CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 36737 depositata il 21 dicembre 2020

Omesso versamento delle ritenute previdenziali sulle retribuzioni versate ai dipendenti – Responsabilità penale – Prova dell’effettiva corresponsione delle retribuzioni – Contestazione del reato in qualità di imprenditore individuale ovvero di legale rappresentante di una società commerciale – Determinazione della pena per le residue omissioni

Ritenuto in fatto

Con sentenza del 17 dicembre 2014 la Corte di appello di Brescia, decidendo sulla impugnazione presentata dalla imputata, ha solo in parte confermato la decisione con la quale il precedente 3 novembre 2010 il Tribunale di Bergamo aveva dichiarato la penale responsabilità di F.C. in ordine al reato a lei contestato ed avente ad oggetto la violazione dell’art. 2 della legge n. 638 del 1983, per avere omesso la stessa, in qualità di datore di lavoro, il versamento delle ritenute previdenziali a suo carico sulle retribuzioni versate ai propri dipendenti relativamente ai seguenti periodi: settembre, ottobre e dicembre 2006; gennaio, febbraio, marzo aprile giugno, luglio e agosto 2007.

Come detto in sede di gravame la Corte bresciana ha prosciolto la imputata quanto alle omissioni riguardanti le mensilità dell’anno 2006 e per quelle di gennaio e febbraio 2007, stante la intervenuta prescrizione dei relativi reati, ed ha, pertanto, ridotto la pena inflitta alla imputata, portandola da giorni 40 di reclusione ed euro 200,00 di multa alla pena di mesi 1 e giorni 7 di reclusione ed euro 150,00 di multa.

Avverso la predetta sentenza ha interposto ricorso per cassazione la difesa della F., articolando 3 motivi di ricorso.

Il primo attiene alla ritenuta violazione di legge per non avere la Corte territoriale rilevato la nullità del capo di imputazione contestato alla F. in quanto in esso non sarebbe stato specificato in modo chiaro e preciso in quale veste la imputata avrebbe risposto del reato a lei contestato, cioè se la stessa debba rispondere del reato in questione in quanto legale rappresentante di una persona giuridica ovvero in quanto imprenditore individuale.

Il secondo motivo riguarda la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata nonché la violazione di legge per avere la Corte territoriale ritenuto che fosse fonte di prova dell’avvenuto versamento delle retribuzioni in favore dei dipendenti l’avvenuta acquisizione dei modelli DM 10 relativi alla F.

Infine, con il terzo motivo è stata censurata sulla base dei medesimi parametri evocati nella precedente doglianza l’entità della riduzione della pena, di fatto contenuta in solo 3 giorni di reclusione in meno di quelli che erano stati inflitti dal giudice di primo grado.

Considerato in diritto

Il ricorso è risultato inammissibile e come tale deve, pertanto, essere dichiarato.

Riguardo al primo motivo di impugnazione, avente ad oggetto la ritenuta nullità del capo di imputazione per la sua pretesa genericità, in quanto non sarebbe stato chiarito in esso a quale titolo – cioè se come imprenditore individuale ovvero come legale rappresentante di una società commerciale – la F. dovesse rispondere del reato a lei contestato, ne rileva la Corte la evidente genericità.

Deve, in primo luogo, essere ribadita l’affermazione che la necessaria “enunciazione del fatto (contestato), in forma chiara e precisa” che, secondo i termini dell’art. 552, comma 1, lettera c), deve formare, fra l’altro, il contenuto del decreto di citazione a giudizio dell’imputato, a pena di nullità dell’atto nel caso in cui siffatta enunciazione manchi ovvero sia insufficiente (così come imposto dall’art. 552, comma 2, cod. proc. pen.), è funzionale alla concreta possibilità per il ricorrente di esercitare adeguatamente il proprio diritto di difesa, costituzionalmente garantito in ogni stato e grado del procedimento (art. 24 della Costituzione), essendo evidentemente assai arduo difendersi rispetto ad un’accusa che sia indeterminata e di vago contenuto (sulla immediata correlazione fra genericità o semplice indeterminatezza dell’imputazione e concreto esercizio del diritto di difesa, stante l’impossibilità per l’interessato di effettuare in siffatte condizioni scelte meditate sulla linea da assumere per la propria tutela giudiziaria, fra le altre: Corte di cassazione. Sezione III penale, 7 febbraio 1992, n. 1077).

