CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 37913 depositata il 30 dicembre 2020
Reato di truffa aggravata – Interdizione temporanea dal loro pubblico servizio – Allontanamento ingiustificato dal luogo di lavoro della durata di pochi minuti ciascuno e legati ad una “pausa caffè” – Pregiudizio arrecato economicamente apprezzabile – Consumazione del reato al momento della percezione della retribuzione mensile anche per la quota parte non dovuta – Vincolo della continuazione – Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto – Presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, purché non espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 27.6.2017 il Tribunale di Pistoia aveva riconosciuto E.F., L.I., R.A. e A.S. (che erano stati tratti a giudizio insieme a numerosi altri chiamati a rispondere per fatti analoghi) responsabili dei fatti di reato loro rispettivamente ascritti ovvero: di quelli descritti al capo B) per la I., di quelli descritti al capo Q) per il F., di quelli di cui al capo R) per l’A., di quelli di cui al capo T) per la S.; riqualificati i fatti ai sensi dell’art. 55 del D. Lg.vo n. 165 del 2001 e 640 cpv cod. pen. e riconosciute alla I., al F. ed alla S. le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti, il Tribunale aveva condannato L. I. alla pena di anni 1 e mesi 3 di reclusione ed Euro 550 di multa; E. F. alla pena di anni 1, mesi 1 e giorni 5 di reclusione ed Euro 350 di multa; R. A. alla pena di anni 1 e mesi 8 di reclusione ed Euro 800 di multa; A. S. alla pena di anni 1 di reclusione ed Euro 300 di multa; aveva applicato agli imputati la pena accessoria della interdizione temporanea dal loro pubblico servizio per la durata della pena ed aveva nel contempo concesso, a tutti, il beneficio della sospensione condizionale;
2. la Corte di Appello di Firenze, decidendo sugli appelli di tutti gli imputati, aveva dichiarato la nullità della sentenza impugnata quanto alla condanna loro inflitta per il reato di cui all’art. 55quinquies del D. Lg.vo 165 del 2001 disponendo contestualmente la trasmissione degli atti al PM presso il Tribunale di Pistoia; in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha assolto diversi imputati dal reato loro ascritto ed ha rideterminato la pena per il reato di truffa aggravata, con le già riconosciute circostanze attenuanti generiche oltre che la circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen., stimate complessivamente prevalenti sulle contestate aggravanti per l’A., in mesi 6 di reclusione ed Euro 300 di multa quanto a R. A. ed a L.I. e mesi 4 di reclusione ed Euro 200 di multa quanto a E. F. ed A.S.;
3. ricorrono per cassazione i difensori del F., della I., dell’A. e della S. lamentando, rispettivamente:
3.1 l’Avv. A.N., nell’interesse di E. F.:
3.1.1 inosservanza ovvero erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 640 comma 2 n. 1 cod. pen. e manifesta illogicità della motivazione: rileva come al ricorrente fossero stati contestati una serie di episodi di allontanamento ingiustificato dal luogo di lavoro della durata di pochi minuti ciascuno e legati ad una “pausa caffè” da consumare presso il bar antistante la Prefettura e per un tempo complessivo stimato in 16 ore corrispondenti a 140 Euro di retribuzione; richiama la giurisprudenza della S.C. sulla necessità che il pregiudizio arrecato sia comunque economicamente apprezzabile; segnala che i diversi episodi sono stati considerati singoli fatti di reato che i giudici di merito hanno riunito nel vincolo della continuazione mentre il reato si deve ritenere consumato al momento della percezione della retribuzione mensile anche per la quota parte in ipotesi non dovuta sicché le fattispecie criminose sarebbero in realtà cinque, corrispondenti alla percezione delle cinque mensilità interessate nell’ambito delle quali i singoli allontanamenti avrebbero dovuto essere sommati;
segnala, perciò, la contraddittorietà della sentenza che, da un lato, considera i singoli allontanamenti come singole ipotesi di reato per poi parametrare il danno patrimoniale subito dalla PA in quello complessivamente considerato a fronte di una media mensile di Euro 28,00 laddove un singolo allontanamento corrisponderebbe ad Euro 3,00 e, perciò, di fatti eventualmente rilevanti sul piano disciplinare ma non sul piano penale;
