Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 38884 depositata il 20 settembre 2019
reati fallimentari – bancarotta
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 13 ottobre 2017 la Corte di Appello di Lecce, in parziale riforma delle pronunce del Tribunale della medesima città, rispettivamente emesse in data 17 luglio 2013 e in data 27 giugno 2014, ha rideterminato:
– la pena inflitta a DL in anni cinque di reclusione, unificati i reati al medesimo ascritti con le due sentenze sotto il vincolo della continuazione e con le già riconosciute attenuanti generiche in favore di quest’ultimo valutate equivalenti anche all’aggravante ex articolo 219 legge fall;
la pena inflitta a CMA e DA in anni tre di reclusione, ciascuna, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti loro rispettivamente contestate.
Ed invero, confluiti davanti alla medesima Corte di Appello i due procedimenti in cui erano state pronuncia le due sentenze oggetto di appello, veniva disposta la riunione degli stessi in quanto pendenti entrambi, sempre per reati di bancarotta fraudolenta, nei confronti del medesimo DL ed il secondo anche nei confronti di DA e di CMA. In particolare, nell’ambito del procedimento n. 442/2014 RG appello il DL è imputato, in concorso con MM, socio accomandatario della CM SAS, del reato di bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale, quale socio accomandatario di fatto della suddetta società, dichiarato fallito in estensione del fallimento della CM SAS. Nell’ambito del procedimento n. 386/15 RG appello il DL è imputato, in concorso con CMA, entrambi quali amministratori di fatto, e DA, quest’ultima in qualità di titolare della ditta individuale DE.PA di DA, di bancarotta fraudolenta patrimoniale.
2.Propongono ricorso per cassazione avverso la suindicata sentenza, tramite i rispettivi difensori, DL, DA e CMA.
3. Nell’interesse di DL vengono formulati cinque motivi.
3.1. Col primo motivo si deduce violazione della legge penale e vizio argomentativo in relazione all’articolo 238 bis codice di rito per essersi attribuito valore probatorio alle sentenze civili irrevocabili di fallimento, ivi compresa quella in estensione di DL, evidenziandosi che, in realtà, l’articolo citato riguarderebbe esclusivamente le sentenze pronunciate in altro procedimento penale e non ricomprende anche quelle pronunciate in un procedimento civile; di qui la conseguente esclusione anche delle sentenze dichiarative di fallimento. Si deduce che in conseguenza dell’illegittimità dell’acquisizione di tali sentenze civili la motivazione sarebbe carente, contraddittoria ed illogica nella parte in cui sono utilizzate le emergenze di tali pronunce.
3.2. Col secondo motivo si deduce inosservanza o erronea applicazione della legge penale e vizio argomentativo in ordine alla configurata veste di amministratore di fatto del DL, e ciò anche a causa della errata, ravvisata, utilizzabilità della pronuncia civile di fallimento. In particolare, si contesta che il ruolo assunto dal DL possa essere qualificato in termini di amministrazione di fatto, evidenziandosi, che, come chiarito da questa Corte, non possono ritenersi indicativi di un’amministrazione di fatto comportamenti pure in ipotesi rilevanti ma tenuti per un ristretto arco temporale ovvero risoltisi in un mero contributo a condotte attribuibili ad altro amministratore; si lamenta altresì che anche con riferimento all’amministratore di fatto, così come avviene per l’amministratore di diritto, andrebbe verificata l’effettiva riferibilità dell’ obbligo di tenuta delle scritture contabili. Si lamenta, inoltre, che la motivazione della Corte di appello si sarebbe risolta in una sorta di copia-incolla della sentenza di primo grado, in quanto tale, privo di autonoma valutazione tanto del compendio probatorio quanto delle censure difensive.
