Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 38500 depositata il 10 agosto 2018
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 27/6/2017 la Corte di appello di Firenze, in parziale riforma di quella del Tribunale di Firenze del 18/1/2016, ha rideterminato, previo riconoscimento delle attenuanti generiche, la pena irrogata a PE per i reati di cui all’art. 321 cod. pen., contestati ai capi E) e G), ha rideterminato in euro 10.000,00 la confisca disposta con riguardo al capo G), ha dichiarato estinto l’illecito amministrativo contestato al capo El) alla società Dr. Ing. GT spa, per l’intervenuto fallimento di detta società, ha revocato la confisca disposta nei confronti della società e confermato quella disposta nei confronti del PE in relazione al capo E) per il valore di euro 6.722.538,82.
La Corte, respingendo le doglianze del PE, ha in particolare confermato la qualificazione dei fatti in termini di corruzione propria e non di induzione indebita e corruzione impropria, sia in relazione alla condotta sub E), consistita nella dazione di denaro, in concorso con SE e con MS, al Direttore provinciale dell’Agenzia delle Entrate, dott. GN, a fronte di atti di adesione riferiti alle società Dr. Ing. GT s.p.a., Xxxx s.p.a. e Zzzzz s.p.a., sia in relazione alla condotta sub G), consistita nella dazione di denaro, in concorso con il MS, allo stesso dott. GN, a fronte dell’annullamento di un atto di accertamento nei confronti di PE Paola, con emissione di nuovo avviso di accertamento, dopo la scadenza di termini per l’impugnazione del primo.
2. Ha proposto ricorso il PE tramite i suoi difensori.
2.1. Con il primo articolato motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla mancata qualificazione dei fatti di cui al capo E) come induzione indebita ex art. 319 -quater cod. pen., da cui avrebbe dovuto discendere l’assoluzione del ricorrente, trattandosi di fatti risalenti al 2010.
Richiamati gli insegnamenti delle Sezioni unite della Corte di cassazione in merito agli elementi che contraddistinguono la fattispecie dell’induzione indebita, rileva il ricorrente che la Corte aveva errato nel fare riferimento ad elementi che avrebbero potuto rilevare nella prospettiva della vecchia concussione e non in quella dell’induzione indebita, rispetto alla quale il privato non assume la veste di vittima.
Deduce inoltre i menzionati vizi con riguardo ad una pluralità di profili, rilevanti ai fini della configurazione del reato di induzione indebita.
Erroneamente la Corte aveva svalutato il tema dell’iniziativa, che assume invece rilievo sintomatico.
D’altro canto sul piano ricostruttivo la Corte aveva ignorato elementi di prova, all’uopo riportati e consistenti nelle dichiarazioni del MS, del SE e del GN, tali da escludere inequivocamente che la proposta corruttiva fosse partita dal ricorrente.
Quest’ultimo si sofferma poi sull’analisi da parte della Corte del tema del conferimento dell’incarico a SE da parte di PE, deducendo l’illogicità e incongruenza della conclusione che il PE avesse posto in essere un’opera di avvicinamento del pubblico ufficiale.
In realtà il ricorrente, confidando nella bontà del progetto di ristrutturazione elaborato da prestigioso studio milanese, aveva accolto la proposta del MS di rivolgersi al SE, quale esperto in materia tributaria, pur a fronte dell’incarico già affidato all’Avv. Briguglio.
Il ricorrente affronta quindi il tema della soggezione al pubblico ufficiale, segnalando che la Corte l’aveva esclusa sulla base di argomenti irrilevanti o travisando risultanze processuali o omettendo di valutare elementi di stringente rilevanza.
Sottolinea in particolare che all’epoca versava in una situazione di estrema difficoltà, nota a tutti i protagonisti, nella fase in cui cercava di far approvare un piano di ristrutturazione del debito verso banche e fornitori.
Esamina poi il tema della condotta induttiva, rilevando che l’assunto secondo cui non vi era prova di pressioni di SE e MS prima dell’atto di accertamento avrebbe dovuto ritenersi smentito dai dati probatori riportati e che inoltre avrebbe dovuto ritenersi manifestamente illogica e contraddittoria, alla luce di quanto dichiarato dal ricorrente e dall’Avv. Briguglio, l’affermazione che il PE non fosse stato neppure informato del rilascio da parte della Commissione tributaria dell’autorizzazione al sequestro conservativo di quote, che in realtà il ricorrente aveva sostenuto aver costituito l’elemento decisivo per convincerlo a sottostare alla volontà del pubblico ufficiale, attesa la devastante potenzialità sottesa all’iscrizione del sequestro.
Ed ancora affronta il ricorrente il tema della trattativa, a fronte del dato incontestato che all’inizio egli non aveva accettato di corrispondere la somma richiesta, non essendo stata debitamente analizzata la circostanza del cambiamento della decisione, a fronte del rilievo che assume il profilo della libertà nella formazione della volontà del privato.
La Corte aveva erroneamente addotto a sostegno della pariteticità delle posizioni il fatto della trattativa, peraltro a tal fine riconoscendo credibilità alla versione fornita da SE, che tuttavia, per parte sua, aveva negato di aver ricevuto dal PE alcun incarico: in realtà o la versione del SE era credibile per intero, smentendo su più punti la motivazione, o era credibile in parte, senza che a quel punto fosse stato spiegato perché fossero qualificabili come credibili alcune parti e altre no.
Inoltre non era stato considerato che il ricorrente non aveva versato euro 50.000,00, a fronte di una prima richiesta del GN di euro 100.000,00, ma 100.000,00, senza che il MS avesse riferito al PE che il prezzo del pubblico ufficiale era sceso alla metà, mentre il SE aveva comunicato la circostanza solo al MS.
Tali discrepanze non avevano trovato una logica composizione, mentre avrebbe dovuto farsi riferimento al collaudato meccanismo in forza del quale, come sarebbe emerso anche successivamente, il GN si avvaleva del MS, per formulare richieste di denaro, potendosi a tal fine invocare non solo il caso [aroma, ma anche conversazioni telefoniche indicate nell’atto di appello e non valutate dalla Corte, dalle quali era possibile trarre conferma dell’operatività di quel meccanismo anche nel caso di specie.
2.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata qualificazione del fatto di cui al capo G) come induzione indebita.
La Corte aveva erroneamente affermato che a seguito della mancata tempestiva impugnazione dell’accertamento nei confronti di PE Paola non vi fosse altro rimedio, mentre la disciplina dell’istituto dell’autotutela avrebbe consentito di provvedere anche in presenza di accertamento divenuto definitivo per mancanza di impugnazione.
D’altro canto l’accertamento era fondato su erronei presupposti, a fronte delle giustificazioni a suo tempo fornite in ordine all’acquisto di un immobile e al mutuo a tal fine contratto.
L’ufficio, dopo aver verificato che i metri quadrati dell’abitazione erano inferiori aveva annullato l’originario accertamento, emettendone uno nuovo, il quale era stato poi impugnato nei termini, essendone seguita la verifica giudiziale della infondatezza della pretesa impositiva.
Il ricorrente aveva ritenuto l’accertamento pretestuoso e aveva alla fine pagato la somma che gli era stata comunicata dal MS su indicazione del GN, nel timore che se non avesse pagato avrebbe avuto problemi con l’Agenzia delle Entrate.
D’altro canto avrebbe dovuto reputarsi manifestamente illogica la motivazione della Corte incentrata sul fatto che nessuno avrebbe potuto impedire al ricorrente di seguire la via maestra del ricorso tributario, che nel caso di specie era venuta meno per la negligenza nel rispetto dei termini.
La Corte aveva illogicamente e senza fondamento mostrato di ritenere che il ricorrente non avesse volutamente impugnato, sapendo di poter comunque fruire di una soluzione privilegiata, fermo restando che il fatto di adire le vie dell’autotutela rappresentava comunque una strada legittima per far valere le proprie ragioni a fronte di un accertamento divenuto definitivo.
2.3. Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 322-ter e 240 cod. pen., con riguardo alla confisca disposta a carico del ricorrente e alla revoca della confisca nei confronti della società Dr. Ing. GT s.p.a., nonché con riguardo al quantum della confisca. Segnala l’erroneità della decisione, nella parte riguardante l’estinzione dell’illecito della società e la revoca della confisca disposta nei confronti di quest’ultima, giacché non avrebbe potuto ravvisarsi nel fallimento una causa estintiva e in quanto la confisca avrebbe dovuto reputarsi insensibile al fallimento.