3.1.2 inosservanza ovvero erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 640 comma 1 in relazione all’art. 131bis cod. pen. e vizio di motivazione: censura la sentenza impugnata anche con riferimento al diniego della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis cod. pen. ritenendo la Corte che si fosse in presenza di condotte reiterate che possono definirsi abituali; segnala la inconferenza del precedente richiamato nella sentenza impugnata e sottolinea gli oneri motivazionali gravanti sul giudice di merito; rileva, ancora, la esistenza di un contrasto in giurisprudenza sulla possibilità di applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis cod. pen. sicché la Corte territoriale non avrebbe potuto limitarsi ad invocare la non abitualità delle condotte ma soppesare tutti i criteri tutti gli altri aspetti incidenti sulla valutazione della complessiva tenuità del fatto sia sotto il profilo oggettivo che sotto il profilo della intensità del dolo;
3.2 l’Avv. A.F., nell’interesse di I.L.:
3.2.1 inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale e/o di norme processuali:
3.2.1.1 violazione di legge in relazione all’art. 415 cod. proc. pen.; nullità della ordinanza del 24.6.2016 emessa dal Tribunale di Pistoia ed inutilizzabilità degli atti ex art. 415 cod. proc. pen.: richiama la ordinanza del 24.6.2016 con cui il Tribunale aveva respinto la eccezione di inutilizzabilità degli atti di indagine successivi al 3.8.2011 ribadendo come il PM già nel 2011 fosse a conoscenza dei nominativi degli indagati avendo tuttavia proceduto alla loro iscrizione nel registro ex art. 335 cod. proc. pen. soltanto il 19.7.2014 ed espletato atti di indagine successivamente alla scadenza del termine semestrale decorrente dal 3.2.2011 senza che fosse stato mai richiesto alcun decreto di proroga; segnala che, a fronte del motivo di appello articolato sul punto, la Corte ha erroneamente ed a sproposito invocato il principio di diritto affermato dalle SS.UU. nella sentenza 40.538 del 2009; richiama, invece, le SS.UU. 13.041 del 12.4.2006 rilevando come nel caso di specie la attività di controllo del GIP sia stata totalmente elusa e vanificata, in violazione dell’art. 415 cod. proc. pen.; richiama il principio evocato dalla Corte di Appello rilevandone la inapplicabilità al caso di specie dovendosi invece ribadire la inutilizzabilità di tutti gli atti di indagine successivi al 3.8.2011;
3.2.1.2 violazione di legge con riferimento agli artt. 189 e 234 cod. proc. pen. e vizio di motivazione; nullità della ordinanza del 24.6.2016; ricorda come la difesa si fosse opposta alla richiesta di PM di acquisire come documenti, ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen., i CD contenenti i filmati ed i estratti dalle videoriprese eseguite dalla PG e che la Corte di Appello ha liquidato con motivazione apodittica la doglianza riproposta con i motivi di impugnazione della sentenza di primo grado ed ha considerato la estrazione dei fotogrammi come una attività di natura meramente materiale che non doveva espletarsi nelle forme di cui all’art. 360 cod. proc. pen.; richiama le SS.UU. del 2006 e la distinzione tra videoriprese effettuate al di fuori del procedimento come tali suscettibili di entrare nel processo sotto forma di documenti e quelle effettuate dalla PG che sono classificate tra le prove atipiche suscettibili di entrare nel processo ai sensi dell’art. 189 cod. proc. pen. come, invece, non è avvenuto nel caso di specie;
3.2.1.3 inosservanza ovvero erronea applicazione dell’art. 360 cod. proc. pen.; nullità dell’ordinanza di ammissione delle prove emessa dal Tribunale in data 24.6.2016: rileva, ancora, che la estrazione dei fotogrammi avrebbe dovuto avvenire nelle forme dell’incidente probatorio ovvero ai sensi dell’art. 360 cod. proc. pen. in quanto accertamento tecnico e non già, come ritenuto dalla Corte di Appello, mera attività materiale effettuata, peraltro, senza alcuna indicazione delle modalità utilizzate al fine di garantire il mantenimento della genuinità dei filmati e dei frame; aggiunge che la attività di estrapolazione sarebbe durata diversi mesi e che le foto non si limitano a riportare le immagini ma anche data e ora non potendosi perciò ritenere di mera copiatura; rileva, ancora, che nessuna risposta è stata fornita dai testi sul settaggio dell’ora nei giorni del 27.5.2011 e del 30.10.2011;
3.1.2.4 inutilizzabilità delle videoriprese per mancanza di provvedimento autorizzativo: rileva che la Corte di Appello ha respinto la doglianza difensiva articolata sul punto facendo riferimento ad un precedente della S.C. che non si attaglia al caso di specie in cui le videoriprese erano state eseguite nel corso delle indagini preliminari; richiama, anche in tal caso, le SS.UU. del 2006 sulle videoriprese di comportamenti non comunicativi e la necessità di ripensare quanto ivi affermato tenuto conto della portata dell’art. 8 della CEDU dovendosi ribadire come nel caso di specie questo genere di attività sia avvenuta senza alcun provvedimento dell’autorità giudiziaria;
