi di accertamento sono stati notificati all’imputato quale legale rappresentante della s.r.l. C.; pertanto vi sarebbe l’identità soggettiva che avrebbe dovuto indurre la Corte di appello, anche per i reati prescritti a dichiarare il bis in idem.
2.2. Con il secondo motivo, si deduce il vizio della motivazione per il travisamento della prova dichiarativa. Si rileva che con il motivo di appello si era ricordata la natura bifasica del reato, per cui era necessario individuare sia la fattura inesistente che l’utilizzazione in sede di dichiarazione. Se il primo profilo risulterebbe provato dall’acquisizione della comunicazione di notizia di reato, il secondo sarebbe stato erroneamente ritenuto in base alle dichiarazioni del Luogotenente M.. Inoltre, sono state acquisite le dichiarazioni Iva, ma dalle stesse non potrebbe desumersi l’utilizzazione delle fatture ritenute inesistenti; né la Guardia di Finanza avrebbe effettuato una verifica completa, acquisendo tutte le fatture attive e passive, e tutte le dichiarazioni, per accertare l’utilizzazione delle fatture.
L’unico teste escusso, il Luogotenente M., ha riferito sulle società cartiere, la M.T. e la s.r.l. M., avrebbe riferito che nei confronti della C. era stato effettuato solo un controllo per vedere «se queste fatture … erano state regolarmente annotate nella contabilità e se le stesse avessero partecipato alla … dichiarazione annuale della società, queste fatture erano registrate nella documentazione contabile, nei registri … degli acquisti ed hanno partecipato alle dichiarazioni annuali». La dichiarazione del teste non sarebbe supportata da adeguata documentazione probatoria; non sono state prodotte in giudizio le fatture e le scritture contabili. Secondo il ricorrente, trattandosi di fatture soggettivamente inesistenti, mancherebbero sia l’inserimento in dichiarazione di elementi passivi fittizi, essendo l’operazione esistente, sia il dolo specifico. La prestazione sarebbe stata eseguita ed il costo della fattura effettivamente sostenuto; non vi sarebbe stata alcuna frode al fisco.
2.3. Con il terzo motivo si deduce la carenza di motivazione quanto alla prova documentale prodotta dalla difesa e l’illogicità e contraddittorietà della motivazione quanto al rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. Lo schema accusatorio accolto in primo grado sarebbe quello delle cd. frodi carosello. Con l’appello si produsse documentazione volta a smentire l’inesistenza delle operazioni, e si richiese la rinnovazione dell’istruzione mediante l’esame di 3 testi (i responsabili degli uffici acquisti, contabilità e fornitori della s.r.l. C.) sulla natura dei rapporti con G.R., referente della s.r.l. M.T. e della s.r.l. M., di quest’ultimo e del dottor P.B. sull’analisi della contabilità della C. oggetto della relazione a sua firma.
Dopo aver riportato la sintesi della motivazione della sentenza impugnata sulla qualità di cartiere della s.r.l. M.T. della s.r.l. M., si rileva che la Corte di appello non avrebbe valutato la produzione documentale della difesa volta a dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni, né valutato che il ricorrente, che aveva pagato gli acquisti, non sapeva che le società non avevano versato somme all’erario. I pagamenti risulterebbero dall’analisi incrociata degli estratti conto e del libro giornale; solo per mero errore materiale, le fatture emesse dalla M.T. s.r.l. sono state registrate sotto la denominazione della s.r.l. E., facendo parte le due società dello stesso gruppo.
Quanto alle prove orali richieste, avrebbero avuto il requisito di novità, non essendo stata presentata in primo grado alcuna lista testi.
Dopo aver ricostruito in diritto l’ipotesi dell’uso delle fatture per le operazioni soggettivamente inesistenti e del meccanismo delle cd. frodi carosello, si ritiene che la prova dell’accordo tra operatore comunitario, interposto ed interponente, è un requisito indispensabile per provare l’esistenza del reato contestato; non basterebbe provare che l’iva non sia stata versata dall’interposto né l’esistenza della triangolazione che potrebbe avere solo ragioni economiche.
Si ribadisce che le fatture, prodotte dalla difesa, si riferiscono ad operazioni oggettivamente esistenti come emerge dai documenti contabili e dalla consulenza contabile.
La motivazione sul rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale sarebbe stata di stile e rilevando che la documentazione avrebbe dovuto essere prodotta tempestivamente, senza confrontarsi con il deficit verificatosi in primo grado, allorché la difesa dell’imputato non aveva chiesto alcuna attività istruttoria.
Sul punto si richiama Cass. N. 10542/2012; dopo la parte in diritto sulla rinnovazione ex art. 603 cod. proc. pen., si ribadisce che la motivazione sul rigetto sarebbe apparente ed insufficiente, senza valutare che le prove orali avrebbero potuto smentire un elemento costitutivo della fattispecie, la conoscenza del carattere fittizio delle società cartiere; da qui la rilevanza della richiesta ex art. 603 cod. proc. pen.