Rileva che avrebbe dovuto preliminarmente disporsi la confisca diretta del profitto, ove fisicamente rintracciabile, fermo restando che in conseguenza del reato sarebbe stato conseguito un vantaggio, in termini di risparmio di imposta, dalla società.
La Corte aveva omesso ogni motivazione sul punto disattendendo le doglianze con cui era stato segnalato, anche con richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, che la società possedeva beni ampiamente idonei a coprire l’importo della confisca e che il vantaggio economico era rimasto nel patrimonio della società.
La Corte inoltre erroneamente aveva ritenuto che il profitto corrispondesse al risparmio di imposta conseguito, agli interessi e alle sanzioni irrogate, mentre avrebbe dovuto farsi riferimento al profitto conseguito con l’atto di accertamento con adesione, oggetto del patto corruttivo, dovendosi valutare a quale esito si sarebbe pervenuti in assenza di quel patto.
Contraddittoriamente la Corte aveva rilevato che l’atto di adesione, pur astrattamente legittimo, non era frutto di corretto esercizio del potere discrezionale e nel contempo che non sarebbe stata possibile una soluzione di compromesso, non essendovi alternativa tra il riconoscimento della finalità economico-giuridica dell’operazione o l’affermazione del suo carattere elusivo, che ne avrebbe comportato l’inopponibilità al fisco per l’intero.
In realtà la disciplina in materia di accertamento con adesione avrebbe consentito valutazioni prudenziali legate al grado di sostenibilità della pretesa tributaria e alla solvibilità del contribuente, avendo peraltro nel caso di specie la stessa Direzione Regionale dell’Agenzia delle Entrate riconosciuto la difficoltà di individuare un preciso comportamento corretto da opporre al comportamento adottato.
D’altro canto la complessità della vicenda e la plausibilità della situazione rinvenuta con gli atti di adesione era stata confermata da altri funzionari dell’ufficio.
La Corte avrebbe dovuto dunque approfondire il punto del contenuto dell’atto di accertamento con adesione, individuando il contenuto che avrebbe potuto avere un atto al quale si sarebbe potuto giungere in assenza dell’accordo corruttivo.
Erroneamente la Corte aveva fatto riferimento all’indebita duplicazione dell’utilizzo del medesimo credito di imposta per acconti pagati dalla società, dovendosi al riguardo valutare la consulenza di parte. Inoltre era stato documentato un recupero da parte dell’ufficio del 36,7% di quanto accertato.
In tale prospettiva l’accertamento con adesione avrebbe dovuto reputarsi legittimo, discendendo da ciò la mancanza di un illecito profitto confiscabile.
In ogni caso il profitto avrebbe dovuto commisurarsi all’eventuale diverso atto di accertamento con adesione adottabile in mancanza del patto corruttivo.
Inoltre non avrebbero potuto includersi nel profitto le somme corrispondenti agli interessi e alle sanzioni, diversamente da quanto ipotizzabile solo con riguardo al delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui all’art. 11 d.lgs. 74 del 2000.
2.4. Deduce violazione di legge in relazione alla mancata riqualificazione del fatto sub E) ai sensi degli artt. 318 e 321 cod. pen., dovendosi ritenere, alla luce dei rilievi svolti in ordine alla legittimità dell’atto di accertamento con adesione, che non fosse configurabile corruzione propria.
Dalla riqualificazione avrebbe dovuto discendere altresì la non configurabilità di un profitto discendente dalla perpetrazione del reato, con conseguente annullamento della confisca.
3. Ha depositato una memoria il difensore della società Dr. Ing. GT spa, nella quale si deduce l’inammissibilità delle doglianze formulate nel ricorso con riguardo alle decisioni assunte dalla Corte in ordine alla posizione di detta società
4. Con successiva memoria i difensori del ricorrente hanno proposto motivi nuovi.
4.1. Con il primo motivo deducono violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla revoca della confisca nei confronti della società, alla confisca disposta nei confronti del ricorrente e alla determinazione del quantum, riproponendo gli argomenti difensivi in replica alle deduzioni formulate nell’interesse della società.
4.2. Con il secondo motivo denunciano omessa motivazione in ordine ai temi oggetto di motivi nuovi di appello, concernenti la qualificazione del fatto come corruzione impropria, a fronte di un atto giuridicamente legittimo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è nel suo complesso infondato.
2. Il primo motivo ripropone con riguardo al capo E) la tesi della configurabilità di una condotta induttiva del pubblico ufficiale, nel presupposto che la pacifica dazione di somme al dott. GN, Direttore dell’Agenzia delle Entrate, correlata alla redazione di atti di accertamento con adesione, fosse dipesa dalla condotta del predetto, avvalsosi anche del MS, per esercitare sul ricorrente pressioni tali da ingenerare uno stato di soggezione.
Ma alla resa dei conti vengono dedotti temi che hanno già formato oggetto di efficace analisi da parte del Tribunale e della Corte di appello, cosicché il motivo risulta infondato e in parte inammissibile.
2.1. E’ noto che secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione (Cass. Sez. U. n. 12228 del 24/10/2013, dep. nel 2014, Maldera, rv. 258474) l’induzione indebita di cui all’art. 319-quater cod. pen. si fonda sull’abuso del soggetto qualificato, che, strumentalizzando poteri o qualità, attraverso un’azione suggestiva di convincimento, crea condizioni propizie all’accoglimento da parte del privato della propria richiesta di riconoscimento di un’utilità, a fronte del tornaconto personale che il privato può nondimeno realizzare.
In questo caso dunque l’abuso rileva non tanto in ragione del contenuto che assume l’esercizio delle funzioni pubbliche quanto in ragione del fatto che queste costituiscono la premessa, esplicitamente o implicitamente evocata, dell’opera di convincimento rivolta nei confronti di un soggetto che avverte uno stato di soggezione ed è così indotto ad erogare l’utilità, in una situazione in cui egli conserva nondimeno un margine di libertà nel valutarla, prospettandosi il conseguimento di un vantaggio indebito.
Nella corruzione propria invece le parti si determinano paritariamente all’accordo illecito, in cui l’abuso viene a qualificare il concreto contenuto dell’esercizio delle funzioni.
In entrambe le ipotesi vi è dunque un patto, che tuttavia nell’induzione indebita risulta all’origine asimmetrico e squilibrato.
Ben si comprende alla luce di tale analisi che l’induzione indebita presupponga accanto alla strumentalizzazione, la sollecitazione a dare, rivolta dal soggetto qualificato, e lo stato di soggezione del privato.
2.2. Così inquadrato il tema, va subito osservato che i Giudici di merito, sulla base di un’analisi per grandi linee coincidente, hanno in concreto escluso tutti i presupposti per la configurabilità dell’induzione indebita e ciò hanno fatto soprattutto osservando che esulava la correlazione tra condotta del pubblico ufficiale e soggezione del privato, non solo in quanto il PE non avrebbe potuto dirsi costretto ad erogare l’utilità, ma anche e soprattutto in quanto la condizione in cui egli versava non dipendeva dalla condotta prevaricatrice del pubblico ufficiale, comparso sulla scena quando la pretesa fiscale aveva assunto contorni nitidamente delineati, a prescindere dall’intervento del dott. GN, Direttore dell’Agenzia delle Entrate.
E’ stato infatti sottolineato come l’originario processo verbale di constatazione fosse risalente ed addebitabile all’opera di altri funzionari; come il ricorrente fosse un imprenditore di lungo corso, assistito dai migliori studi legali- tributari e in grado di opporre le più efficaci difese a fronte di un accertamento se del caso ritenuto illegittimo; come inoltre egli avesse promosso iniziative ufficiali affidandosi allo studio Briguglio, cui, dopo la notifica al PE del verbale nel settembre 2010, era stato fin dal 5 ottobre 2010 conferito l’incarico di procedere ad un accertamento con adesione.
Si tratta di argomenti che non distorcono l’analisi dell’art. 319-quater cod. pen., che ora contempla anche il privato come soggetto attivo, non più solo come vittima (diversamente da quanto tuttora previsto dall’art. 317 cod. pen.): ed invero si è inteso sottolineare che la condizione del PE non corrispondeva a quella di qualunque altro soggetto privato che si fosse trovato ad interloquire con l’amministrazione finanziaria, in quanto il predetto disponeva di mezzi assai più cospicui, che valevano ad innalzare la soglia della sua capacità di azione e difesa, e nel contempo che le sue difficoltà, staticamente intese, non erano correlate ad una mirata strumentalizzazione.