3.3. Col terzo motivo si deduce erronea applicazione della legge penale e vizi argomentativi in relazione agli articoli 40 cod. pen., 216 e 223 legge fallimentare in punto di rapporto di causalità tra le condotte contestate e i due fallimenti. Si lamenta, in particolare, la mancata dimostrazione del nesso causale tra i fatti di bancarotta fraudolenta, segnatamente tra le condotte distrattive contestate al DL e l’insolvenza delle aziende, e che non si sia, neppure, tenuto conto degli accadimenti esterni, determinanti ai fini delle vicende fallimentari ( così, ad esempio, non sarebbe stato considerato che il vertiginoso crollo finanziario della De.Pa era, in realtà, sorto a seguito di un errore di valutazione da parte del liquidatore nella precedente procedura di concordato preventivo ). In definitiva si pongono dubbi di compatibilità costituzionale della tesi che qualifica la sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità, nonostante i moniti che la Corte Costituzionale ha sempre lanciato circa la distonia delle condizioni obiettive di punibilità con il principio di personalità della pena.
3.4.Con il quarto motivo si deduce violazione della legge penale e vizio argomentativo in relazione agli articoli 43 cod. pen., 216, 217, 223 legge fallimentare in punto di individuazione dell’elemento soggettivo delle fattispecie di bancarotta contestate in entrambi i procedimenti e di mancata riqualificazione dei fatti in bancarotta semplice, lamentandosi anche qui il mero rinvio operato dalla Corte a quanto illustrato nella sentenza di primo grado e senza neppure considerare la possibilità di qualificazione delle condotte in bancarotta semplice, così come sollecitato dalla difesa.
3.5. Col quinto motivo si deduce vizio argomentativo in relazione all’articolo 81 cod. pen., lamentandosi la mancanza di motivazione sulla quantificazione dell’ aumento di pena operato per la continuazione, peraltro quantificato in anni due di reclusione. Indi si insta per l’annullamento della sentenza impugnata con ogni conseguenziale determinazione.
4. Nell’interesse di DA si articolano due motivi.
4.1. Col primo motivo, dopo essersi premesso che lo stato di insolvenza è elemento costitutivo della fattispecie di bancarotta fraudolenta e deve, pertanto, per un verso porsi in rapporto causale con la condotta dell’agente, e per altro, essere qualificato dall’elemento soggettivo del dolo, si lamenta che, invece, nel caso di specie manchi l’esatta individuazione delle cause del dissesto dell’impresa e si sottolinea che l’amministratore di diritto, allorquando la sua funzione si è ridotta alla sola spendita del nome, non può rispondere della bancarotta per occultamento, distrazione, distruzione, dissimulazione senza che ne sia stato accertato il dolo specifico; in particolare, occorre verificare se egli abbia percepito i segnali di rischio indicativi della possibilità della commissione di reati puniti a titolo di dolo e scientemente non si sia attivato per impedirli, assumendo tutti i poteri connessi alla carica rivestita.
4.2. Col secondo motivo si deduce violazione di legge in relazione agli articoli 133 e 62 bis cod. pen. in punto di determinazione della pena, che andava maggiormente rapportata al contributo e alla concreta partecipazione della ricorrente, alla quale, quantomeno, le attenuanti generiche avrebbero dovuto esserle riconosciute con giudizio di prevalenza sulla contestata aggravante. Quindi si insta per l’annullamento con o senza rinvio della impugnata sentenza
5. Nell’interesse di CMA si articolano due motivi .
5.1.Col primo motivo si deduce violazione di legge in relazione agli articoli 223, 216 e 219 legge fall.. In particolare, si lamenta che non possa ritenersi dimostrato il ruolo di amministratore di fatto di CMA, non essendosi neppure accertato se la stessa presso gli istituti di credito avesse agito su espressa delega della DL. Difetterebbe, insomma, la prova di atti di intromissione della CMA nella gestione della ditta individuale della propria figlia, indicativi di un’ingerenza stabile protrattasi per un apprezzabile lasso di tempo; qualifica non desumibile della mera esistenza di una delega ad agire sui conti correnti.
5.2.Col secondo motivo si deduce violazione degli articoli 133 e 62 bis cod. pen., lamentandosi il mancato adeguamento della sanzione penale alla condotta e all’elemento soggettivo del reato, e ciò in considerazione della modestia del ruolo e della entità della concreta partecipazione; quantomeno, le attenuanti avrebbero dovuto essere ritenute prevalenti rispetto all’aggravante. Indi, si insta per l’annullamento con o senza rinvio della sentenza impugnata.