3.1.2.5 inosservanza e/o erronea applicazione dell’art. 192 cod. proc. pen. ed omessa motivazione: rileva come la sentenza della Corte di Appello non abbia risposto alla doglianza relativa al principio di “vicinanza” della prova in forza del quale, dimostrata la “smarcatura” con codice “08”, sarebbe stato onere dell’imputata dimostrare di non aver tenuto alcun comportamento illecito; aggiunge che la sentenza di primo grado aveva supposto che gli straordinari fossero sempre retribuiti laddove la teste S. aveva chiarito che esso veniva anche compensato con permessi richiesti e concessi; osserva che alla prova delle uscite dagli uffici avrebbe dovuto affiancarsi quella della motivazione estranea alle ragioni di servizio, che non è stata fornita e che non si può porre a carico dell’imputato; richiama la decisione adottata dal GUP nel procedimento a carico del coindagato C.M.;
3.2.1.6 difetto, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione:
3.2.1.6.1 tabulati e specchi delle presenze: segnala che la Corte di Appello ha omesso di motivare sui rilievi difensivi articolati in ordine ai tabulati delle presenze non essendo stati conteggiati i periodi di entrata prima e di uscita dopo l’orario di lavoro; osserva che i pmessi brevi potevano essere concessi anche oralmente dal dirigente dell’ufficio, come dimostrato dalle buste paga depositate in atti pur non risultando dal calcolo operato in via automatica dall’apparato marcatempo che viene successivamente corretto con i permessi autorizzati dal dirigente, risultando perciò arbitrario il confronto tra le immagini e le risultanze meccanografiche; sottolinea la pausa pranzo e le pause caffé della durata, queste, sino a 15 minuti;
3.2.1.6.2 la prassi dell’ufficio: richiama quanto emerso nel corso della istruttoria in merito alla esistenza di una prassi invalsa con il consenso dei dirigenti per uscite di servizio di breve durata effettuate senza “smarcare” e che sono emblematiche della assenza del dolo di fattispecie tanto che ben 49 su 54 dipendenti della Prefettura erano stati indagati;
3.2.1.7 violazione di legge con riferimento alla mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis cod. pen.: il Tribunale aveva ritenuto inapplicabile la causa di non punibilità per il carattere abituale e reiterato della condotta evocando anche in tal caso un precedente di legittimità non coerente con il caso di specie;
3.3 l’Avv. M.C., nell’interesse di R. A.:
3.3.1 vizio di motivazione e violazione di legge in relazione agli artt. 640 comma 2 n. 1 cod. pen., 125 comma 3, 192, 533 e 546 cod. proc. pen.: richiama l’addebito mosso al ricorrente cui si era rimproverato un ingiustificato allontanamento dal posto di lavoro per complessive 15 ore per un totale di Euro 131,25 di retribuzione; richiama le doglianze articolate con l’atto di appello e rimaste non esaminate, con la eccezione di quella relativa alla nullità della sentenza per violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen.; rileva, in particolare, che il ricorrente aveva giustificato un totale di quasi 6 ore di assenza sulle 15 contestategli e che la Corte, con motivazione incongrua, aveva ritenuto solo parzialmente per i giorni 21.5.2011, 6.7.2011 e 16.11.2011; richiama dunque le motivazioni con cui la Corte territoriale ha ritenuto comunque la penale responsabilità dell’imputato anche per detti episodi confrontando la opposta soluzione cui i giudici di merito erano pervenuti con riguardo alla posizione di altri coimputati quali S.R. e A.A.o per i quali la Corte ha applicato una presunzione in favore del reo circa la ragione di servizio delle uscite dall’ufficio; denunzia la assoluta carenza, anche grafica, di motivazione del provvedimento impugnato sulla censura articolata in merito al carattere di “apprezzabilità” del danno arrecato alla Amministrazione; rileva come le plurime occasioni di allontanamento dal posto di lavoro contestate al ricorrente non possano ritenersi autonome ipotesi di reato ma nemmeno una unica e complessiva fattispecie i dovendosi optare per ritenere consumate le singole truffe al momento della percezione della retribuzione mensile e, dunque, in cinque occasioni corrispondenti alle cinque mensilità del periodo interessato dagli accertamenti di PG rispetto alle quali il danno cagionato alla PG è di 23,3, 14,73, 34,27, 7, 57,46 Euro per i mesi in questione; richiama la giurisprudenza di questa Corte sulla necessaria “apprezzabilità” del danno e sulla necessità di valutare autonomamente le singole fattispecie di reato ancorché unificate ai sensi dell’art. 81 cod. pen. ai fini della considerazione del danno di rilevante entità ovvero, per converso, della attenuante della lieve entità del danno patrimoniale;