2.3. D’altro canto è stato escluso che al pubblico ufficiale fossero ascrivibili callide condotte volte ad alimentare e sfruttare lo stato di soggezione del privato, pur gravato da rischi nel rapporto con gli istituti bancari.
In particolare i Giudici di merito hanno escluso che tale significato potesse attribuirsi alla richiesta di autorizzazione al sequestro conservativo di quote societarie, predisposta da altri funzionari dell’ufficio e firmata dal Direttore dell’Agenzia delle Entrate dott. GN nel settembre del 2010, per essere poi inoltrata alla Commissione Tributaria alla fine di ottobre. Il tema assume rilievo dirimente, in quanto, in base alla versione difensiva, proprio la richiesta di autorizzazione al sequestro e il successivo rilascio dell’autorizzazione in data 10 novembre 2010 avrebbero avuto l’effetto di indurre il PE a sottostare alle richieste che gli sarebbero state formulate.
Ma in concreto è stato spiegato dal Tribunale che il dato non aveva avuto per l’Avv. Briguglio, che assisteva in quella procedura la società del PE, un particolare rilievo, anche perché, in base a quanto rilevato dal Tribunale sulla ù base della deposizione del Briguglio, era risultato che alla misura cautelare non si sarebbe dato corso in pendenza delle trattative per l’accertamento con adesione, secondo quanto prontamente annotato dalla segretaria del legale.
Sul punto la Corte, in parte richiamando le valutazioni del Tribunale, ha anche osservato che in base alla deposizione del Briguglio costui, pur non ricordando la data in cui aveva comunicato al PE la decisione relativa all’autorizzazione al sequestro, aveva confermato che in data 19 novembre era stato trasmesso dalla sua segreteria il testo del provvedimento, da ciò potendosi ricavare che da un lato il PE aveva piena contezza della procedura in corso e dall’altro che la comunicazione era stata successiva al 17 novembre 2010, data della firma dell’accertamento con adesione riguardante le società Xxxx e Zzzzz, destinato a completare la procedura e parte integrante del patto illecito, ma evidentemente non condizionato dalla decisione sul sequestro.
Nel motivo di ricorso si assume che i Giudici di merito avrebbero erroneamente interpretato le dichiarazioni dell’Avv. Briguglio, il quale avrebbe mostrato di non ricordare se avesse parlato con il PE delle conseguenze del sequestro ma non della decisione in sé, fermo restando che da una annotazione era emerso che in data 19 novembre era stata fatta una comunicazione a riscontro di una pregressa conversazione telefonica.
Sta di fatto che la data di tale conversazione è stata genericamente collocata dal PE in epoca non successiva al 14/15 novembre, ciò che si risolve tuttavia in assertiva deduzione, priva di qualsivoglia conferma processuale, tale da rendere sul punto configurabile un travisamento della prova, al contrario non illogicamente valutata al fine di fornire una chiave di lettura dell’intera condotta del ricorrente, tanto più che è stato dato conto del ritrovamento di appunti che dimostravano che l’atto di accertamento aveva avuto una progressiva gestazione.
2.4. Ed invero, una volta escluso che, contrariamente agli assunti difensivi, possa dirsi dirimente per le determinazioni del PE la decisione relativa al sequestro delle quote, che peraltro in quella fase non sarebbe stato posto in esecuzione, si comprende come gli altri elementi siano stati linearmente e logicamente valutati dai Giudici di merito, nel senso di suffragare l’ipotesi della corruzione anziché quella dell’induzione indebita.
2.5. E’ significativo a tal fine il tema dell’iniziativa, letto alla luce delle complessive risultanze probatorie.
La Corte ne ha sottolineato già in astratto il carattere tutt’altro che dirimente. E’ invero sufficiente segnalare come l’art. 322, comma terzo, cod. pen., nel contemplare l’istigazione alla corruzione nella forma della sollecitazione da parte del soggetto qualificato, attesti la piena compatibilità dell’iniziativa di tale soggetto con l’ipotesi della corruzione.
Proprio per questo le Sezioni Unite (Cass. Sez. U. n. 12228 del 24/10/2013, dep. nel 2014, Maldera cit, in motivazione) hanno segnalato che l’iniziativa assume rilievo sul piano sintomatico, senza che possa tuttavia prescindersi da un approfondito esame della concreta fattispecie e dunque dell’effettiva dinamica dei rapporti tra i soggetti.
Sinteticamente può semmai affermarsi che nell’induzione indebita l’iniziativa del soggetto qualificato costituisce un dato pressoché ineludibile, ma senza che in presenza di essa debba escludersi l’ipotesi della corruzione (sul punto si rinvia anche a Cass. Sez. 6, n. 52321 del 13/10/2016, Beccaro Migliorati, rv. 268520).
Del tutto corrispondente a tale impostazione risulta l’analisi della Corte, che, nel far proprie le ampie valutazioni del Tribunale, ha segnalato che nel caso di specie non avrebbe potuto darsi preponderante significato all’iniziativa, fermo restando che in base alle acquisizioni probatorie avrebbe potuto dirsi semmai che la tesi difensiva, incentrata sull’iniziativa del GN, non fosse sostenuta da dirimenti argomenti.
Il motivo di ricorso sul punto si fonda sull’assunto che nessuno dei protagonisti della vicenda avesse affermato che il PE aveva conferito l’incarico di formulare proposte corruttive.
Ma in realtà non considera che sia il Tribunale sia la Corte, nel dar conto del proprio convincimento, non hanno inteso negare il contenuto delle varie deposizioni ma fornire una ricostruzione fondata sui canoni della logica, ricostruzione che alla resa dei conti risulta in questa sede contrastata solo in base ad una alternativa lettura del compendio probatorio, fra l’altro incentrata sull’estrapolazione di singoli frammentari passi (al di là delle allegazioni di verbali di udienza), ma in assenza di specifici profili di illogicità manifesta o di dirimenti travisamenti della prova.
Il Tribunale ha invero spiegato le ragioni per cui non potesse credersi al racconto del PE in ordine alla strumentale comparsa del MS, animato da propositi illeciti sulla base di una probabile intesa con il GN, ma ha anche dato conto del dirimente significato attribuibile per contro al conferimento dell’incarico a SE, indicatogli dal MS, e all’ulteriore elemento costituito dal necessariamente anteriore contatto tra il SE e il PE rispetto al primo contatto tra il SE e il GN.
Il Tribunale in particolare ha sottolineato non solo che lo stesso PE aveva descritto il compito del SE come quello di interferire con il GN, espressione ritenuta evocativa di intese extra-ordinem, ma ha anche osservato come non diversamente potesse intendersi il conferimento di un incarico parallelo e disgiunto rispetto a quello, peraltro perdurante, affidato ad un legale particolarmente esperto nel settore come l’Avv. Briguglio, rilevando altresì che del tutto inverosimilmente era stata prospettata la formulazione di un’improvvisa richiesta di denaro da parte del GN al SE, in una situazione nella quale, a rigore, quella richiesta avrebbe potuto risultare irricevibile e foriera di rischi per il funzionario.
In tale quadro si è inserita la valutazione della Corte, che nel far proprie le considerazioni del Tribunale, ha ulteriormente osservato che il SE fu indicato dal MS, il quale, se già investito da illecite richieste del GN, non avrebbe avuto l’interesse a far estendere l’incarico ad un terzo, con il quale avrebbe poi dovuto spartire i profitti. Corrispondentemente anche la Corte ha rilevato che l’incarico conferito dal PE al SE, nella permanenza di quello mai revocato al Briguglio, implicava necessariamente la ricerca di percorsi alternativi per giungere all’obiettivo e dunque la presa di contatto con il GN, dovendosi invece escludere che fosse in atto un’iniziativa di segno opposto. Va del resto rimarcato che, ben diversamente da quanto prospettato nel motivo di ricorso, il conferimento di incarico al SE non è in alcun modo coerente con l’assunto della sorpresa del PE per l’esito della verifica fiscale, a fronte della complessa operazione congegnata dal prestigioso studio milanese.
E’ sufficiente osservare che se il ricorrente confidava nella bontà del proprio operato non avrebbe avuto motivo di discostarsi dalla strada maestra e che d’altro canto, ove si fosse realmente trattato di una crisi di sfiducia nell’operato dello studio Briguglio, non vi sarebbe stata ragione, come rilevato dalla Corte, per confermare l’incarico al legale, pur parallelamente affiancato da altri.