6. Con memoria depositata il 23.3.2019 il difensore di DL segnala l’ulteriore vizio della sentenza impugnata in punto di quantificazione delle pene accessorie, non rilevato in precedenza per essere venuto in rilievo successivamente al ricorso, a seguito delle note pronunce della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite di questa Corte.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Le doglianze articolate nell’interesse di ciascun ricorrente sono manifestamente infondate ( alcune del tutto nuove ); esse verranno trattate congiuntamente in quanto involgenti temi comuni, salvo ad addentrarsi nelle rispettive specificità, ove necessario. Residua, tuttavia, il rilievo dell’illegalità delle pene accessorie applicate ex art. 216 u.c. l. fall., determinate nella misura massima di anni dieci.
1. Le principali questioni sollevate coi ricorsi afferiscono a: la acquisibilità della sentenza di fallimento ai sensi dell’art. 238 bis cod. proc. pen.; la natura della sentenza di fallimento; il rapporto di causalità tra la condotta – in particolare la distrattiva – e il fallimento; e l’elemento soggettivo. Preliminare è, quindi, la rassegna dei principi che regolano i temi inerenti alle questioni sollevate.
1.1.Innanzitutto, va chiarito che la sentenza dichiarativa di fallimento non è acquisita agli atti del procedimento penale ai sensi dell’art. 238 bis cod. proc. pen. che riguarda le sentenze irrevocabili; essa, invero, costituisce presupposto per l’esercizio dell’azione penale anche prima del suo passaggio in giudicato, ai sensi dell’art. 238 L. fall. ( Sez. 5, Sentenza n. 15061 del 02/03/2011, Rv. 250091 ). Inconferente è, quindi, il richiamo operato dal ricorrente all’articolo testè citato. Essa, secondo questo Collegio, confluisce, invece, nel fascicolo del dibattimento, innanzitutto, ai sensi dell’art. 431 cod. proc. pen.. Ed invero, di là della sua qualificazione giuridica ( ovvero, sia che la si ritenga condizione obiettiva di punibilità, così, ex multis, per Sez. 5, Sentenza n. 45288 del 11/05/2017, Rv. 271114, Sez. 5, n. 13910 del 08/02/2017, Santoro, Rv. 269389, dando seguito alla posizione incidentalmente assunta dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 22474 del 31/03/2016 – dep. 27/05/2016, Passarelli Rv. 266804, sia che la si voglia considerare elemento costitutivo della fattispecie, ancorché improprio, – trattandosi di pronuncia giurisdizionale, che serve a connotare di lesività i comportamenti tipizzati dalle norme di riferimento, così per Sez. 5, Sentenza n. 40477 del 18/05/2018, Rv. 273800; Sez. 5, n. 46182 del 12/10/2004 – dep. 29/11/2004, Rossi ed altro, Rv. 231167; Sez. 5, sentenza n. 7814 del 22/03/1999, Di Maio ed altri, Rv.213867), essa consiste in una pronuncia giurisdizionale, risolventesi in un fatto giudizialmente accertato, – ii fallimento dichiarato sulla base dell’accertamento dello stato d’insolvenza e degli altri requisiti prescritti dalla legge -, che, ai fini penali, più specificamente ai fini dell’integrazione dei reati di bancarotta, ( ma sul punto si tornerà più approfonditamente in seguito ), rileva, in ogni caso, come dato di fatto di tale intervenuto riconoscimento, a prescindere dalla sua irrevocabilità e dal suo contenuto, non sindacabile da parte del giudice penale (Cass. sez. Un., 28.2.2008, Niccoli, CED Cass. 239399), essendo le stesse disposizioni normative ad attribuirle tale specifica rilevanza; essa rimane un dato che nella sua storicità non è ripetibile e non è suscettibile di diversa valutazione in sede penale in quanto deputata ad attestare unicamente l’intervenuto fallimento in un determinato momento storico-giurisdizionale, ed, in quanto tale, può e deve certamente confluire nel fascicolo del dibattimento, di là della sua irrevocabilità, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 216 e sgg. e 238 L.fall., (essendo, peraltro, la sentenza di fallimento posta dall’art. 238 co. 1 l.fall. in relazione alla stessa possibilità di esercizio, ordinario, dell’azione penale ). Ai fini dell’acquisibilità della sentenza di fallimento – ritiene questo Collegio – ciò che maggiormente rileva sono la natura giurisdizione e la funzione ‘sostanziale’ che tale pronuncia assume con riferimento alla valutazione del fatto-reato sub iudice, che consentono certamente la sua acquisizione al fascicolo del dibattimento ai sensi dell’art. 431 cod. proc. pen. o, quanto meno, ai sensi dell’art. 234 codice di rito.