2.4. Con il quarto motivo, si deduce la mancanza di motivazione ed il travisamento della prova dichiarativa quanto al dolo specifico, ritenuto dalla Corte di appello solo per essere le M.T. e la M. due società cartiere.
Alcuna motivazione è stata espressa sulla documentazione prodotta in appello, ritenuta intempestiva ma di cui si era chiesto l’acquisizione ex art. 603 cod. proc. pen.
Le dichiarazioni del Luogotenente M., sarebbero state travisate per omissione, quanto alle modalità telefoniche e telematiche del contatto tra la società rappresentata dall’imputato e le cartiere; da tale circostanza dovrebbe dedursi l’assenza del dolo perché l’imputato, avendo tenuto dei contatti a distanza, poteva essere ignaro degli elementi ritenuti significativi della qualità di cartiera.
Si richiama, quanto alla prova del dolo specifico, la sentenza della Corte di Cassazione n.38394/2018; la Corte di appello avrebbe invece ritenuto la responsabilità per il solo fatto di aver intrattenuto rapporti commerciali con la cartiera, senza alcun accertamento concreto sul dolo specifico.
La consapevolezza della natura soggettivamente fittizia della emittente è stata fatta discendere dal valore sottocosto della merce, agevolmente percepibile per un operatore commerciale delle dimensioni della C.; dalla totale assenza di strutture di vendita delle cartiere; dal costante acquisto mediante anticipazione del prezzo della merce.
Tale consapevolezza sarebbe però insussistente perché la C. è un operatore di non importanti dimensioni, perché la vendita di televisori o piccoli elettrodomestici era svolta solo nel piccolo negozio di via dei Gracchi, mentre l’attività principale era la vendita all’ingrosso di prodotti di illuminoteca.
Il valore sottocosto della merce era giustificato dal fatto che la garanzia dei prodotti acquistati era comunitaria europea e non italiana.
La sentenza impugnata non avrebbe preso in considerazione ai fini della consapevolezza della qualità di cartiera, quanto emerso dall’informativa di reati e dalla deposizione del teste G.M.: che i rapporti erano avvenuti sempre in via telefonica e telematica; che l’amministratore delegato mai era andato presso le sedi delle società cartiere; che la C. era a conoscenza dell’esistenza di magazzini delle società, siti in via S..
Né è stato valutato che il pagamento anticipato della merce garantiva un ulteriore sconto.
La motivazione pertanto sarebbe mancante quanto all’esistenza di un altro soggetto con poteri gestionali, l’amministratore delegato M.T., il quale riferì dei rapporti con G.R. sulle operazioni, e che si sarebbe occupato di tali affari, avendone le deleghe.
Non sarebbero stati acquisiti elementi per ritenere che il ricorrente avesse poteri gestionali, dovendosi ritenere, anche per l’età, che avesse solo un ruolo formale di rappresentanza.
1. Il primo motivo è manifestamente infondato perché contrario al costante orientamento della Corte di Cassazione.
1.1. Va preliminarmente rilevato che nel ricorso si rappresenta che le sanzioni tributarie sono state inflitte alla s.r.l. C., di cui il ricorrente è il legale rappresentante; ciò determina, oltre all’irrilevanza dell’errore della Corte di appello nell’indicazione della società (C. anziché C.), una fondamentale differenza tra la responsabilità della persona giuridica a fini tributari quale contribuente, che può colpire l’ente che è portatore di una sua soggettività autonoma, e la responsabilità penale personale dell’amministratore della società persona giuridica, collegata all’inadempimento doloso dell’obblighi relativi al pagamento dell’Iva.
1.2. Vanno pertanto ribaditi i principi espressi da Cass. Sez. 3, n. 35156 del 01/03/2017, Palumbo, Rv. 270913, in tema di confisca, e da Cass. Sez. 3, n. 54372 del 16/10/2018, Benedetti, sul reato di cui all’articolo 10-quater del d.lgs. 74/2000: non sussiste la violazione del principio del ne bis in idem convenzionale, come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nella causa A e B c. Norvegia del 15 novembre 2016, nel caso in cui con la sentenza di condanna per reati tributari commessi in qualità di amministratore di una società sia disposta, nei confronti della società, anche la sanzione tributaria.
Le sanzioni conseguenti alle violazioni tributarie sono state disposte nei confronti della persona giuridica e non della persona fisica: sono dunque insussistenti i presupposti per ravvisare una duplicazione di sanzioni nei confronti del medesimo soggetto a seguito delle medesime condotte, difettando il connotato ineludibile della identità dei soggetti sanzionati.
1.3. La Corte di Cassazione, con la sentenza Palumbo, ha ricordato che la Corte di giustizia UE, IV sezione, nella sentenza 5 aprile 2017, Orsi (C-217/15) e Baldetti (C-350/15), ha posto un punto fermo in relazione alla legittimità dell’articolazione normativa del doppio binario punitivo in materia tributaria nel nostro ordinamento.