La sostanzialmente conforme analisi dei Giudici di merito ha dunque posto in luce che il PE si trovava nella necessità di risolvere il problema rappresentato dall’accertamento a carico della società Impresa dr. Ing. GT s.p.a., fondato sul rilievo dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto, in concreto posti in essere, e che a tale scopo egli attuò una strategia volta a favorire un abboccamento con il funzionario e la conclusione di accordi con lui.
Ciò rende privo di qualsivoglia fondamento l’assunto difensivo fondato sull’iniziativa, giacché, alla luce di quanto ricostruito non illogicamente dai Giudici di merito, avrebbe dovuto a quel punto dirsi irrilevante che a parlare per la prima volta di una somma fosse stato il funzionario o taluno degli intermediari del privato, essendo stato delineato invece il quadro di una trattativa volta a realizzare extra-ordinem l’obiettivo perseguito dal PE, senza che peraltro il pubblico ufficiale fino a quel momento avesse esercitato i suoi poteri condizionanti allo specifico fine di ingenerare una situazione di soggezione del privato.
2.6. In tale quadro viene meno anche la rilevanza della notorietà della situazione di difficoltà del PE nei confronti del sistema bancario, non ingenerata specificamente da condotte induttive: in definitiva, nel momento in cui il PE si adoperò per risolvere il problema derivante dall’accertamento, con cui veniva posta a carico della società una assai cospicua somma per recupero di imposta, interessi e sanzioni, e scelse di seguire la via più opaca, egli stesso, secondo la ricostruzione della vicenda emergente dalla sentenza impugnata, dette origine ad una procedura destinata a sfociare in un patto illecito, costituente il risultato di una trattativa, riferita alle modalità e al quantum, ma intercorsa comunque su base paritaria.
2.7. Né, parimenti, possono dirsi fondate le censure incentrate sulle pressioni che sarebbero state esercitate soprattutto dal MS. Al di là del fatto che i Giudici di merito hanno sottolineato che pressioni furono in particolare esercitate dopo l’accordo, in vista della concreta erogazione delle somme pattuite, è comunque dirimente che l’assunto difensivo muova dal presupposto, non illogicamente smentito, della netta contrarietà del PE a trattative: ed invero, una volta dato conto dell’apertura nella direzione della trattativa, suggellata dall’incarico al SE, la definizione della stessa avrebbe dovuto ritenersi rientrante in quella condizione di piena sinallagmaticità cui i Giudici di merito hanno fatto riferimento, in assenza di condotte specificamente induttive attribuibili al pubblico ufficiale, volte ad aggravare la condizione di soggezione del ricorrente, salvo il rilievo della sottolineata convenienza dell’accordo e salva altresì la concreta dinamica degli accordi sul prezzo.
2.8. Così introdotto il tema della trattativa, è agevole rilevare l’infondatezza o piuttosto l’irrilevanza degli assunti difensivi incentrati sull’illogicità della ricostruzione operata dalla Corte in ordine alla concreta definizione del quantum. E’ certo invero che una trattativa sul prezzo vi fu, perché alla resa dei conti il GN incassò una somma inferiore rispetto a quella inizialmente richiesta.
E’ stato peraltro sottolineato che il PE destinò al GN una somma superiore, sostanzialmente pari a quella inizialmente indicata, essendo stato altresì prospettato che i due intermediari potessero aver artatamente convenuto di continuare ad indicare come prezzo una somma superiore, per spartirsene tra loro una parte.
sul punto, non specificamente esaminato dal Tribunale, che ha significativamente ritenuto di poter prescindere dallo specifico profilo, appare decisivo il fatto che non esiste una tariffa corrente per patti illeciti del tipo di quelli venuti in evidenza, peraltro coinvolgenti rilevantissime somme di denaro.Ne discende che la configurabilità di un patto corruttivo anziché di un’induzione indebita discende dal fatto stesso che il privato avesse cercato l’accordo con il funzionario, avviando la relativa trattativa ed esponendosi alla relativa richiesta in vista del conseguimento dell’obiettivo, a prescindere dal fatto che fosse stato alla resa dei conti spuntato o meno un prezzo inferiore e a prescindere dal fatto che di ciò fosse stato o meno reso edotto il «dominus».
In tal senso risulta inconferente ogni censura riguardante il significato attribuito, peraltro aggiuntivamente, dalla Corte alla trattativa sul prezzo condotta dal SE, nel presupposto dell’attendibilità riconosciuta sul punto alle dichiarazioni di quest’ultimo.
Va comunque aggiunto che la Corte ha inserito il proprio giudizio nell’ambito di una più ampia valutazione delle risultanze processuali, dovendosi dunque respingere l’assunto che siano stati acriticamente ritenuti attendibili solo alcuni passi delle dichiarazioni del SE, a fronte della complessiva ricostruzione della vicenda, operata dai Giudici di merito seguendo il vincolante binario della logica, che li ha condotti a valorizzare una sincronica lettura delle diverse deposizioni e a dar conto dei singoli profili meritevoli di positivo scrutinio in funzione della verifica della concreta dinamica degli avvenimenti.
2.9. Non sono infine fondate le doglianze formulate nel primo motivo di ricorso con riguardo alla necessità di dar rilievo alla più generale intesa tra il GN e il MS che era venuta alla luce nel 2013 nel caso Laroma, all’origine delle indagini attraverso le quali si era risaliti anche alla vicenda del 2010.
I Giudici di merito hanno esaminato a tal fine sia le specifiche modalità, che avevano contrassegnato il caso Laroma, sia le conversazioni intercettate, invocate nel motivo di ricorso, che avrebbero dovuto dimostrare quell’intesa.
Ma hanno tutt’altro che illogicamente rilevato che le modalità, francamente induttive, dell’episodio Laronna, ben diverse da quelle venute in evidenza nel caso in esame, non implicavano che anche tre anni prima il GN e il MS avessero già dato vita ad un’intesa stabile di analogo contenuto, in una fase in cui l’arrivo a Firenze del GN era recente e la conoscenza del MS, come osservato dal Tribunale, era tutta da collaudare, potendosi al contrario ritenere che l’illecito asse tra i due si fosse formato e rafforzato nel tempo.
Né può dirsi che il tenore delle conversazioni intercettate, ove interpretate nel senso di evocare anche l’episodio oggetto di verifica in questa sede, postuli una dirimente lettura di segno diverso rispetto a quella complessivamente e non illogicamente proposta dai Giudici di merito, non essendo dunque ravvisabile neppure un travisamento della prova.
3. Il secondo motivo è inammissibile, perché interamente volto a prospettare una diversa ricostruzione del merito, ben oltre i limiti dello scrutinio di legittimità, e comunque manifestamente infondato.
3.1. Si assume che il PE avrebbe subito un accertamento pretestuoso e che poi indebitamente sarebbero state respinte le richieste di annullamento in autotutela, quale strumento di pressione, poi concretamente esplicitata dal MS su incarico del GN.
Si tratta della riproduzione di doglianze che erano state già prospettate e che fin dal primo grado avevano peraltro avuto idonea risposta.
3.2. Va in proposito rilevato che del tutto inconferente deve considerarsi la fondatezza o meno dell’originario accertamento nei confronti della figlia del PE, giacché la via maestra del ricorso era venuta meno solo per la negligenza della parte, che aveva fatto scadere i relativi termini, rendendo l’accertamento definitivo.
D’altro canto i Giudici di merito hanno ampiamente chiarito come, al di là della previsione della possibilità per l’amministrazione finanziaria di agire in autotutela, per emendare atti illegittimi o infondati, la richiesta di annullamento in autotutela non possa essere utilmente formulata dal privato se non deducendo un rilevante interesse generale per l’amministrazione, unico presupposto che potrebbe essere poi fatto valere avverso un diniego, essendo invece precluso ogni riferimento a vizi dell’accertamento (sul punto la giurisprudenza di legittimità risulta consolidata: Cass. Civ. Sez. 5, n. 1965 del 26/1/2018, rv. 646810-01; Cass. Civ., Sez. 5, n. 14243 del 8/7/2015, rv. 635875-01; Cass. Civ. Sez. 5, n. 3442 del 20/2/2015, 634479-01; Cass. Civ. Sez. 6-5, n. 25524 del 2/12/2014, rv. 633652.01; Cass. Civ. Sez. 5, n. 11457 del 12/5/2010, rv. 612986-01).
