Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 38834 depositata il 23 agosto 2018
RITENUTO IN FATTO
1.La sig.ra LJ ricorre per l’annullamento della sentenza del 23/02/2017 della Corte di appello di Firenze che, rigettando la sua impugnazione, ha confermato la condanna alla pena (principale) di un anno di reclusione (oltre pene accessorie) inflitta con sentenza del 03/04/2014 dal Tribunale di Prato per il reato di cui all’art. 11, d.lgs. n. 74 del 2000, commesso in Prato il 01/07/2011.
1.1.Con il primo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. c) ed e), cod. proc. pen., la mancanza (anche grafica) di motivazione sul terzo motivo di appello sul quale la Corte territoriale ha totalmente omesso di pronunciarsi.
1.2.Con il secondo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’erronea applicazione degli artt. 533 e 530, cpv., cod. proc. pen., e 11, d.lgs. n. 74 del 2000, nonché l’omessa adeguata motivazione in ordine a tutte le circostanze evidenziate nel primo motivo di appello circa la sussistenza degli elementi tipici del reato contestato.
Deduce al riguardo che:
– la vendita dell’immobile è stata effettuata mediante accollo del mutuo ipotecario gravante sullo stesso;
– non vi è stata di conseguenza alcuna diminuzione patrimoniale, ma solo un miglioramento;
– il fatto che l’acquirente (dipendente dell’imputata) non potesse sostenere lo sforzo economico relativo al pagamento del mutuo non esclude che terzi possano aver prestato le adeguate garanzie, altrimenti la banca non avrebbe liberato la originaria mutuataria;
– ove la dipendente avesse partecipato al disegno fraudolento avrebbe dovuto essere imputata anch’essa a titolo di concorso nel reato, ma ciò non è accaduto;
– il mancato spostamento della residenza dall’immobile venduto non prova che l’imputata abbia continuato ad averne la disponibilità;
– la crisi di impresa giustificava la vendita e certamente giustificava una lettura favorevole all’imputata non basata su mere presunzioni.
1.3.Con il terzo motivo eccepisce la «violazione dell’art. 606, lett. b) ed e) c.p.p. con riferimento al motivo d’appello sub b)».
Deduce al riguardo che:
– l’iscrizione di ipoteca di secondo grado da parte dell’A.F. non costituiva garanzia idonea a soddisfare il credito erariale, vista la crisi d’impresa già nota alla stessa Agenzia delle Entrate;
– la Corte di appello ha omesso qualsiasi valutazione sui presupposti di fatto e di diritto posti a fondamento della richiesta cautelare (iscrizione di ipoteca di secondo grado) avanzata dall’A.F. e rivelatisi insussistenti;
-l’A.F. non ha tentato di rivalersi prima sui beni dell’impresa piuttosto che su quelli dell’imputata;
– in ogni caso, nell’ipotesi dell’inadempienza, i beni non sarebbero stati capienti visto che il valore dell’immobile venduto nel tempo si è abbassato rispetto a quello di mercato;
– dunque, non qualsiasi atto di disposizione patrimoniale è idoneo a integrare il reato di cui all’art. 11, d.lgs. n. 74 del 2000, ma solo quello che abbia determinato una diminuzione della consistenza patrimoniale al solo ed esclusivo fine di arrecare pregiudizio alle ragioni erariali, fine che può essere escluso nel caso di specie, avendo potuto agire l’imputata per ragioni diverse;
– l’aspettativa che l’imputata onorasse il mutuo non costituiva una garanzia effettiva per il futuro soddisfacimento delle obbligazioni tributarie;
– l’A.F. non ha mai intentato alcuna azione revocatoria della vendita.
1.4.Con il quarto motivo, deduce la mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche ed eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., la erronea applicazione dell’art. 62-bis cod. pen., ingiustamente escluso valorizzando gli elementi che già appartengono alla fattispecie incriminatrice quali elementi costitutivi del reato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
2. Il ricorso è inammissibile.
3.L’imputata risponde del reato di cui all’art. 11, d.lgs. n. 74 del 2000, perché, «in qualità di titolare della ditta “MS di LJ” (…), al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi e sul valore aggiunto nonché di interessi e sanzioni amministrative relativi a dette imposte per gli anni 2007 e 2008 ammontanti complessivamente ad euro 313.077,00, compiva atti fraudolenti sui propri beni idonei a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva, ovvero vendeva e trasferiva gli immobili di sua proprietà a WJ successivamente alla notifica degli avvisi di accertamento per i suddetti anni di imposta e sui quali la Commissione Tributaria Provinciale di Prato emetteva in data 07/07/2011 il decreto presidenziale n. 24/11 per iscrizione di ipoteca giudiziale. Commesso in Prato il 01/07/2011».