3.4 l’Avv. S.M., nell’interesse di A. S.:
3.4.1 inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità in relazione agli artt. 189 e 191 cod. proc. pen.: rileva che la Corte di Appello ha considerato utilizzabili le videoriprese in quanto eseguite in luoghi pubblici, aperti o esposti al pubblico laddove si era in presenza di mezzi atipici di ricerca della prova sulla cui ammissione la Corte avrebbe dovuto sentire le parti sulle modalità del loro ingresso nel processo; ribadisce come l’art. 189 cod. proc. pen. sia lo strumento per consentire l’ingresso nel processo di prove atipiche su cui, tuttavia, va sollecitato il necessario contraddittorio; sottolinea l’evidenza del carattere decisivo della prova di cui si discute, con automatica integrazione della prova cd. “di resistenza”;
3.4.2 inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità in relazione agli artt. 360 cod. proc. pen. e 117 disp. att. cod. proc. pen.: segnala, ancora, come la estrapolazione dei fotogrammi dalle videoriprese non possa integrare una attività di natura meramente materiale, sottolineando come la manipolazione del dato informatico ne comporta la facile modificabilità che rende necessario operare in modo tale da garantire la genuinità del dato informatico di partenza come avviene con la procedura c.d. bit to bit e non con la loro riproduzione su chiavetta mobile ovvero masterizzazione su CD; osserva che nel caso di specie non si è proceduto ad una riproduzione integrale ed in blocco del dato informatico ma ad una preventiva selezione dei dati da estrapolare a cura della Polizia Giudiziaria che aveva avuto modo di “scegliere” i fotogrammi più coerenti con la tesi accusatoria per poi organizzarli in files dedicati a ciascun imputato e compiendo, in tal modo, non già una mera attività di riproduzione ma di vera e propria valutazione preventiva che, come tale, avrebbe dovuto essere considerata alla stregua di un vero e proprio accertamento tecnico, con le conseguenti garanzie difensive;
3.4.3 mancanza della motivazione emergente dal testo del provvedimento impugnato e dalle risultanze processuali: richiama gli elementi valorizzati dalla Corte di Appello per dimostrare la preponderante presenza della ricorrente sul portone della Prefettura in conseguenza della sua dipendenza da fumo nonché i rilievi difensivi articolati con l’atto di gravame su cui i giudici di secondo grado non hanno argomentato; segnala che la Corte territoriale non ha argomentato sulle ragioni di inattendibilità delle prove contrarie articolate dalla difesa a fronte della ben diversa sorte processuale riservata al coimputato Dennis;
3.4.4 manifesta illogicità della motivazione emergente dal testo del provvedimento impugnato e dalle risultanze processuali: segnala la incapacità della sentenza di dar conto della inferenza logica tra premesse note e conclusioni in termini di accertamento del fatto con riguardo, ad esempio, alle considerazioni spese per la coimputata Illari con riferimento all’accesso dei disabili ed alla presenza di impiegati che sarebbero stati disponibili ad accoglierli di fronte al portone; segnala che sul punto la Corte utilizza come massima di esperienza una mera regola sociologica priva di validità generale ed anzi sconfessata, nel caso di specie, dalle deposizioni in atti; osserva che analogo errore la Corte ha compiuto affermando la responsabilità della ricorrente sulla sola considerazione delle uscite “in coppia”, ritenute di per sé estranee a ragioni di servizio;
3.4.5 contraddittorietà della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato e dalle risultanze processuali: segnala che la sentenza impugnata ha deciso sulla scorta di prove non in atti ed omesso invece di motivare su prove in atti, come per quanto concerne la non corrispondenza tra l’orario della macchina marcatempo e quello del sistema di videosorveglianza aggiungendo che tali vizi motivazionali incidono sulla impossibilità di ritenere superato ogni ragionevole dubbio sulla responsabilità, in violazione della regola di cui all’art. 533 cod. proc. pen..