3.3. Ne discende che risulta inconfigurabile una condotta induttiva ascrivibile al GN, sia pur per il tramite del MS, mentre l’attivazione del MS, come segnalato dal Tribunale, veniva ancora una volta ad assumere un significato diverso, cioè quello dell’utilizzazione di quell’improprio canale per realizzare un obiettivo non altrimenti raggiungibile (si rinvia sul punto all’analisi delle dichiarazioni del PE, reputate in varia guisa inattendibili, di cui alle pagg. 48 segg. della sentenza di primo grado).
Né può dirsi in tale prospettiva travisato o illogicamente valutato il passo delle dichiarazioni del MS, da cui emerge che costui aveva detto al PE, sostanzialmente quale tramite del GN, che gli «merita pagare», dovendosi comunque considerare ancora una volta il tipo di relazione venutasi ad instaurare tra i vari soggetti, che, secondo la non illogica valutazione dei Giudici di merito, non avrebbe potuto intendersi quale risultato di un abuso induttivo, in assenza di una mirata strumentalizzazione dei poteri, ma quale paritaria e prezzolata intesa, destinata a favorire il privato e rappresentata dal riconoscimento delle c.d. spese vive al GN (cfr. pag. 51 della sentenza del Tribunale).
Va d’altro canto rimarcato che in concreto l’annullamento colpì l’intero accertamento e fu seguito dall’adozione di un accertamento diverso, suscettibile di specifica impugnazione, in ragione non dell’accoglimento delle deduzioni inerenti alla fondatezza della pretesa impositiva, ma solo di una parziale modifica nel calcolo della consistenza dell’immobile della contribuente, che avrebbe potuto trovare riconoscimento in una semplice rettifica, non incidente sulla definitività dell’accertamento: lo stesso PE, nelle dichiarazioni riportate nella sentenza di primo grado (pag. 50), dà atto che tale meccanismo era stato specificamente individuato come idoneo a giungere al risultato sperato e che in relazione a ciò era previsto il compenso per il GN, evidentemente correlato non a condotta induttiva ma all’ausilio prestato.
Deve aggiungersi che la Corte non ha inteso affatto affermare che il PE avesse omesso deliberatamente di impugnare nei termini l’accertamento, ma che egli era assistito dalla consapevolezza di poter accedere ad un percorso privilegiato, circostanza tale da escludere in radice la configurabilità dello sfruttamento di una condizione di soggezione.
3.4. Solo di passaggio, per quanto il tema non abbia formato oggetto di uno specifico motivo di ricorso, ma sia stato solo genericamente evocato attraverso il riferimento alla legittimità dell’esercizio del potere annullamento in autotutela, deve ribadirsi la correttezza della qualificazione giuridica del fatto contestato al capo G) come corruzione propria: proprio la strumentalità, emergente dalle richiamate dichiarazioni del PE, tra l’annullamento dell’accertamento, in realtà divenuto ormai definitivo, e la possibilità di impugnare il nuovo atto di accertamento, attesta lo sviamento della funzione del GN, che in violazione dei canoni dell’imparzialità e del buon andamento della P.A. ha strumentalmente utilizzato il meccanismo offerto dall’ordinamento, ben oltre la finalità di assicurare un preciso ricalcolo della consistenza dell’immobile, che avrebbe potuto dare luogo ad una mera rettifica, come suggerito dall’ufficio legale (pag. 46 della sentenza di primo grado), consentendo al ricorrente di impugnare funditus il nuovo accertamento, in cambio della somma di denaro erogata dal PE tramite il MS.
4. Sul piano logico si impone ora l’esame del quarto motivo di ricorso e del secondo motivo aggiunto, che concernono il tema della qualificazione della corruzione di cui al capo E).
4.1. Deve subito osservarsi che l’assunto esposto nel motivo nuovo in ordine alla mancata valutazione delle doglianze sollevate con il motivo aggiunto di appello è generico, giacché grava sul ricorrente l’onere di illustrare specificamente i temi dedotti, cui la Corte avrebbe omesso di fornire risposta, ben potendo la motivazione tener conto di argomenti difensivi, superandoli sulla base di un ragionamento che ne sottenda l’infondatezza (sul punto si rinvia a Cass. Sez. 3, n. 35964 del 4/11/2014, dep. nel 2015, B., rv. 264879; Cass. Sez. 6, n. 21858 del 19/12/2006, dep. nel 2007, Tagliente, rv. 236689).
4.2. Per il resto deve aversi riguardo a quanto dedotto nel terzo motivo e richiamato nel quarto, al fine di dimostrare la conformità all’ordinamento degli atti di accertamento con adesione.
In tale prospettiva il motivo è infondato, dovendosi confermare la qualificazione del fatto come corruzione propria.
4.3. Sul punto i Giudici di merito hanno ampiamente motivato, sottolineando innanzi tutto la legittimità dell’originario accertamento, fondato sul rilievo della pratica elusiva e dell’abuso del diritto, attraverso cui, per il tramite di una serie articolata e connessa di operazioni societarie, non aventi in realtà alcuna ragione specifica diversa da quella di assicurare un beneficio fiscale, era stato sottratto a tassazione il reddito di impresa della società Impresa dr. Ing. GT s.p.a., relativo all’esercizio 1/5/2005-30/4/2006.
In particolare è stato sottolineato come: 1) fossero state artatamente create le società Xxxx e Zzzzz, quali partecipanti al 50%, ma in realtà mere scatole vuote; 2) in data 26/4/2006 la società Impresa dr. Ing. GT s.p.a. avesse dichiarato di avvalersi del regime di trasparenza fiscale di cui all’art. 115, comma 1, d.P.R. 917 del 1986, con imputazione del reddito alle partecipanti, il cui esercizio, sfalsato, decorreva da gennaio a dicembre; 3) la partecipazione fosse stata iscritta all’attivo circolante delle due società; 4) infine in data 29/12/2006 tali società avessero ceduto la partecipazione a GT PE Group, denunciando una nninusvalenza di complessivi euro 20.486.144,00 (euro 10.243,072,00 per ciascuna), derivante dalla differenza tra prezzo di cessione e costo fiscale della partecipazione, cui erano da aggiungersi gli utili non distribuiti ai soci, per un ammontare di euro 20.686.144,00, con l’effetto di azzerare la tassazione sui redditi di Impresa dr. Ing. GT s.p.a., che erano stati dichiarati nella misura di euro 21.886.144,00 e poi traslati in ragione di euro 10.943.072,00 per ciascuna società partecipante.
Il Tribunale e la Corte hanno posto in luce le ragioni per cui l’operazione non rispondeva ad alcun canone di concreta utilità, a fronte di quelli dichiarati, essendo peraltro particolarmente significative le modalità utilizzate, tra le quali, sintomaticamente importante risultava quella costituita dall’iscrizione delle partecipazioni nell’attivo circolante, attestante di per sé il carattere meramente transeunte e strumentale della partecipazione, in funzione dell’obiettivo perseguito.
Va d’altro canto osservato che il Tribunale ha esaminato ogni specifico aspetto invocato a fondamento dell’articolata operazione, fornendo in proposito nitide risposte.
E comunque è d’uopo rilevare che sul punto, in questa sede, non sono stati formulati specifici rilievi.
Può dirsi dunque che la complessiva operazione avesse assunto i tratti dell’elusione di imposta e dell’abuso del diritto, secondo quanto desumibile da una progressiva elaborazione normativa e giurisprudenziale, a partire soprattutto dall’introduzione dell’art. 37-bis nel d.P.R. 600 del 1973 da parte dell’art. 7 digs. 358 del 1997, fino ad arresti della giurisprudenza di legittimità (fra l’altro Cass. Civ., Sez. 5, n. 21221 del 29/9/2006, rv. 593682-01), ispirati anche da pronunce della Corte di Giustizia U.E., culminati nel principio da ultimo affermato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione (Cass. Sez. U. Civ., 30055 del 23/12/2008, rv. 605851 -01).
E’ stato altresì rilevato dai Giudici di merito come l’accertamento avesse ricevuto l’avallo anche dell’Agenzia Regionale delle Entrate nell’ottobre 2009.
Da ciò avrebbe dovuto discendere l’inopponibilità all’Amministrazione finanziaria delle operazioni elusive, con conseguente recupero di imposta.
4.4. I rilievi formulati in questa sede hanno piuttosto riguardato gli atti di accertamento con adesione, in effetti imputati quali atti contrari ai doveri di ufficio del funzionario.