Da tale, pur fondamentale, principio consegue, quale reciproco corollario, sia la considerazione che laddove non vi sia un’apprezzabile violazione del diritto di difesa non vi è alcuna ragione per fare conseguire la radicale sanzione della nullità dell’atto ad una qualche non puntu

alità della descrizione della fattispecie contenuta nella contestazione giudiziale elevata a carico dell’imputato, sia la indispensabilità della indicazione da parte dell’eccipiente delle ragioni per le quali l’eventuale genericità della contestazione si risolverebbe in un vulnus in danno del diritto di difesa.

Nell’occasione, ritiene il Collegio, che né l’una né l’altra condizione sopra indicata si sia verificata.

Infatti, quanto alla prima si osserva che, se è ben vero che il capo di imputazione non precisa se la contestazione sia stata formulata a carico della F. in quanto imprenditrice individuale ovvero in quanto legale rappresentante di una società commerciale, è altrettanto vero che la stessa le è stata elevata in qualità di soggetto datore di lavoro, posto che diversamente non avrebbe significato, oltre alla stessa imputazione, essendo essa necessariamente connessa a tale qualifica, il riferimento alla “retribuzioni dei (scilicet: lavoratori) dipendenti” contenuto nel capo di imputazione.

Siffatta indicazione già chiarisce l’ambito operativo in seno al quale è maturata la contestazione mossa alla ricorrente, chiarimento già di per sé sufficiente, in linea di principio, in ragione della puntuale delimitazione dell’ambito in questione, a consentire un’adeguata gestione delle modalità di esercizio del diritto alla difesa ed ad escludere in radice, pertanto, la fondatezza del motivo di ricorso.

Siffatto rilievo potrebbe essere ingiustificato, e qui si annida in sostanza il vizio di genericità del motivo di impugnazione, laddove la F., stante il multiforme atteggiarsi delle sue attività imprenditoriali, fosse (peraltro nello stesso torno di tempo interessato dall’illecito attribuitole) titolare sia di più cariche operative in diverse compagini sociali sia titolare di imprese individuali, di tal che sarebbe stata necessaria una ulteriore specificazione, rispetto a quella di datore di lavoro, della qualifica in base alla quale le era stata mossa la contestazione di cui al capo di imputazione.

Di tale eventuale circostanza, la sola che in astratto avrebbe potuto rendere rilevante la censura dedotta in relazione al tenore testuale della formula accusatoria utilizzata nel capo di imputazione a lei contestato, tuttavia la F. non ha fornito alcun elemento, essendosi ella limitata ad una generica lagnanza in ordine alla chiarezza e precisione della enunciazione del fatto a contestato contenuta nel capo di imputazione.

Il motivo di ricorso è, pertanto, inammissibile.

Passando al successivo, afferente alla prova dell’avvenuto pagamento delle retribuzioni ai propri dipendenti, presupposto per la commissione del reato a lei ascritto, rileva il Collegio che la costante, ed ora pienamente condivisa, giurisprudenza di questa Corte è saldamente attestata sulla affermazione per la quale in tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate dal datore di lavoro, i modelli DM 10, formati secondo il sistema informatico UNIEMENS, possono essere valutati come piena prova della effettiva corresponsione delle retribuzioni, trattandosi di dichiarazioni che, seppure generate dal sistema informatico dell’INPS, sono formate esclusivamente sulla base dei dati risultanti dalle denunce individuali e dalla denuncia aziendale fornite dallo stesso contribuente (Corte di cassazione, Sezione III penale, 10 ottobre 2016, n. 42715; sulla idoneità probatoria dei DM 10, anche solo nella copia messa a disposizione dei lavoratori, Corte di cassazione, Sezione III penale, 13 febbraio 2018, n. 6934).

Il ricorso è, pertanto, inammissibile anche quanto a tale secondo motivo di impugnazione.

Venendo al terzo motivo, formulato in relazione alla determinazione della pena per le residue omissioni rimaste a carico della F., si rileva quanto segue: ai fini della effettiva valutazione della entità della riduzione della pena operata dalla Corte di appello di Brescia per effetto dell’avvenuto proscioglimento della imputata in ordine a taluna delle mensilità per le quali la stessa aveva omesso il versamento all’INPS dei contributi previdenziali posti a suo carico, deve considerarsi preliminarmente che, nel determinare la pena inflitta alla F., il Tribunale, errando, aveva operato nel senso di calcolare la pena base, nella misura di giorni 40 di reclusione ed euro 200,00 di multa, aumentandola, stante la continuazione derivante dalle diverse omissioni riscontrate sino a giorni 60 di reclusione ed euro 300,00 di multa, solo a questo punto il Tribunale ha ridotto la intera pena, come sopra calcolata, di un terzo per effetto delle riconosciute circostanze attenuanti generiche.