Considerato in diritto
La sentenza impugnata va annullata senza rinvio per essere i reati estinti per intervenuta prescrizione.
1. L’imputazione elevata nei confronti degli odierni ricorrenti aveva riguardato condotte consumate tra il maggio ed il novembre del 2011 sicché, considerate le sospensioni del suo decorso intervenute nel corso del giudizio di primo grado, il termine massimo di prescrizione (di anni 7 e mesi 6) è comunque spirato il 20.1.2020.
La possibilità e, anzi, la necessità di rilevare la causa estintiva sopravvenuta alla sentenza impugnata è legata, come noto, alla possibilità di ritenere il ricorso ammissibile e, perciò, in grado di radicare il rapporto processuale imponendo al giudice, anche in questa fase, di prendere atto dell’esistenza anche sopravvenuta di una causa di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. (cfr., in tal senso, Cass. SS.UU., 27.6.2001 n. 33.542, Cavalera; Cass. SS.UU., 22.3.2005 n. 23.428, Bracale; Cass. SS.UU., 17.12.2015 n. 12.602, Ricci).
È per questa ragione, allora, che la giurisprudenza (cfr., in particolare, per la ampia e condivisibile premessa sistematica, Cass. Pen., 2, 19.12.2017 n. 9.486, Giannone), consapevole delle implicazioni derivanti dalla qualificazione del ricorso come inammissibile per essere manifestamente infondato, non ha mancato di delineare i canoni ed i criteri in base ai quali è possibile formulare un giudizio di questo tipo.
Al fine di evitare che il giudice di legittimità sia chiamato ad una delibazione del tutto discrezionale quanto alla infondatezza (mera o manifesta) dei motivi, si è perciò affermato che, a tal fine, sia necessaria una valutazione che tenga conto: “A) con riferimento ai motivi che deducano inosservanza od erronea applicazione di leggi, la circostanza che essi risultino, o meno, caratterizzati da evidenti errori di diritto nell’interpretazione della norma posta a sostegno del ricorso.
Ciò accade, ad esempio, nei casi in cui:
– si invochi una norma inesistente nell’ordinamento
– si pretenda di disconoscere l’esistenza o il senso assolutamente univoco di una determinata disposizione di legge;
– si riproponga una questione già costantemente decisa dal Supremo collegio in senso opposto a quello sostenuto dal ricorrente, senza addurre motivi nuovi o diversi per
sostenere l’opposta tesi;
8) con riferimento ai motivi che deducano vizi di motivazione [se consentiti e dotati della specificità necessaria ex art. 581, comma 1, lett. C), c.p.p.: in difetto, opererebbe una diversa e tassativa causa d’inammissibilità del ricorso], valorizzando la circostanza che essi muovano, o meno, sul fatto, sullo svolgimento del processo o sulla sentenza impugnata, censure o critiche sostanzialmente vuote di significato in quanto manifestamente contrastate dagli atti processuali.
Ciò accade, ad esempio, nel caso in cui il motivo di ricorso attribuisca alla motivazione della decisione impugnata un contenuto letterale, logico e critico radicalmente diverso da quello reale” (cfr., la sentenza “Giannone” sopra richiamata).
Ed è proprio alla luce di questi canoni che, a ben guardare, nessuno dei ricorsi qui esaminati può essere considerato integralmente inammissibile per manifesta infondatezza.
2.1.1 Partendo dal ricorso proposto nell’interesse del F., va rilevato, in primo luogo, come non possa ritenersi manifestamente infondato il primo motivo con cui il ricorrente ha lamentato violazione di legge e vizio di motivazione sul profilo della “apprezzabilità” del pregiudizio patrimoniale cagionato dalla propria condotta al datore di lavoro; a tal proposito, non diversamente da quanto aveva segnalato con l’atto di appello, la difesa rileva come la contestazione avesse avuto ad oggetto una serie di episodi di allontanamento dal posto di lavoro della durata di pochi minuti ciascuno connessi alla “pausa caffè” da consumare presso il bar antistante la Prefettura e per un tempo stimato complessivamente in 16 ore corrispondenti a 140 Euro di retribuzione; aggiunge che i singoli episodi erano stati contestati come singoli fatti di reato mentre la truffa avrebbe dovuto semmai ritenersi consumata al momento della percezione della retribuzione mensile (comprensiva della quota in ipotesi non dovuta) e, nel caso di specie, corrispondenti alla percezione delle cinque mensilità interessate nell’ambito delle quali i singoli allontanamenti avrebbero dovuto essere sommati; di qui, secondo il ricorrente, la contraddittorietà della motivazione che, da un lato, ha considerato i singoli allontanamenti come singole ipotesi di reato per poi parametrare il danno patrimoniale subito dalla PA in quello complessivamente considerato non tenendo conto, invece, che esso avrebbe dovuto essere stimato in una media mensile di Euro 28,00 mentre ogni singolo allontanamento, sulla scorta della retribuzione oraria percepita, sarebbe stato corrispondente ad un importo di Euro 3,00.