Sono stati richiamati i fondamenti normativi dell’accertamento con adesione e si è sostenuto, alla luce delle circolari emanate, che siffatto accertamento è correlato alla misurazione di un legittimo presupposto impositivo da rideterminarsi nel quantum, tenendo conto degli elementi di valutazione addotti dal contribuente in contraddittorio, salva la necessità che il potere discrezionale dell’ufficio si estrinsechi in una valutazione complessa, correlata all’indice di affidabilità dell’accertamento, a tal fine dovendosi in particolare tener conto che nel caso in esame si trattava di applicazione di disposizioni antielusive e che si doveva valutare il grado di sostenibilità della pretesa tributaria.
4.5. Orbene, su tali punti i Giudici di merito si sono pronunciati con nitidi rilievi che hanno fornito idonee risposte ai quesiti sollevati.
Il Tribunale in particolare ha sottolineato come l’atto di adesione avesse riconosciuto l’esistenza dell’intento abusivo-elusivo, ma lo avesse rinvenuto in capo alle due società Xxxx e Zzzzz, che avevano compensato il reddito traslato e le minusvalenze su titolo «no pex», oltre che beneficiato in modo indebito degli acconti pagati dalla GT s.p.a. Su tali basi il contraddittorio era stato esteso alle due società, in vista di una sincronica definizione delle posizioni, che coinvolgesse anche tali società.
In concreto era stato computato a carico della GT il reddito nei limiti degli acconti versati, con riduzione ad euro 2.617.538,00 ed esclusione del maggiore importo di euro 4.660.504,00.
Ma rileva il Tribunale come, smentendo il dato di partenza del riconoscimento della natura elusiva-abusiva dell’operazione, l’atto di accertamento avesse finito per affermare che l’intento elusivo non sarebbe stato del tutto certo e quantificabile, cosicché le operazioni avrebbero potuto avere una finalità diversa da quella fiscale.
In tale prospettiva si sottolinea come nell’invito fosse stata segnalata la revoca dell’operazione di trasparenza ex art. 115 cit. e sottolineata l’eliminazione delle variazioni in diminuzione per euro 10.843.72,00 di cui al rigo RF58, con conseguente imposta a debito di euro 1.272.497,00: ma si osserva tuttavia che nell’atto di accertamento al rigo RF58 era stata conservata la variazione in diminuzione con la conseguenza di attribuire tra gli importi accertabili una perdita per Zzzzz di euro 10.591.525,00 e per Xxxx di euro 10.591.547,00.
Alla resa dei conti, osserva il Tribunale come fossero stati utilizzati criteri del tutto approssimativi e contraddittori, fino al punto che il recupero di imposta a carico delle due società era risultato apparente, in quanto il debito era stato compensato con il riconoscimento della facoltà di utilizzare il credito che risultava dalle dichiarazioni Xxxx e Zzzzz: ma, come rilevato dal Tribunale, il credito si fondava su un’operazione derivante dalla combinazione del regime della trasparenza con quello della variazione in diminuzione delle perdite dedotte nella dichiarazione dei redditi, incompatibile con il carattere elusivo-abusivo dell’operazione nel suo complesso.
A fronte di ciò è stato rilevato che le deduzioni difensive non tenevano conto dell’assenza di plausibili giustificazioni, della contraddittorietà dei risultati e del tenore delle circolari, pur invocate ex adverso, che imponevano in realtà di utilizzare non generiche formule di economicità dell’azione, di deflazione del contenzioso e di celere acquisizione dei tributi, ove disancorati dalla specificità delle posizioni fiscali interessate dal procedimento, non potendosi prescindere dalla valutazione del contesto, nella fase di attribuzione dell’indice di affidabilità dell’accertamento.
Anche la Corte territoriale ha posto in luce sul punto che l’atto di accertamento con adesione non avrebbe potuto assumere natura genericamente transattiva, ma avrebbe dovuto dar conto delle obiezioni del contribuente e del margine di loro fondatezza, derivandone in questo caso che, se fosse stato riconosciuto un apprezzabile interesse allo svolgimento delle operazioni societarie, non avrebbe potuto farsi luogo a recupero di imposta, nel caso opposto non essendo dato comprendere come sulla base di un percorso trasparente potesse giungersi alle soluzioni proposte.
4.6. Deve in effetti convenirsi con i Giudici di merito che i combinati atti di accertamento con adesione riflettono la necessità di addivenire ad un apparente compromesso, muovendo dal teorico riconoscimento del carattere elusivo- abusivo, ma poi, senza concreta spiegazione, disattendendolo, così da pervenire a conclusioni imperscrutabili nei singoli passaggi e sostanzialmente volte a vanificare il recupero di imposta e azzerare di fatto la tassazione del reddito di impresa della GT s.p.a.
Appare in tale prospettiva determinante il carattere strumentale e contraddittorio della soluzione escogitata, che eccede i limiti del corretto esercizio della discrezionalità tecnica affidata alla P.A., al fine di addivenire in contraddittorio alla commisurazione delle ragioni del contribuente: in particolare, non viene preso in alcun modo in considerazione il fatto che fosse ormai consolidato l’orientamento volto a dar rilievo all’abuso del diritto, non vengono specificamente indicate le ragioni per cui alla complessa operazione potesse in effetti corrispondere una concreta utilità, avuto riguardo allo specifico profilo della trasparenza, realizzata mediante «scatole vuote», transitoriamente operanti, e vengono congegnate soluzioni che si prefiggono di vanificare le premesse, come posto in luce dal Tribunale in relazione allo scostamento tra invito al contraddittorio, rivolto alle società, e atto di accertamento poi sottoscritto, con in più il sostanziale azzeramento di ogni recupero, tramite la riconosciuta possibilità alle due società di avvalersi del credito che risultava dalle dichiarazioni, peraltro frutto di un’elaborazione elusiva.
4.7. Risultano del resto generici i rilievi difensivi che mirano a contestare l’assunto della duplicazione del credito di imposta, fermo restando che il Tribunale ha dato concretamente conto della spiegazione fornita al riguardo dal consulente di parte, sottolineando le ragioni per cui in concreto il risultato conseguito avrebbe dovuto reputarsi contrastante con le premesse (pagg. 26 e 27 della sentenza di primo grado).
Né avrebbe potuto valutarsi la consistenza degli atti di accertamento considerando una percentuale di recupero pari al 36,7%, in realtà discendente da profili non in contestazione e dunque non involgente il tema chiave dell’inopponibilità radicale dell’operazione elusiva-abusiva.
Parimenti infondata risulta la pretesa di trarre argomenti dal fatto che agli atti di accertamento avessero in varia guisa collaborato gli altri funzionari dell’ufficio, sul punto essendo stato ampiamente sottolineato dal Tribunale come in realtà il GN fosse risultato il «dominus» dell’operazione, non idoneamente supportato da un consistente ausilio degli altri (si richiamano al riguardo le osservazioni del Tribunale a pagg. 28 e 29), fermo restando che i rilievi sul punto risultano volti solo a prospettare una lettura alternativa, non incentrata sulla deduzione di vizi specifici del ragionamento.
4.8. Si comprende dunque il motivo per cui gli atti di accertamento con adesione debbano reputarsi il risultato di un preordinato sviamento della funzione, non rilevando che in astratto potesse ammettersi l’accesso a quella forma di confronto in contraddittorio, ma essendo determinante la circostanza che, in violazione dei principi di imparzialità, trasparenza e buon andamento, fosse stata seguita una procedura non lineare e opaca, tale da non assicurare alcun concreto recupero di imposta, disattendendo nella sostanza la stessa premessa della natura elusiva dell’operazione originata dall’opzione per la trasparenza ex art. 115 cit.
Devono dunque in questa sede richiamarsi consolidati principi alla cui stregua è ravvisabile il delitto di corruzione propria in presenza di un distorto esercizio del potere discrezionale, propiziato dall’elargizione di un indebito compenso e funzionale al conseguimento di un risultato predeterminato (Cass. Sez. 6, n. 4459 del 24711/2016, dep, nel 2017, Fiorani, rv. 269613; Cass. Sez. 6, n. 6677 del 3/2/2016, Maggiore, rv. 267187; Cass. Sez. 6, n. 23354 del 4/272014, Conte, rv. 260533).