1.2.Passando, quindi, al versante della ricostruzione della vicenda criminosa, qui censurata sotto il profilo del rapporto di causalità tra la condotta – in particolare la distrattiva- e il fallimento, e dell’elemento soggettivo, va innanzitutto osservato che la sentenza di fallimento e lo stato di insolvenza non sono collegati eziologicamente con la condotta dell’agente e rimangono estranei al coefficiente soggettivo che anima quest’ultimo, il quale, al più, la lambisce, ma solo indirettamente, come possibile sviluppo di un determinato contesto o di un atto/comportamento, che, nel caso della bancarotta patrimoniale distrattiva, è sufficiente che sia idoneo a porre in pericolo, concreto, la garanzia patrimoniale; e ciò perché trattandosi di pronuncia giurisdizionale essa non può che porsi al di fuori della sfera di dominio dell’agente e, pur partecipando alla formazione della fattispecie, è evento successivo e comunque esterno alla condotta medesima. Ciò che rileva, quindi, non è se la condotta distrattiva abbia determinato o meno lo stato di insolvenza o il dissego, ed il fallimento, e se questo era nello specifico certamente prevedibile, trattandosi, come detto, di reato di pericolo, e non di evento, ed essendo peculiare la natura della dichiarazione di fallimento; e ciò che preme evidenziare, tenuto anche conto della censura specifica mossa al riguardo, è che, ciò nondimeno, tale reato non difetta né di offensività concreta né di soggettività, dovendo, comunque, ragionarsi in termini di pericolo concreto e di prevedibilità, nel senso che oggetto di consapevolezza dev’essere, in ogni caso, in relazione alla concreta situazione della società, l’incidenza dell’atto distrattivo sulle prospettive di soddisfacimento concorsuale dei creditori; con la precisazione che la concretezza del pericolo assume una sua dimensione effettiva – definitiva – soltanto nel momento in cui interviene la dichiarazione di fallimento (Sez. 5, n. 47616 del 17/07/2014, Simone, Rv. 261683). La sua valutazione, in termini di prognosi postuma, è, dunque, funzionale, da un lato, a verificare la concreta messa in pericolo dell’integrità del patrimonio dell’impresa e la sua persistenza all’atto di apertura della procedura fallimentare, e, dall’altro, l’esistenza, in capo all’agente, della consapevolezza e volontà della condotta in concreto pericolosa posta in essere, che per ipotesi potrebbe anche prescindere dall’essersi già manifestato lo stato d’insolvenza al momento dell’azione (Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017 – dep. 01/08/2017, Sgaramella e altro, Rv. 27076301).Ed invero, in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, l’accertamento dell’elemento oggettivo della concreta pericolosità del fatto distrattivo e del dolo generico deve valorizzare la ricerca di “indici di fraudolenza”, rinvenibili, ad esempio, nella disamina della condotta alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria dell’azienda, nel contesto in cui l’impresa ha operato, avuto riguardo a cointeressenze dell’amministratore rispetto ad altre imprese coinvolte, nella irriducibile estraneità del fatto generatore dello squilibrio tra attività e passività rispetto a canoni di ragionevolezza imprenditoriale, necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell’integrità del patrimonio dell’impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei creditori, e, dall’altro, all’accertamento in capo all’agente della consapevolezza e volontà della condotta in concreto pericolosa. (Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017 – dep. 01/08/2017, Sgaramella e altro, Rv. 27076301). La ricostruzione sin qui operata è, peraltro, in linea con quanto affermato nella sentenza, Sez. U n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, Rv. 266804, secondo cui “i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualsiasi momento essi siano stati commessi e quindi anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza. Non si richiede alcun nesso (causale o psichico) tra la condotta dell’autore e il dissesto dell’impresa, essendo sufficiente che l’agente abbia cagionato il depauperamento dell’impresa destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività ” (tra le più recenti: Sez. 5, n. 47616 del 17/07/2014, Simone, Rv 261683). Alla luce delle suesposte argomentazioni rimangono, quindi, del tutto infondati i motivi dei ricorsi che si appuntano sulla mancata dimostrazione del rapporto di causalità tra la condotta contestata e il fallimento.