Ebbene, i fatti sono stati considerati effettivamente in termini di truffa “continuata” e, come tali, sanzionati dal Tribunale che aveva operato un doppio aumento avendo ritenuto la continuazione con il diverso reato di cui all’art. 55quinquies del D. Lg.vo 165 del 2001 ma, anche, la continuazione “interna” tra i singoli episodi.
A fronte dei rilievi difensivi, la Corte di Appello (cfr., pag. 113 della sentenza impugnata) ha sostenuto che la S.C., quando ha parlato della necessaria esistenza di un danno “apprezzabile”, non ha in realtà individuato una “soglia” di punibilità né, a suo avviso, tale poteva essere ritenuta la “soglia” utilizzata dal PM per selezionare le posizioni da archiviare e che era stata fissata in 10 Euro; fatta questa premessa, ha chiarito che “… un danno non apprezzabile può essere ritenuto nei casi di assenza francamente limitate al massimo nel complesso ad alcun ore, indicativamente pari ad una retribuzione inferiore ai 50Euro” (cfr., ivi).
In tal modo, perciò, da un lato ha valutato le assenze contestate come singole ipotesi di reato salvo, poi, quantificare il pregiudizio patrimoniale arrecato alla P.A. “accorpando” e “cumulando” tutte le assenza per ciascuno degli imputati nell’intero arco di tempo vagliato nel corso delle indagini e considerato nella imputazione e, perciò, superiore al limite indicato.
Il motivo di ricorso, pertanto, non può certamente essere considerato “manifestamente infondato” meritando considerazione anche alla luce del richiamato orientamento di questa stessa Corte secondo cui nell’ipotesi di truffa, consistente nella fraudolenta percezione di emolumenti mensili, il reato si consuma all’atto della riscossione e non quando, per effetto della frode, viene illegittimamente a maturazione il diritto alla riscossione (cfr., Cass. Pen., 5, 30.5.1985 n. 8.296, Burolo).
2.1.2 Né, del pari, manifestamente infondato può ritenersi il secondo motivo del ricorso del F. con cui la difesa del ricorrente denunzia violazione di legge con riguardo al disposto di cui all’art. 131bis cod. pen..
Rileva, infatti, come la Corte di Appello abbia respinto la richiesta difensiva ritenendo che si fosse in presenza di condotte reiterate e pertanto abituali e, in particolare, sulla scorta di un precedente non conferente al caso di specie segnalando inoltre, l’esistenza, sul punto, di un contrasto in giurisprudenza sulla possibilità di applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis cod. pen.
Ebbene, la Corte di Appello, replicando a tutti gli imputati che avevano avanzato richiesta di applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis cod. pen., ha replicato (cfr., pagg. 138-139 della sentenza impugnata) sostenendo di dover condividere la decisione del Tribunale “poiché in tutti i casi trattati ci si trova di fronte a condotte reiterate che possono ben essere definite abituali (…)”.
La motivazione della sentenza si lega, in realtà, alla questione esaminata in precedenza e, in particolare, alla qualificazione dei singoli episodi come singole e specifiche ipotesi di reato tra le quali è stato ravvisato il vincolo della continuazione che, secondo alcune decisioni di questa Corte, non consentirebbe di ritenere la causa di non punibilità in esame per essersi in presenza di una condotta “abituale” (cfr., Cass. Pen., 5, 14.11.2016 n. 4.852, De Marco; Cass. Pen., 2, 15.11.2016 n. 1, Cattaneo; Cass. Pen., 2, 5.4.2017 n. 28.341, Modon; Cass. Pen., 5, 15.5.2017 n. 48.352, PG in proc. Mogoreanu; Cass. Pen., 1, 24.10.2017 n. 55.450, Greco; Cass. Pen., 6, 13.12.2017 n. 3.353, Lesmo ed altro).