4.9. Va da ultimo rilevato che il reato non è estinto per prescrizione, non essendo decorso il termine massimo di anni sette e mesi sei, in quanto dalla sentenza di primo grado (pagg. 39 e 40) risulta che i pagamenti al funzionario, dai quali, per effetto della natura progressiva della consumazione, deve farsi decorrere il relativo termine (Cass. Sez. U. n. 15208 del 25/2/2010, Mills, rv. 246583; Cass. Sez. 6, n. 4105 del 1/12/2016, dep. nel 2017, Ferroni, rv. 269501), furono ultimati, stando al PE, nel marzo del 2011 e, stando al SE, attraverso frazionate dazioni, succedutesi a distanza di tempo, a partire dal dicembre 2010, il che consente con certezza di escludere che i pagamenti fossero stati ultimati entro 1’8 dicembre 2010.
5. Venendo da ultimo al terzo motivo e al primo motivo aggiunto, riguardanti il tema della confisca, si rileva che gli stessi sono parimenti infondati.
5.1. Deve in primo luogo rimarcarsi che non possono prendersi in considerazione gli argomenti volti a censurare il proscioglimento della società e la revoca della confisca nei confronti di quest’ultima, pronunciati dalla Corte nel presupposto dell’intervenuto fallimento.
Va in effetti osservato che la revoca della confisca, che era stata disposta ai sensi dell’art. 322-ter cod. pen., avrebbe dovuto comunque formare oggetto di specifico esame e di puntuale motivazione, ben al di là della mera presa d’atto dell’intervenuto fallimento.
Ma sta di fatto che la parte pubblica non ha presentato impugnazione e che il ricorrente non può dirsi legittimato ad interloquire «in peius» con riguardo alla posizione di un diverso soggetto.
5.2. Deve tuttavia verificarsi se le doglianze del ricorrente siano fondate, nella parte che concernono la confisca in concreto disposta e confermata a carico del predetto. Al quesito deve darsi risposta negativa.
5.3. Ai sensi dell’art. 322-ter, comma secondo, cod. pen. in caso di condanna per il delitto di cui all’art. 321 cod. pen. (come nel caso di specie) è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a quello di detto profitto.
Si avrà modo di tornare sul tema della concreta quantificazione.
Ma per intanto deve porsi in evidenza che, come esattamente rilevato dal ricorrente, deve in primo luogo aggredirsi in via diretta ciò che forma oggetto del profitto e solo nel caso, in cui ciò non sia possibile, procedersi alla confisca di valore, cioè avente ad oggetto beni di valore corrispondente, anche se non direttamente rivenienti dal reato.
Il profitto, com’è noto, «si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito» (Cass. Sez. U. n. 31617 del 26/6/2015, Lucci, rv. 264436).
Nel caso di specie il profitto va correlato alla condotta corruttiva.
Questa ha in concreto propiziato gli atti di accertamento con adesione che sono valsi a vanificare gli effetti del precedente accertamento, fondato sul presupposto del carattere elusivo-abusivo delle combinate operazioni societarie.
Avuto riguardo alla sostanziale sovrapponibilità della situazione con quella che usualmente si registra in materia di reati tributari, possono richiamarsi i principi a tal fine elaborati dalla giurisprudenza, alla cui stregua può aversi riguardo al risparmio di spesa corrispondente al mancato pagamento del tributo (sul punto Cass. Sez. U. n. 18374 del 31/1/2013, Adami, rv. 255036, nonché Cass. Sez. U. n. 10561 del 3071/2014, Gubert, sul punto non massimata).
Ciò significa che nel caso di specie avrebbe dovuto in primo luogo procedersi alla confisca diretta del profitto, così specificamente individuato.
Ma è di tutta evidenza che nel caso di un risparmio di spesa la concreta individuazione del profitto si risolve in un’operazione numeraria di sostanziale traslazione in un corrispondente pecuniario, non potendosi affermare che il risparmio si disperda in modo indeterminato su ogni tipo di bene di pertinenza del soggetto che ha fruito di esso.
In altre parole lo stesso implica l’individuazione di somme pari all’entità del risparmio, le quali in presenza di un valore di tipo accrescitivo debbono fungibilmente reputarsi corrispondenti al profitto e suscettibili dunque di confisca diretta (sul punto della confiscabilità diretta del denaro, Cass. Sez. U. n. 31617 del 26/6/2015, Lucci, rv. 264437; sulla confisca del denaro, quale corrispondente al risparmio, in motivazione, Cass. Sez. 4, n. 10418 del 24/1/2018, Rubino, rv. 272238, e Cass. Sez. 3, n. 40362 del 6/7/2016, D’Agostino, rv. 268587).
In forza dei principi generali è tuttavia possibile che si stabilisca un diretto collegamento tra il profitto immediato e la sua conseguente trasformazione in altro tipo di bene, quale forma di reimpiego di esso (Cass. Sez. U. n. 10280 del 25710/2007, dep. nel 2008, Miragliotta, rv. 238700; Cass. Sez. 6, n. 7896 del 15/12/2017, dep. nel 2018, Zullo, rv. 272482): tale reimpiego diventerà in tal modo suscettibile di confisca diretta, peraltro purché la diretta correlazione causale con il reato e con il profitto da esso immediatamente derivante venga concretamente attestata e comprovata, oltre che, se del caso, in primo luogo allegata dal diretto interessato.
In conclusione può dunque affermarsi che nel caso di specie avrebbe dovuto in primo luogo procedersi alla confisca diretta di somme di denaro, costituenti il corrispondente del profitto, derivante dal risparmio di spesa, ovvero di beni costituenti il reimpiego di quel risparmio.
5.4. Il ricorrente ha contestato la legittimità della confisca disposta a suo carico, specificamente osservando che avrebbe dovuto procedersi alla confisca diretta del profitto e rilevando che lo stesso era stato acquisito dalla società e si era conservato all’interno di essa, al di là del sopravvenuto fallimento.
A tal fine il ricorrente ha anche segnalato che era stata chiesta la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale e che comunque era stata prospettata la capienza del patrimonio immobiliare ancora rinvenibile presso la società.
Si tratta di assunto in linea di principio fondato ma in concreto non meritevole di accoglimento, anche perché sorretto da motivi sul punto generici.
5.5. Va in effetti rilevato che può disporsi la confisca diretta del profitto rimasto nella disponibilità della persona giuridica a fronte di reato tributario commesso dal suo legale rappresentante (Cass. Sez. U. n. 10561 del 30/1/2014, Gubert, rv. 258647): nel caso di specie non si tratta di reato tributario ma di situazione che, per quanto già rilevato, risulta sovrapponibile, in quanto il profitto della corruzione si è tradotto nella vanificazione di un precedente accertamento.
Il ricorrente, come detto, ha dedotto che il profitto era stato acquisito dalla società, il che corrisponde ad un dato logico, avuto riguardo al fatto che l’operazione elusiva era riconducibile all’improprio uso della trasparenza di cui all’art. 115 d.P.R. 917 del 1986 da parte della società Impresa dr. Ing. GT s.p.a., non essendo stati prospettati nelle sentenze di merito elementi che consentano di ricondurre l’acquisizione del profitto direttamente al ricorrente, anche al di là del suo ruolo di legale rappresentante.
In tale prospettiva il profitto avrebbe dovuto ricercarsi nella società, poi fallita.
Ma a tal fine avrebbe dovuto farsi riferimento a disponibilità liquide o a specifici investimenti del risparmio di spesa riveniente dall’attività corruttiva (sul punto in motivazione, Cass. Sez. 4, n. 10418 del 24/1/2018, Rubino, rv. 272238, cit.).
Così inquadrato il problema, appare evidente che l’impostazione del ricorrente non trova riscontro, in punto di fatto, nella concreta individuazione dei beni costituenti il profitto, che avrebbero potuto essere aggrediti prima di ricorrere alla confisca per equivalente.
Va infatti considerato che, a fronte di sequestri eseguiti nel corso del procedimento anche nei confronti della società, e poi revocati, il ricorrente non ha specificamente prospettato che quei beni fossero riconducibili al risparmio di spesa o che ve ne fossero altri costituenti lo specifico profitto del reato.
D’altro canto il ricorrente ha in questa sede rilevato che il profitto era rimasto nella società e ha invocato la disponibilità di un patrimonio immobiliare capiente, rispetto all’ammontare del profitto suscettibile di confisca, ma ciò si traduce in realtà in una prospettazione aspecifica e inidonea, non essendo concretamente segnalata la disponibilità di denaro o di beni costituenti reimpiego del profitto e soprattutto non essendo dedotta la correlazione causale tra la disponibilità di determinati beni e il reato commesso, condizione necessaria perché possa parlarsi di beni soggetti a confisca diretta (in via generale si rileva anche la sussistenza di un onere di allegazione del soggetto interessato: Cass. Sez. 3, n. 43816 del 1/12/2016, Di Florio, rv. 271254).
