CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 38133 depositata il 7 agosto 2018
Ritenuto in fatto
1.Con sentenza del 27 maggio 2016 la Corte d’appello di Firenze confermava la sentenza del Tribunale di Livorno con la quale BP e BF erano stati condannati alla pena di Euro 5.000,00 di ammenda ciascuno, per il reato di cui agli artt. 110 e 137, comma 1 bis, del D.Lgvo n. 385/1993 perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso ed in tempi diversi, agendo in concorso tra di loro, nella qualità di amministratori e legali rappresentanti della società GB & Co. s.r.I., al fine di ottenere concessioni di credito per l’azienda da essi amministrata, fornivano dolosamente a varie banche notizie o dati falsi sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società.
2. In particolare, agli imputati era stata contestata la condotta dell’aver presentato alle banche cinque fatture, emesse dal 15.9.2009 al 31.8.2010, per un importo complessivo di oltre euro 1.250.000,00, poco dopo annullate da note di credito e successivamente di nuovo emesse per accedere ancora al credito bancario, condotta questa integrante il reato di mendacio bancario; invero la presentazione alla banca di documenti contabili nei quali era stata esposta, contrariamente al vero, l’esistenza di crediti commerciali, di cui, invece, ia società non era titolare, significava comunicare alla banca notizie false sulla situazione economica della società, al fine di ottenere l’anticipazione degli importi esposti nelle fatture stesse, vale a dire concessioni di credito.
3. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati, a mezzo del loro difensore di fiducia, lamentando:
-con il primo motivo, la ricorrenza dei vizi di cui all’art. 606, primo comma, lett. b) ed e) c.p.p., per contraddittorietà della motivazione ed erronea applicazione della legge penale con riguardo all’art. 137, comma 1 bis, del D. Lgs. nr. 385/1993, in relazione all’integrazione dell’elemento oggettivo della fattispecie contestata; la sentenza impugnata è illogica, laddove evidenzia che due fatture, la n. 448 e quella n. 449, sono relative a crediti commerciali inesistenti e dall’altro evidenzia che per gli stessi importi venivano emesse fatture verosimilmente pagate dal cliente, trattandosi, infatti, di fatture che, pur stornate, sono riferibili a crediti commerciali effettivamente esistenti, tanto da essere di lì a poco puntualmente liquidati; trattandosi, dunque, di crediti commerciali rivelatisi esistenti, difetta la mendace rappresentazione dell’ “intera situazione patrimoniale” dell’impresa, non potendo ritenersi sussistente la condotta tipica, così come prevista dall’art. 137 del D. Lgs. n. 385/1993;
-con il secondo motivo, la ricorrenza del vizio di cui all’art. 606, primo comma, lett. e) c.p.p., per assenza di motivazione in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche e della sospensione condizionale della pena nei confronti degli imputati.
Considerato in diritto
I ricorsi sono inammissibili, siccome manifestamente infondati.
1. Il primo motivo di ricorso, con il quale i ricorrenti lamentano il vizio di motivazione e l’assenza dell’elemento oggettivo del reato in contestazione, non si confronta compiutamente con la motivazione della sentenza impugnata, limitandosi ad estrapolare un singolo passaggio della motivazione da un contesto più ampio.
1.1. La Corte territoriale, invero, dopo aver evidenziato che erroneamente il primo giudice aveva irrogato la pena dell’ammenda, pur essendo un delitto il reato di cui alla prima parte dell’art. 137, comma 1 bis, del D.Lgvo n. 385/1993, contestato agli imputati, ha rilevato in fatto, sulla base di quanto evidenziato dalla sentenza di primo grado, non oggetto di contestazione da parte della difesa:
– che gli imputati avevano presentato reiteratamente alle banche fatture attive, poco dopo annullate da note di credito e successivamente di nuovo emesse per accedere ancora al credito bancario, e specificamente cinque fatture emesse dal 15.9.2009 al 31.8.2010, per un importo complessivo di oltre C 1.250.000,00, delle quali, alle prime due ( n. 448 e n.449), dell’importo ciascuna di C 253.446,50, oltre Iva, seguiva in data 30.9.2009 una nota di credito, con la quale entrambe venivano stornate (l’emissione era rivolta ad ottenere lo sconto bancario, ma veniva effettuato, poi, lo storno in quanto il cliente non aveva ancora pagato);
-che per la stessa operazione venivano, poi, emesse due fatture degli stessi importi in data 22.12.2009 e 26.2.2010 (verosimilmente pagate dal cliente perché non oggetto di storno curr.s i,,(7); -che in data 31.8.2010 veniva emessa la fattura n. 407, sempre per l’importo di C 253.446,50, seguita nella stessa giornata dall’emissione di nota di credito relativa.
1.2. In tale contesto i giudici di merito hanno, senza illogicità, ritenuto che la presentazione reiterata di fatture, all’apparenza plurime, ma attinenti in realtà ad una sola operazione, (perché seguite da operazioni di storno), come avvenuto nella fattispecie, costituiscono una rappresentazione mendace della situazione economica dell’impresa richiedente l’anticipo, facendo apparire un giro d’affari maggiore del reale, in base alle fatture suddette n. 448, 449 e 407.