3.1.Secondo quanto risulta dalla motivazione della sentenza impugnata, il 12/05/2011 erano stati notificati all’imputata due avvisi di accertamento dell’importo complessivo di C 313.077,10. A garanzia del credito erariale l’Amministrazione Finanziaria aveva ottenuto dal presidente della competente commissione tributaria provinciale di poter iscrivere ipoteca su tre beni immobili di proprietà della Li, situati in Prato. Il relativo decreto era stato emesso, ai sensi dell’art. 22, d.lgs. n. 472 del 1997, il 07/07/2011. Al momento dell’iscrizione dell’ipoteca era emerso che i tre immobili erano stati alienati con atto notarile del 01/07/2011, trascritto il successivo 04/07/2011. Gli immobili erano stati venduti a WJ Janmei, lavoratrice dipendente della Li, mediante accollo del mutuo ipotecario gravante sugli immobili. L’importo annuo del mutuo corrispondeva allo stipendio annuo della WJ. Inoltre la Li risiedeva ancora in uno dei tre immobili ceduti.
3.2.Nel disattendere i rilievi difensivi, la Corte di appello ha osservato che:
3.2.1. la finalità di sottrarre i beni alla garanzia del debito tributario si desume con chiara evidenza dal fatto che l’imputata ha continuato a risiedere nel compendio immobiliare costituito da un’abitazione e dall’annesso garage;
3.2.2. l’imputata non ha mai voluto dismettere il compendio immobiliare, per cui non hanno rilevanza le deduzioni difensive circa la congruità del prezzo di vendita;
3.2.3. l’acquirente dell’immobile, dal canto suo, non ne ha mai acquisito il godimento, così dando prova che il negozio di vendita non era finalizzato a soddisfare alcun suo interesse;
3.2.4.il fatto che l’immobile fosse gravato da mutuo ipotecario non costituisce argomento decisivo, considerato che il regolare pagamento delle rate, proseguito anche dopo la vendita, non avrebbe diminuito la garanzia del credito erariale;
3.2.5. le circostanze attenuanti generiche non potevano essere applicate perché non erano emersi elementi positivi di valutazione diversi dall’incensuratezza, non potendosi ritenere tali la personale convinzione dell’imputata circa la infondatezza della pretesa erariale.
4.Tanto premesso, il primo motivo di ricorso è del tutto generico.
L’imputata non trascrive (e nemmeno sintetizza) il contenuto del terzo motivo di appello che deduce non esser stato esaminato dalla Corte territoriale, né specifica in che modo il vizio denunziato avrebbe inciso sulla decisione impugnata, tenuto conto dell’impianto complessivo della motivazione come sopra sintetizzato. Tra l’altro nel ricorso si afferma in modo del tutto generico che con il motivo di appello in questione era stata eccepita la illogicità e/o la contraddittorietà della sentenza del tribunale (senza indicare, però, sotto quale profilo). Orbene, il vizio di motivazione della sentenza di primo grado, se appellabile, non ha alcuna rilevanza se, come nel caso di specie, il giudice dell’appello non faccia ad essa integrale riferimento con motivazione “per relationem”. Oggetto di scrutinio, in sede di legittimità, è solo la motivazione del provvedimento impugnato che deve essere, essa sì, completa, non contraddittoria e non manifestamente illogica. Ne consegue che eventuali vizi di motivazione della sentenza del primo giudice non permeano quella del giudice dell’appello che non faccia integrale riferimento ad essa per disattendere le questioni devolute. Ciò perché il vizio di motivazione non costituisce motivo di nullità della sentenza appellabile e non legittima il giudice dell’appello a restituire gli atti al primo giudice ai sensi dell’art. 604 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 3287 del 27/11/2008, Rv. 244118; Sez. 2, n. 19246 del 30/03/2017, Speca, Rv. 270070; Sez. 3, n. 5636 del 08/03/1994, Canocchia, Rv. 197624; Sez. 3, n. 1732 del 29/07/1993, Pietrosanti, Rv. 194467; Sez. 1, n. 4490 del 03/11/1992, Sciannimonaco, 192430). Ne consegue che il giudice dell’appello ben può “sanare” il vizio di motivazione della sentenza di primo grado, integrandola o sostituendola con la propria.
5. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
5.1.L’alienazione degli immobili ha determinato oggettivamente la diminuzione del patrimonio della ricorrente e ha frustrato la sua funzione di garanzia del debito erariale. Non a caso il legislatore ha espressamente previsto, quale strumento per consentire all’Ufficio procedente di non perdere la garanzia del credito, la possibilità di iscrivere ipoteca sui beni del contribuente nei termini e modi previsti dall’art. 22, d.lgs. n. 472 del 1997. Nel caso di specie, l’alienazione degli immobili ha determinato l’impossibilità di attivare questa specifica forma di tutela del credito erariale. Il fatto che tale cessione sia avvenuta mediante accollo del mutuo residuo costituisce argomento privo di rilevanza poiché tale modalità di pagamento non ha determinato alcun concreto vantaggio a favore dell’Amministrazione procedente.