La Corte di giustizia UE ha affermato che «L’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che consente di avviare procedimenti penali per omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto dopo l’irrogazione di una sanzione tributaria definitiva per i medesimi fatti, qualora tale sanzione sia stata inflitta ad una società dotata di personalità giuridica, mentre detti procedimenti penali sono stati avviati nei confronti di una persona fisica», sottolineando la necessità, per l’applicazione del divieto di bis in idem, che debba essere la stessa persona ad essere sottoposta ad una doppia sanzione per uno stesso fatto.
1.4. Correttamente la Corte di appello ha rigettato la questione, perché dalle stesse affermazioni della difesa emerge che tale ipotesi non ricorre nel caso in esame, nel quale le sanzioni sono state disposte nei confronti della persona giuridica. Tali principi sono stati ribaditi di recente da Cass. Sez. 3, sentenza del 09/04/2019, Idini, non massimata.
2. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
Emerge dal brano della testimonianza del Luogotenente M. riportato nel ricorso che le fatture emesse dalle società cartiere, la M.T. e la s.r.l. M., in base al controllo effettuato, erano state inserite in contabilità e nelle dichiarazioni annuali: «se queste fatture … erano state regolarmente annotate nella contabilità e se le stesse avessero partecipato alla … dichiarazione annuale della società, queste fatture erano registrate nella documentazione contabile, nei registri … degli acquisti ed hanno partecipato alle dichiarazioni annuali». Va dunque escluso che la Corte di appello abbia travisato la dichiarazione del teste.
3. Il terzo ed il quarto motivo sono fondati nel senso che segue.
3.1. Se sulla prova orale richiesta con l’appello la corte territoriale ha ritenuto il processo decidibile allo stato degli atti, quanto alla prova documentale la motivazione del rigetto dell’acquisizione sulla tardività è manifestamente illogica. Ed invero, la produzione documentale è ammissibile anche nel giudizio di appello pur in assenza di una formale dichiarazione di rinnovazione dell’istruzione purché sia garantito il contradittorio e se ne verifichi la rilevanza.
I documenti di cui si era chiesta l’acquisizione erano gli avvisi di accertamento, strumentali alla decisione sul bis in idem di cui al primo motivo di appello; le fatture ritenute soggettivamente inesistenti, che costituirebbero per altro il corpo del reato; una consulenza contabile, di cui però non si indica se sia stata redatta prima o dopo la sentenza di primo grado; i documenti contabili, strumentali alla richiesta della difesa di dimostrare l’effettivo pagamento.
3.2. I motivi relativi al vizio della motivazione sull’elemento soggettivo del reato sono fondati avendo la Corte di appello omesso la risposta ai motivi di appello.
3.2.1. Il giudice di primo grado, pur rilevando che gli importi riportati nelle fatture emesse dalle società cartiere rappresentavano un’esigua percentuale rispetto al volume di affari della s.r.l. C., ha ritenuto provato l’elemento soggettivo del reato in base alla totale assenza di strutture o sedi di vendita delle due cartiere, sul costante acquisto mediante anticipazione del prezzo della merce ed il valore sottocosto, agevolmente percepibile da un operatore commerciale di importanti dimensioni, la reiterazione degli episodi per 4 annualità.
Tali elementi fecero escludere l’episodicità o occasionalità dei rapporti e la non consapevolezza della natura fraudolenta delle operazioni.
Aggiunse il Tribunale che era anomalo che la C. aveva effettuato gli acquisti senza verificare la reale esistenza ed operatività del venditore.
3.2.2. Con il motivo di appello furono proposte specifiche contestazioni alla motivazione della sentenza di primo grado, rilevando che le operazioni erano oggettivamente esistenti, avendo la C. pagato i corrispettivi; che dalla deposizione del m.llo G.M. e dalla informativa di reato acquisita in atti era invece emerso che la C. aveva avuto contatti sia informatici che telefonici; che il signor T. era a conoscenza di una sorta di deposito in via S., pur non essendo mai stato nella sede della società.
Tali dichiarazioni erano state confermate da M.T., amministratore delegato anche quanto all’esistenza del deposito, dedotta dalla difesa anche dalla regolarità delle consegne, il quale riferì anche dei rapporti con G.R. – che si comprende essere stato il soggetto che operava mediante le cartiere.
Quanto allo sconto, si rilevava che l’anticipazione del prezzo ne consentiva l’ulteriore abbattimento.
3.2.3. Orbene, la Corte di appello a pagina 7 della sentenza, nonostante le specifiche doglianze, ha riproposto le stesse argomentazioni della sentenza di primo grado, senza affrontare le questioni di merito dedotte, fondate per altro su atti processuali debitamente citati ed in parte testualmente riportati. In tal modo non ha risposto al motivo di appello incorrendo nel vizio della mancanza di motivazione.
Va disposto, sui punti ora indicati, l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Roma.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Roma.
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