1.3. Il ricorrente ha contestato specificamente l’argomentazione, con la quale i giudici d’appello hanno ritenuto integrato il reato in contestazione, pur dando essi atto che le fatture emesse il 22.12.2009 ed il 26.2.2010 furono verosimilmente pagate dal cliente, perché non uggeito ji blurii0 successivo, argomentazione questa dalla quale invece cluviebbe deduisi che le fatture non afferivano a crediti inesistenti. Tale censura non coglie nel segno.
1.3.1. Invero l’art. 137, comma 1 bis, del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (comma aggiunto dall’art. 33 della legge 262 del 28-12-2005 e, poi modificato dall’art. 8 del DLgs 141 del 2010) stabilisce, nella prima parte, che, salvo che il fatto costituisca reato più grave, chi, al fine di ottenere concessioni di credito per sé o per le aziende che amministra, o di mutare le condizioni alle quali il credito venne prima concesso, fornisce dolosamente ad una banca notizie o dati falsi sulla costituzione o sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria delle aziende, comunque, interessate alla concessione del credito, è punito con la reclusione fino a un anno e con la multa fino ad euro 10.000.
1.3.2. Questa Corte ha già osservato che il reato di mendacio bancario, di cui alla suddetta disposizione – sanzionando la violazione dell’obbligo giuridico di fornire informazioni veritiere sulla situazione economica di colui che intende ottenere concessioni di credito per sé o per le aziende che amministra, indipendentemente dalla effettiva concessione del credito (evenienza al verificarsi della quale potrebbero configurarsi altri reati, come, ad esempio, la truffa), assicurando una tutela anticipata della correttezza e lealtà nei rapporti intercorrenti tra agente ed istituto bancario – ha natura di reato di pericolo (Sez. 3, n. 3640 del 08/01/2014). In particolare, il dovere di corretta ostensione agli istituti bancari delle informazioni sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria del soggetto che intenda ottenere concessioni di credito per sé o per le aziende che amministra, ha una portata ampia e ricomprende ogni dato significativo sulle condizioni patrimoniali del richiedente, ivi comprese quelle relative al volume di affari o alla liquidità disponibile (Sez. 3, n. 3640 del 08/01/2014).
1.3.3. Non è necessario, poi, ai fini della configurazione del reato, che il mendacio debba riguardare la “complessiva” situazione patrimoniale aziendale, sulla base altresì dei documenti che formalmente danno la possibilità ai terzi di conoscere dell’andamento della società (bilanci, situazioni patrimoniali, ecc.), atteso che il reato intende perseguire chi fornisce dolosamente ad una banca notizie o dati falsi sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria dell’azienda, comunque, interessata alla concessione del credito, senza precisare il veicolo attraverso il quale tali dati o notizie vengono forniti alle banche, né che l’informazione debba essere completa su ogni aspetto della vita della società.
1.3.4 Si presenta senz’altro rilevante -in relazione al reato in contestazione- l’informazione alle banche riguardante il volume di affari e gli introiti della società: all’uopo, l’aver gli imputati prodotto plurime fatture relative alla medesima operazione, seguite da storni e note di credito per importi ingenti, ha avuto all’evidenza la finalità di ingenerare nell’istituto bancario la convinzione della “floridezza” della situazione della società, “gonfiando” per così dire il volume di affari e gli introiti, in relazione specificamente alle fatture n. 448, 449 del 15.9.2009 e 407 del 31.8.2010.
1.3.5. La circostanza che probabilmente un’operazione giustificante l’emissione delle fatture del 22.12.2009 e 26.2.2010 esistesse, non esclude il mendacio posto in essere dall’imputato, atteso che l’emissione delle prime due fatture (nel settembre 2009) diverso tempo prima delle successive (dicembre 2009 e febbraio 2010), dà conto del fatto che non ricorrevano i presupposti per emetterle, risultando falsato, dunque, il dato relativo alla situazione economica cipile società al momento della presentazione all’istituto bancario di quelle fatti ire
1.3.6. La rappresentazione di una falsa situazione relativa alla società, pertanto, deve dirsi ricorrente anche quando vengono emesse fatture attestanti falsamente l’ esistenza di crediti in favore della società che in effetti non risultano ancora maturati e, ciò nonostante, vengano indicati come risorsa economica utile. Sul punto, va ribadito il principio già affermato da questa Corte secondo cui l’espressione “situazione economica, patrimoniale e finanziaria” utilizzata dal legislatore ha una portata estremamente ampia, che consente di ricomprendervi ogni dato significativo sulle condizioni patrimoniali di colui che richiede concessioni di credito, ivi comprese le informazioni sul volume di affari o la liquidità disponibile (Sez. 3, n. 3640 del 08/01/2014).
3. In definitiva, i ricorsi degli imputati vanno dichiarati inammissibili ed i ricorrenti vanno condannati al pagamento delle spese processuali, nonché, trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile a colpa dei ricorrenti al versamento, a favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare per ciascuno in Euro 2000,00, ai sensi dell’art. 616 c.p.p.
P.Q.M.
dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento di euro 2000,00 in favore della Cassa delle ammende.
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