In tale modo, però, il Tribunale ha violato quanto disposto dall’art. 81, cpv, cod. pen., il quale prevede che in caso di continuazione fra reati la pena va determinata attraverso un aumento di pena, non superiore al triplo, da applicarsi sulla pena che sarebbe stata inflitta per il più grave fra i reati avvinti dalla continuazione, intendendosi con ciò che il parametro sanzionatorio da prendersi quale riferimento per il dosaggio dell’aumento o degli aumenti concernenti i reati satelliti debba essere la pena in concreto da infliggersi per il reato più grave, dosata questa avendo ad essa già applicato gli aumenti ovvero le diminuzioni derivanti dall’esistenza di eventuali elementi accessori.

Diversamente operando si otterrebbe l’effetto, perverso, di accrescere ovvero di diminuire l’entità dell’aumento di pena derivante dalla continuazione a seconda che il reato più grave sia, a sua volta, corredato di aggravanti o di attenuanti, laddove l’aumento ex art. 81, cpv, cod. pen. deve essere, invece, calcolato a prescindere dalla incidenza degli elementi accidentali pertinenti al reato considerato più grave, calcolando, semmai, l’incidenza che su tale aumento possano avere gli elementi accidentali ove gli stessi siano immediatamente riferibili ai singoli reati satelliti, seppure per avventura riguardanti, come avviene per lo più in caso di circostanze attenuanti generiche, anche la fattispecie criminosa più grave.

Ciò posto si rileva che, ripristinando la correttezza del calcolo della pena – senza che ciò abbia comportato, stante il maggior favore per l’imputata del risultato finale in tal modo raggiunto, la violazione del divieto di reformatio in pejus – la Corte di Brescia ha, invece, determinato la pena, quanto alla sua base, nella medesima misura di giorni 40 di reclusione ed euro 200,00 di multa a suo tempo indicata dal Tribunale, ma ha immediatamente provveduto alla riduzione della medesima di un terzo per effetto delle attenuanti generiche ed ha, quindi, apportato sulla risultante pena, pari a giorni 27 di reclusione ed euro 133,33 di multa, l’aumento per effetto della ritenuta continuazione, contenendolo complessivamente in giorni 10 di reclusione ed euro 16,66 di multa, giungendo, pertanto ad una pena finale di giorni 37 di reclusione ed euro 150,00 di multa.

Essendo stata così ripristinata la legalità del procedimento di determinazione della pena, si rileva che l’entità dell’aumento ex art. 81, cpv., cod. pen. a suo tempo applicato dal Tribunale era stato pari a giorni 20 di reclusione ed euro 100,00 di multa, mentre quello applicato dalla Corte di appello, dovuto al parziale proscioglimento della F. quanto a taluni reati satelliti oramai estinti per prescrizione, è stato pari, quanto alla pena detentiva, alla metà di quello precedentemente inflitto e quanto alla pena pecuniaria a meno della quinta parte di essa.

Ciò posto si rileva – considerata la ampia discrezionalità che il giudice ha nel determinare, salvo il duplice limite del triplo della pena inflitta per il reato più grave e quello della invalicabilità della pena che sarebbe stata inflitta ove si fosse applicato il regime sanzionatorio del cumulo materiale, l’aumento di pena ex art. 81, cpv., cod. pen. – che nel caso di specie siffatto potere, pur considerate la falcidie derivante dalla intervenuta estinzione per prescrizione di taluno dei reati contestati, è stato esercitato in misura tale da escluderne la arbitrarietà ovvero la manifesta irragionevolezza, e, pertanto, con modalità non sindacabili in sede di giudizio di legittimità, essendo andata detta diminuzione ad incidere in misura sensibile e non solamente irrisoria sugli elementi in base ai quali è stata determinata la pena in concreto, abbattendola in misura congrua con l’avvenuto parziale proscioglimento della imputata.

Il ricorso presentato da F.C. deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile e la ricorrente, visto l’art. 616 cod. proc. pen., deve essere condannata al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.