2.Ciò posto, viene in rilievo, innanzitutto, la figura di DL, da ritenersi esaustivamente tratteggiata nella sentenza impugnata, sia sotto il profilo dei poteri in concreto esercitati, che in relazione all’atteggiamento specifico avuto in relazione ai singoli atti distrattivi, di cui alla bancarotta contestata nel procedimento n. 386/15 ( quanto ai fatti di bancarotta patrimoniale e documentale contestati nell’altro procedimento recante il n. 442/14, essi sono in realtà ascritti al DL nella sua qualità di socio accomandatario dichiarato fallito in estensione, e non come amministratore di fatto tout court, di talchè per tali bancarotte non si pone il problema dell’amministrazione di fatto, risultando essa coperta dalla intervenuta declaratoria di fallimento in estensione, che, come detto non è sindacabile ). Trattasi, in realtà, di censure pedissequamente reiterative di quella già proposte con l’impugnazione avverso la sentenza di primo grado, essendo state, esse, già dedotte con i motivi di appello ed avendo ricevuto congrua ed esaustiva risposta da parte del giudice di secondo grado ( nonostante denotassero, a tratti una certa genericità, come evidenziato dalla Corte territoriale ). La Corte di Appello di Lecce ha, infatti, valorizzato, per giungere ad attribuire al DL la qualifica di amministratore di fatto, le dichiarazioni dei testi, rinviando, in particolare, alle dichiarazioni degli stessi dipendenti dell’impresa individuale fallita – la DE.PA di DA, figlia del DL – ed evidenziando come essi abbiano riconosciuto un ruolo di preminenza assoluta al predetto nella gestione della ditta ( era lui ad impartire disposizioni ai dipendenti, a decidere le assunzioni, a gestire direttamente i rapporti coi fornitori ed i clienti, nonché con gli istituti di credito, pur in assenza di una formale procura, anche rendendosi personale beneficiario di assegni tratti sui conti correnti riferibili alla ditta in questione per importi di svariate centinaia di lire, tutti compiti che non si attagliano- sottolinea la Corte territoriale- al ruolo di preposto al settore commerciale apparentemente rivestito ). Prive di pregio risultano, quindi, le doglianze del ricorrente, che appaiono volte ad ottenere da questa Corte una rivalutazione delle emergenze processuali, dal momento che la Corte territoriale risulta aver adeguatamente motivato il proprio convincimento in ordine al ruolo assunto dal ricorrente nell’ambito della De.Pa.. Sembra, quindi, opportuno ribadire che in tema di reati fallimentari, la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive – in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare – il quale, peraltro, costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Sez. 5, Sentenza n. 32398 del 16/03/2018, Rv. 273821; Sez. 5, Sentenza n. 8479 del 28/11/2016, Rv. 269101; Sez. 5, Sentenza n. 35249 del 03/04/2013, Rv. 255767).
2.1.Quanto alla ulteriore questione, relativa alla mancanza di prova in ordine alla responsabilità dell’imputato per il reato di bancarotta documentale, deve rilevarsi che essa risulta nuova e pertanto non esaminabile in questa sede ai sensi dell’art. 606 co. 3 cod. proc. pen.; la censura in esame non risulta, infatti, essere stata specificamente formulata con i motivi di appello, come rilevato anche dalla stessa Corte territoriale, la quale ha precisato che sia i singoli episodi di bancarotta che quanto accertato con riferimento alla tenuta delle scritture contabili dal curatore fallimentare non sono stati oggetto di specifica, significativa, censura, di talchè in ordine ad essi ha rinviato alla sentenza di primo grado, indicando le pagine in cui tali aspetti sono trattati. Vale solo la pena di rammentare che l’amministratore “di fatto” della società fallita – e ciò vale anche per il soggetto che di fatto esercita l’impresa – è da ritenere gravato dell’intera gamma dei doveri cui è soggetto l’amministratore “di diritto”, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili. (Fattispecie in tema di bancarotta fraudolenta documentale, Sez. 5, n. 39593 del 20/05/2011 – dep. 03/11/2011, Assello, Rv. 25084401) . Qualifica/responsabilità che nel caso di specie, non è peraltro, mettibile, a monte, in discussione, essendo contestata la bancarotta documentale unicamente in relazione alla C.M. sas, rispetto alla quale è intervenuta dichiarazione di fallimento in estensione del DL, quale socio- accomandatario-amministratore di fatto, circostanza che non consente di procedere ad accertamenti al riguardo in sede penale e che impone di ritenere il DA certamente gravato di tutti i doveri ed obblighi collegati alla sua riconosciuta veste di amministratore.