Quest’ultima affermazione, nella sua assolutezza, è certamente discutibile alla luce del più recente e condivisibile orientamento della Corte secondo cui la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131bis cod. pen. può ben essere ritenuta anche in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, purché non espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine (cfr., Cass. Pen., 2, 6.6.2018 n. 41.011, Ba Elhadji, in cui la Corte ha precisato che occorre soppesare l’incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti, quali gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti penali e giudiziari, durata temporale della violazione, numero delle disposizioni di legge violate, effetti della condotta antecedente, contemporanea o susseguente al reato, interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni – anche indirette – sottese alla condotta; conf., Cass. Pen., 2, 7.2.2018 n. 9.495, PG in proc. Grasso; Cass. Pen., 5. 26.3.2018 n. 32.626, P.; Cass. Pen., 4, 11.12.2018 n. 4.649, PG in proc. Xhafa; Cass. Pen., 2, 10.9.2019 n. 42.579, D’Ambrosio; Cass. Pen., 4, 13.11.2019 n. 10.111, PG in proc. De Angelis; Cass. Pen., 2, 27.1.2020 n. 11.591, T.)
In altri termini, si è affermato il principio per cui, di per sé solo, il fatto che il reato per il quale si chieda il riconoscimento della causa di non punibilità sia stato posto in continuazione con altri non osta, in astratto, alla operatività dell’istituto dovendosi tuttavia valutare, anche alla luce del suo inserimento in un contesto più articolato, se la condotta in esame sia espressione di una situazione episodica, se la lesione all’interesse tutelato sia comunque minimale e, in definitiva, se il “fatto” nella sua complessità, sia meritevole di un apprezzamento in termini di speciale tenuità.
Va ricordato che il giudizio sulla tenuità del fatto, quale presupposto per la applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis cod. pen., richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, primo comma, (quindi sotto il profilo della oggettività della condotta) cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo (cfr., Cass. SS.UU., 25.2.2016 n. 13.681, Tushaj); per altro verso, si è chiarito che, pur dovendosi far riferimento agli indici di cui all’art. 133 cod. pen., non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione ivi previsti, essendo sufficiente l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti (cfr., Cass. Pen., 6, 8.11.2018 n. 55.107, Milone) e che è da ritenersi adeguata la motivazione che dia conto dell’assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti dall’art. 131bis ritenuto, in quanto giudicato, evidentemente, decisivo (cfr., Cass. Pen., 3, 18.6.2018 n. 34.151, Foglietta).
Da ultimo, si è pure chiarito che la motivazione con la quale si neghi la applicazione della causa di non punibilità può risultare anche implicitamente dall’argomentazione con la quale il giudice d’appello abbia considerato gli indici di gravità oggettiva del reato e il grado di colpevolezza dell’imputato, alla stregua dell’art. 133 cod. pen., per stabilire la congruità del trattamento sanzionatorio irrogato dal giudice di primo grado (cfr., Cass. Pen., 5, 14.12.2018 n. 15.658, D.; Cass. Pen., 5, 8.3.2017 n. 24.780, Tempera, in cui la Corte ha ritenuto infondato il motivo di ricorso relativo all’assenza di motivazione in ordine alla causa di non punibilità di cui all’art. 131bis cod. pen., ravvisando nel passaggio della motivazione della sentenza della corte di appello relativo alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 1, cod. pen., che l’appellante chiedeva di escludere, un’implicita esclusione della particolare tenuità del fatto; conf., ancora, Cass. Pen., 3, 11.10.2016 n. 48.317, Scopazzo). Ecco, allora, che la motivazione della Corte di Appello può effettivamente prestarsi a rilievi di inadeguatezza che non possono di certo ritenersi manifestamente infondati.
2.2 Non manifestamente infondato è, sotto vari profili, anche il ricorso proposto nell’interesse di L. I. dall’I’Avv. A.F..
2.2.1. Con il secondo motivo, la difesa della I. deduce infatti violazione di legge con riferimento agli artt. 189 e 234 cod. proc. pen. e vizio di motivazione nonché, inoltre, nullità della ordinanza del 24.6.2016 ricordando la sua opposizione ad acquisire come documenti, ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen., i CD contenenti i filmati ed i fotogrammi estratti dalle videoriprese eseguite dalla PG.