In definitiva si finisce per invocare una generica dispersione del profitto nel patrimonio, ciò che in realtà non consente di definire gli specifici contenuti del profitto derivante dal reato, ma apre la strada alla confisca per equivalente. Ed a questo punto la confisca, ai sensi dell’art. 322-ter, cod. pen., ben poteva e doveva riguardare i beni del soggetto chiamato a rispondere del reato, nel caso di specie lo stesso ricorrente.
5.6. E’ stata però contestata la quantificazione della confisca, osservandosi che avrebbe dovuto aversi riguardo al profitto specificamente riveniente dalla corruzione e che, essendosi quest’ultima proiettata sugli atti di accertamento con adesione, si sarebbe dovuto considerare, a fronte di un meccanismo di definizione in sé lecito, quale potesse essere il diverso recupero di imposta che avrebbe potuto discendere dall’utilizzo di criteri di accertamento non condizionati dal patto corruttivo, a fronte della riconosciuta difficoltà di individuare un preciso comportamento corretto del contribuente da opporre al comportamento adottato. Tale impostazione non può trovare accoglimento.
5.7. E’ indubitabile che debba aversi riguardo al profitto riveniente dal patto corruttivo.
Ma si è già avuto modo di rilevare che l’oggetto dedotto nel patto era costituito dalla vanificazione del recupero di imposta a carico della società Impresa dr. Ing. GT s.p.a., riveniente dal precedente verbale di accertamento, tramite l’utilizzo dello strumento dell’accertamento con adesione, che, esteso alle due società Xxxx e Zzzzz, aveva condotto all’azzeramento degli effetti di quel primo accertamento con le modalità sopra ricordate e ampiamente descritte dai Giudici di merito.
Per quanto l’accertamento con adesione costituisca strumento di definizione astrattamente lecito, va nondimeno osservato come nel caso di specie esso abbia costituito lo strumento per annullare gli effetti sfavorevoli al PE, in tale annullamento dovendosi ricercare dunque il concreto profitto derivante dal patto corruttivo, che, come si è avuto modo di rilevare, corrisponde nella sostanza ad un cospicuo risparmio di imposta e dunque di spesa.
Non ha alcun fondamento l’assunto difensivo secondo cui dovrebbe ricercarsi il diverso legittimo punto di equilibrio raggiungibile con un atto di accertamento con adesione non condizionato dalla corruzione.
In primo luogo si tratta di una prospettiva meramente esplorativa e non concretizzabile, mentre si è rilevato come la corruzione abbia in radice condizionato l’esercizio della discrezionalità tecnica e come dunque abbia dato luogo all’elaborazione non di un ipotetico atto ma di quello specifico atto di accertamento, che deve considerarsi inficiato dal pregiudiziale sviamento e che si è tradotto nel conseguimento del risparmio di spesa corrispondente all’imposta di cui è stato vanificato il recupero.
In secondo luogo va rimarcato come i Giudici di merito, senza che sul punto siano state formulate in questa sede specifiche doglianze, abbiano sottolineato la correttezza del primo accertamento, fondato sulla puntuale applicazione del principio di inopponibilità di operazioni elusive-abusive, nella rilevata assenza di concrete giustificazioni di tipo imprenditoriale, diverse da quella del conseguimento del beneficio fiscale, con la conseguenza che l’accertamento vanificato ben può costituire il parametro di riferimento per la definizione del profitto riveniente dal patto corruttivo.
Per ogni ulteriore considerazione sul punto formulata nel terzo motivo devono richiamarsi i rilievi già formulati (cfr. retro al punto 4 del Considerato in diritto).
5.8. Resta da esaminare il tema della inclusione o meno nel profitto anche degli importi corrispondenti ad interessi e sanzioni.
Si è infatti invocato l’orientamento secondo cui in materia di reati tributari non dovrebbe conteggiarsi nel profitto anche siffatta specie di importi, costituenti semmai il costo del reato (sul punto fra l’altro Cass. Sez. 3, n. 28047 del 20/1/2017, Giani, rv. 270429), potendosi fare eccezione solo per il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.
In realtà, al di là del riscontro, in tema di reati tributari, di un orientamento non univoco (propende per l’inclusione nel profitto non solo del risparmio di spesa ma anche di vantaggi riflessi ulteriori, derivanti da interessi e sanzioni, Cass. Sez. 3, n. 11836 del 4/7/2012, Bardazzi, rv. 254737), è significativo che vi sia concordia nel riconoscimento dell’inclusione di interessi e sanzioni nel caso della sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (sul punto in effetti Cass. Sez. U. n. 18374 del 31/1/2013, Adami, rv. 255036, cit.; Cass. Sez. 3, n. 28047 del 20/1/2017, Giani, rv. 270429, cit.).
Va infatti considerato che nel caso in esame è dato cogliere essenzialmente il profilo della vanificazione dell’accertamento, che di per sé includeva non solo un recupero di imposta ma anche le voci strettamente collegate degli interessi e delle sanzioni: in altre parole, diversamente da un reato tributario consistente nella sottrazione di cespiti ad imposizione, nella presente vicenda il patto corruttivo, azzerando gli effetti del primo accertamento, ha comportato che il risparmio di spesa riguardasse non solo le imposte ma anche gli accessori specificamente determinati, riproducendosi una situazione sul piano logico corrispondente a quella della sottrazione fraudolenta al pagamento di somme definite, già includenti interessi e sanzioni.
Proprio in ragione del fatto che deve tenersi conto delle conseguenze del patto corruttivo, l’entità della confisca per equivalente deve essere dunque calcolata tenendo conto delle voci aggiuntive, infondatamente contestate.
In tale ottica risulta correttamente determinata l’entità della confisca, pari ad euro 6.726.538,92, calcolata muovendo dagli importi oggetto del primo accertamento, da cui dovevano essere detratti gli acconti pagati, in misura di euro 2.621.000,00 -peraltro confermati nell’atto di accertamento con adesione-, e pervenendosi in tal modo alla somma precisa di euro 4.604.889, cui vanno aggiunti, come rilevato, interessi e sanzioni (euro 582.052,27+euro 1.539.597,55), già definiti in relazione al primo accertamento.
6. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P. Q. M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Possono essere interessanti anche le seguenti pubblicazioni:
- CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 29398 depositata il 25 luglio, 2022 - In tema di sequestro a fini di confisca del profitto monetario del reato la natura fungibile, tipica del denaro, renda del tutto irrilevante stabilire se quello…
- AGENZIA DELLE ENTRATE - Provvedimento 12 novembre 2021, n. 312528 - Comunicazione dell’opzione relativa agli interventi di recupero del patrimonio edilizio, efficienza energetica, rischio sismico, impianti fotovoltaici e colonnine di ricarica.…
- Agenzia delle Entrate - Provvedimento del Direttore protocollo n. 107620/2022 del 6 aprile 2022 - Modificazioni al modello di comunicazione per la fruizione del credito d’imposta per gli investimenti nel Mezzogiorno, nei comuni del sisma del…
- CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 17546 depositata il 24 aprile 2019 - Legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto rimasto nella disponibilità di una persona giuridica, derivante dal reato tributario…
- AGENZIA DELLE ENTRATE - Provvedimento 09 agosto 2019, n. 670294 - Definizione delle modalità di presentazione della comunicazione per la fruizione del credito d’imposta per gli investimenti nei comuni colpiti dagli eventi sismici a far data dal 24…
- AGENZIA DELLE ENTRATE - Provvedimento 09 agosto 2019, n. 670294 - Definizione delle modalità di presentazione della comunicazione per la fruizione del credito d’imposta per gli investimenti nei comuni colpiti dagli eventi sismici a far data dal 24…
RICERCA NEL SITO
NEWSLETTER
ARTICOLI RECENTI
- E’ escluso l’applicazione dell’a
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 9759 deposi…
- Alla parte autodifesasi in quanto avvocato vanno l
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 7356 depositata il 19…
- Processo Tributario: il principio di equità sostit
Il processo tributario, costantemente affermato dal Supremo consesso, non è anno…
- Processo Tributario: la prova testimoniale
L’art. 7 comma 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 (codice di procedura tributar…
- L’inerenza dei costi va intesa in termini qu
L’inerenza dei costi va intesa in termini qualitativi e dunque di compatibilità,…