2.2.Quanto, poi, alle deduzioni svolte al quarto motivo – con cui si deduce violazione della legge penale e vizio argomentativo in relazione agli articoli 43 cod. pen., 216, 217, 223 legge fallimentare in punto di individuazione dell’elemento soggettivo delle fattispecie di bancarotta contestate in entrambi i procedimenti e di mancata riqualificazione dei fatti in bancarotta semplice – si osserva che anche in tal caso si tratta, in realtà, di questioni nuove, oltre che generiche, essendo state, in appello, poste: quella afferente l’elemento soggettivo solo con specifico riferimento al danno alle ragioni dei creditori, e quella relativa alla qualificazione in termini di bancarotta semplice solo con riferimento al coimputato MM. Nondimeno, va osservato che la Corte territoriale ha affrontato i rilievi mossi con motivazione non solo esente da evidenti incongruenze e da interne contraddizioni ma anche ampiamente esaustiva rispetto ai principi regolanti la materia. Ha osservato, innanzitutto – coerentemente ai principi sopra riportati- che il danno ai creditori non costituisce elemento costitutivo della fattispecie della bancarotta patrimoniale, né è necessario alcun nesso causale tra la condotta e il fallimento o tra la condotta e il pregiudizio ai creditori; nonché, con riferimento all’elemento soggettivo, che non è richiesto il dolo specifico, essendo sufficiente la consapevolezza di porre in essere un atto concretamente lesivo della garanzia patrimoniale ( nel caso di specie dimostrata dal fatto che il DA, dominus di entrambe le imprese, ha effettuato pagamenti a terzi per operazioni inesistenti ed in favore della ditta individuale De.Pa., intestata a sua figlia DA, e gestita dal predetto unitamente a sua moglie CMA, in assenza di giustificazioni contabili e imprenditoriali; ed ha allo stesso modo operato con riferimento alle somme di danaro della De.Pa. – circostanze di fatto, peraltro, tutte, non oggetto di contestazione specifica già in appello ); e che, quanto alla documentale, il pregiudizio dei creditori non entra, comunque, in gioco, versandosi nell’ipotesi della “tenuta delle scritture contabili in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari”, per la quale è sufficiente il dolo generico ovvero la mera consapevolezza che una siffatta tenuta delle scritture è suscettibile di produrre quel risultato.
2.3. Quanto alla dedotta mancata motivazione dell’aumento di pena, operato per la continuazione ai sensi dell’art. 81 cod. pen. – quantificato in anni due di reclusione dalla Corte in sede di rideterminazione della pena che non era stata correttamente determinata dal primo giudice per essere sfuggita al giudizio di equivalenza delle circostanze attenuanti generiche l’aggravante di cui all’art. 219 l.f.- si osserva che, di là dell’entità di tale aumento, la pena finale è stata, comunque, ridotta rispetto a quella inflitta con la sentenza di primo grado che aveva condannato il DL ad anni sei e mesi otto di reclusione. A ciò va aggiunto che in tema di determinazione della pena nel reato continuato, pur sussistendo in linea di principio l’obbligo di dar conto delle ragioni della quantificazione dell’aumento di pena per il reato satellite, tuttavia, qualora l’entità di detto aumento non si ponga al di sopra della media della pena irrogabile a titolo di continuazione – come nel caso di specie- non sussiste un obbligo di specifica motivazione, essendo in tal caso sufficiente il richiamo alla adeguatezza e alla congruità dell’aumento. (Sez. 4, n. 48546 del 10/07/2018 – dep. 24/10/2018, GENTILE LUCIO DARIO, Rv. 27436101).