Segnala, a tal proposito, che la Corte di Appello ha liquidato con motivazione apodittica la doglianza riproposta con i motivi di impugnazione della sentenza di primo grado ed ha considerato la estrazione dei fotogrammi come una attività di natura meramente materiale che non richiedeva il rispetto delle forme e delle garanzie di cui all’art. 360 cod. proc. pen..
La Corte di Appello, con riferimento alla acquisizione dei fotogrammi estratti dalle videoregistrazioni eseguite dalla PG nel corso delle indagini, ha sostenuto che legittimamente il primo giudice ne aveva disposto la acquisizione ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen..
È certamente vero che le videoregistrazioni aventi ad oggetto comportamenti comunicativi, e non, disposte dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari, ben possono essere eseguite senza alcuna necessità di autorizzazione preventiva del giudizio qualora effettuate in luoghi pubblici, aparti al pubblico o esposti al pubblico per esigenze lavorative o altro (cfr., in tal senso, e tra le altre, Cass. Pen., 2, 16.2.2018 n. 22.972, proprio in materia di assenteismo; cfr., anche, Cass. Pen., 6, 19.6.2019 n. 28.004, A.; Cass. Pen., 6, 14.2.2019 n. 14.150, M.).
2.2.2 È anche vero che non è certamente pacifica la loro natura di documenti atteso che molte decisioni le qualificano in termini di prove atipiche disciplinate dall’art. 189 cod. proc. pen. (cfr., così, ad esempio, Cass. Pen., 2, 16.2.2018 n. 22.972, Barnaba; Cass. Pen., 3, 21.11.2019 n. 15.206, P.) e la cui acquisizione al processo deve essere, come è noto, preceduta dal necessario contraddittorio tra le parti.
Per altro verso, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non ha natura di accertamento tecnico irripetibile (ex art. 360 cod. proc. pen.) l’attività di estrapolazione di fotogrammi da un supporto video e di raffronto degli stessi con le fotografie di determinate persone, al fine di evidenziare eventuali somiglianze (cfr., Cass. Pen., 6, 14.7.2016 n. 41.695, Bembi; conf., Cass. Pen., 7, 23.1.2019 n. 21.204, Sandoval; Cass. Pen., 1, 8.3.2019 n. 19.642, Procopio; Cass. Pen., 1, 8.3.2019 n. 19.640, Procopio; Cass. Pen., 5, 17.12.2018 n. 16.351, Usai).
Ma è pur vero che nel caso di specie i fotogrammi estrapolati dalla PG erano stati “completati” dalla indicazione del giorno e dell’ora della immagine finendo, in realtà, per realizzare una prova “complessa” in cui il singolo fotogramma non era funzionale, in realtà, a identificare il soggetto immortalato ma a dimostrarne la presenza fuori del posto di lavoro in giorno ed ora incompatibili con il proprio orario di ufficio.
Da questo punto di vista, allora, la motivazione della Corte di Appello non è del tutto perspicua e, seppur nella sostanziale infondatezza della censura, non può concludersi nel senso della manifesta infondatezza del motivo formulato nel ricorso.
2.2.3 Anche la difesa della I. ha articolato un motivo di ricorso sulla mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis cod. pen. valendo perciò le medesime considerazioni svolte in precedenza quanto alla non manifesta infondatezza della censura che è stata articolata in termini analoghi dalla difesa del F..
2.3 Sul primo motivo del ricorso proposto dall’Avv. M.C., nell’interesse di R. A. vanno richiamate le considerazioni svolte con riguardo al primo motivo del ricorso articolato dalla difesa del F. e relative, per l’appunto, alla motivazione con cui la Corte di Appello ha affrontato la doglianza relativa ai criteri di “apprezzabilità” del pregiudizio patrimoniale cagionato alla P.A..
2.4 Il primo ed il secondo motivo del ricorso proposto dall’Avv. S.M. nell’interesse di A.S. propone – -Gestioni analoghe a quelle articolate dalla difesa della I. e sulla cui non manifesta infondatezza, con specifico riguardo alla peculiarità del caso di specie, si è per l’appunto detto in precedenza.
3. In definitiva, quindi, anche a voler ipotizzare la manifesta infondatezza degli altri motivi, è sufficiente la esistenza altre che sfuggono a questo giudizio per considerare il ricorso come non inammissibile e, perciò, come detto, tale da imporre di prendere atto della sopravvenuta prescrizione del reato.
P.Q.M.
annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché i reati sono estinti per intervenuta prescrizione.
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