Ogni altra considerazione, volta evidentemente a contestare la natura fraudolenta (o non simulata) dell’operazione, circa il possibile aiuto economico fornito dai familiari dell’acquirente per il pagamento delle rate di mutuo (corrispondenti al suo stipendio mensile), la possibilità che la WJ abbia fornito garanzie necessarie all’accollo del mutuo, la sua mancata iscrizione nel registro delle notizie di reato come concorrente della Li, il fatto che quest’ultima abbia mantenuto la residenza nell’immobile senza alcuna prova che abbia continuato ad abitarvi, la necessità di far fronte alla crisi di impresa quale movente della vendita, costituiscono altrettante deduzioni volte, nel loro complesso, a fornire una valutazione diversa del medesimo compendio probatorio, una valutazione fondata, da un lato, su una visione parcellizzata dei singoli indizi, in contrasto con la regola di giudizio imposta dall’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., secondo cui gli indizi devono essere valutati in base alla loro “concordanza”, e dall’altro su meri possibilismi (che non si sono tradotti in fatti concretamente provati) e su argomenti ininfluenti (come la mancata iscrizione della WJ).
Tutto ciò senza considerare che la ricorrente non contesta nemmeno il mancato godimento dell’immobile da parte della WJ, che costituisce argomento rilevante a sostegno della fraudolenza della vendita.
6.A non diversi rilievi si espone il terzo motivo.
6.1.E’ sufficiente a tal fine evidenziare che:
6.1.1. ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 11, d.lgs. n. 74 del 2000, è sufficiente che la condotta sia idonea, con giudizio ex ante, a rendere inefficace anche in parte la procedura esecutiva, per cui il fatto che l’ipoteca fosse di secondo grado non ha alcuna rilevanza;
6.1.2.né, per lo stesso motivo, hanno rilevanza le ipotizzate vicende successive all’iscrizione dell’ipoteca di secondo grado, quale, ad esempio, il paventato futuro mancato pagamento delle rate del mutuo ipotecario, che costituisce mero esercizio di astrattismo teorico senza alcun aggancio alla realtà (è un dato di fatto che il pagamento del mutuo è avvenuto regolarmente anche dopo la vendita);
6.1.3.resta il fatto che la cessione degli immobili ha impedito l’iscrizione dell’ipoteca e, dunque, una oggettiva diminuzione della garanzia;
6.1.4. la fondatezza o meno del credito erariale non incide sulla sussistenza del reato; l’oggetto giuridico del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte non è il diritto di credito del fisco, bensì la garanzia generica data dai beni dell’obbligato, potendo quindi il reato configurarsi persino qualora, dopo il compimento degli atti fraudolenti, avvenga comunque il pagamento dell’imposta e dei relativi accessori (Sez. 3, n. 36290 del 18/05/2011, Cualbu, Rv. 251077);
6.1.5. l’imputata è titolare dell’omonima impresa individuale, sicché il suo patrimonio garantisce tutti i debiti da essa a qualsiasi titolo contratti;
6.1.6.anche la possibile spiegazione alternativa dello scopo della vendita (liberarsi di un debito che probabilmente non sarebbe stato adempiuto) dimostra che la motivazione della condanna non è manifestamente illogica e in ogni caso si fonda, ancora una volta, su eventi futuri e incerti;
6.1.7.il mancato esperimento dell’azione revocatoria non incide sul reato, la cui sussistenza dipende dalla condotta del debitore erariale non dalle iniziative dell’Amministrazione Finanziaria.
7.Diversamente da quanto eccepito dall’imputata la Corte di appello non ha negato affatto l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche sul mero rilievo della fraudolenza della condotta. I Giudici distrettuali hanno invece affermato che, al di là dell’incensuratezza, non si ravvisano elementi positivi di giudizio i quali non possono essere individuati nella asserita sommarietà e imprecisione dell’accertamento fiscale che non attenua, a loro giudizio, la gravità della condotta.
7.1.E’ necessario ribadire che la applicazione delle circostanze attenuanti generiche non costituisce oggetto di un diritto con il cui mancato riconoscimento il giudice di merito si deve misurare poiché, non diversamente da quelle “tipizzate”, la loro attitudine ad attenuare la pena si deve fondare su fatti concreti. Ne consegue che la loro mancata applicazione può essere legittimamente giustificata con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la modifica dell’art. 62 bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente non è più sufficiente lo stato di incensuratezza dell’imputato (Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, Papini, Rv. 260610; Sez. 1, n. 3529 del 22/09/2013, Stelitano, Rv. 195339).
7.2.Nel resto le valutazioni della Corte di appello sono insindacabili e si fondano su argomenti non manifestamente irrazionali. 8.Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa della ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di € 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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