3. Passando, quindi, ai motivi articolati nell’interesse di DA – fermi restando i principi sopra enunciati e le conclusioni raggiunte valevoli ovviamente anche in relazione alla posizione della DL, che rendono superflua ogni ulteriore considerazione in punto di infondatezza della costruzione del reato di bancarotta come reato di evento e della necessità del nesso causale – residua da valutare l’aspetto dedotto, solo, con riferimento alla predetta ovvero quello afferente la sua posizione di amministratrice di diritto – imprenditore formale -. In realtà, la censura è nuova, incentrandosi l’appello, piuttosto, sulla contestazione della prova di concreti atti di intromissione del DL e della CMA nella gestione della ditta della figlia, DA, che sul ruolo formale che la DL ha rivestito ( come emerge con chiarezza dalla sentenza impugnata ).
3.1. Comunque, col motivo qui articolato, pur muovendosi dal profilo della sola spendita del nome, si sposta il fulcro della questione sulla mancanza del dolo specifico, laddove la Corte territoriale aveva, in realtà, già spiegato che ai fini della bancarotta distrattiva – l’unica ipotesi ascritta alla DL – è sufficiente il dolo generico ( sufficiente anche nel caso dell’amministratore formale a meno che non si tratti di mera testa di legno, ipotesi nel caso di specie difficilmente sostenibile alla stregua dalla tipologia stessa dei rapporti esistenti tra le parti ). Senza voler entrare nel merito della questione – essendo essa nuova implicherebbe, a maggior ragione, valutazione in fatto non consentita in questa sede – e per soli fini di completezza, si annota che la Corte ha, peraltro, altresì precisato, pur a fronte dell’assenza di specifica censura al riguardo, che, in ogni caso, la De.Pa., con atto a firma della DL, stipulava contratto di cessione dell’opificio della De.Pa nel cui possesso veniva immessa la C.M. s.a.s. ovvero l’altra società, fallita, riconducibile al padre della predetta ( e coevi a tale fase sono gli stessi atti distrattivi ascritti alla medesima, circostanza che non può che gettare ulteriore luce anche sull’elemento soggettivo ) .
3.2. Non meno privo di pregio il secondo motivo, in punto di determinazione della pena e del mancato bilanciamento delle circostanze in termini di prevalenza, avendo la Corte, nel rideterminare – riducendola – la pena inflitta in primo grado, già tenuto conto del minore contributo della ricorrente, tant’è che la sanzione inflitta alla medesima è stata più contenuta rispetto a quella del genitore, DL, e di ciò la motivazione dà, peraltro, specifico conto.
4. Anche i motivi articolati nell’interesse di CMA devono essere disattesi, per manifesta infondatezza.
4.1.Ed invero, quanto alla posizione di amministratore di fatto attribuita alla CMA, la Corte territoriale ha specificamente osservato che la predetta, seppure con peso minore rispetto al DL, ha collaborato alla conduzione dell’impresa, avendo ella non solo operato, in maniera costante e nel corso di più anni, direttamente sui conti correnti bancari riconducibili alla De.Pa, ma si è anche resa personale beneficiaria di un bonifico e di due assegni bancari, ed ha, altresì, effettuato prelevamenti e tratto da essi assegni per parecchie decine di milioni di lire e girato ai fornitori effetti cambiari, nonchè posto personalmente in essere l’attività distrattiva correlata al prelievo di lire 5.500.000 effettuata il 1.1.1998 ovvero in piena epoca di decozione dell’azienda. A fronte di tale specifica ricostruzione, sono destinati a rimanere generici ed infondati, anche rispetto ai principi sopra enunciati, i rilievi mossi dalla ricorrente ( sopra riportati nel ritenuto in fatto al punto 5.1. ).
4.2. Quanto al secondo motivo, speculare a quello articolato nell’interesse della DL, non possono che valere le medesime considerazioni svolte sub 3.2., essendo sovrapponibili non solo le censure ma anche le posizioni delle due imputate, per come valutate e descritte dalla Corte territoriale.
5. Rimane il profilo della motivazione per relationem, qui affrontato per ultimo perché comune a tutte le posizioni, e risultando esso, all’esito della disamina svolta, ancor più palesemente infondato. Ed invero, alla luce di quanto detto sin qui si deve concludere che la motivazione della pronuncia impugnata si sottrae alle censure che le sono state mosse perché essa ha rappresentato, in maniera congrua e logica, la ricorrenza di una piattaforma probatoria idonea a sostenere il peso dell’affermazione di responsabilità degli imputati per i fatti ai medesimi rispettivamente contestati: ragioni che gli argomenti opposti dai ricorrenti non sono riusciti a disarticolare nella loro tenuta logica e giuridica, avendo anzi essi, con la riproposizione degli stessi, dimostrato di non essersi confrontati colle argomentazioni svolte dai giudici di merito, che hanno, in realtà, già fornito le risposte sollecitate coi motivi di appello; e ciò, dovendosi, anche tener conto che, trattandosi di doppia conforme, le due motivazioni, della sentenza di primo e secondo grado, si integrano a vicenda, con la conseguenza che nessun vizio argomentativo è ravvisabile neppure sotto il profilo della lamentata motivazione per relazione.
Nel caso in esame la Corte di Appello si è attenuta ai principi di diritto sopra indicati e ha assolto all’obbligo di motivazione, in quanto non si è limitata al mero richiamo delle argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato, ma ha specificamente valutato le doglianze contenute nelle richieste di appello ( si vedano anche Sez. 6, n. 9752 del 29/01/2014, Ferrante, Rv. 259111; Sez. 1, n. 43464 del 01/10/2004, Perazzolo, Rv. 231022).
6. Quanto alla questione della illegittimità delle pene accessorie con la memoria, applicate ex lege per la durata di anni dieci – in ogni caso affrontabile anche di ufficio trattandosi di profilo incidente sulla legalità della pena, ed applicandosi il principio di legalità della pena anche con riferimento alle pene accessorie» (Sez. U. n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., in motivazione) -, essa è fondata, perchè, com’è noto, la Corte Costituzionale ha, con la sentenza n. 222 del 2018, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, u. c. l. fall. nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni». La sostituzione della cornice edittale, operata dalla sentenza n. 222 del 2018, ha determinato l’illegalità delle pene accessorie irrogate in base al criterio dichiarato illegittimo, indipendentemente dal fatto che quelle concretamente applicate possano rientrare o meno nel nuovo parametro, posto che il procedimento di commisurazione si è basato su una norma dichiarata incostituzionale, di talchè s’impone l’annullamento della sentenza impugnata in parte qua. Sorge allora la necessità di indicare al giudice del rinvio il criterio cui attenersi nella rideterminazione della durata della pena accessoria non più fissa (dieci anni), ma indicata solo nel massimo (“fino a dieci anni”). Soccorre al riguardo la sentenza di questa Corte a Sezioni Unite (intervenuta il 28.2.2019), a cui è stata rimessa la questione in ordine all’individuazione del criterio di commisurazione di tali pene accessorie, ( se quello di cui all’art. 37 cod. pen. secondo cui la pena accessoria va commisurata alla pena principale o se, in applicazione dei principi di proporzionalità e di individualizzazione del trattamento sanzionatori, quello di cui art. 133 cod. pen. ), che si è espressa condividendo il criterio improntato alla discrezionalità valutativa del giudice che consente una maggiore personalizzazione del trattamento sanzionatorio. Ne discende l’annullamento con rinvio della sentenza nella parte afferente le pene accessorie I fine di consentire al giudice di merito di stabile la durata delle stesse, trattandosi di giudizio, che implicando valutazioni discrezionali, è sottratto al giudice di legittimità ( Conf. Sez. 5, n.6115/2019 del 14/12/2018 (dep.07/02/2019); Sez. 5, n.4780/2019 del 20/12/2018 (dep.30/01/2019).(Sez. 5, n. 5882 del 29/01/2019 – dep. 06/02/2019, BAU’ FRANCO, Rv. 27441301 ).
7. Per le ragioni anzidette la sentenza impugnata dev’essere, quindi, annullata limitatamente al punto delle pene accessorie ex art. 216 L. Fall. con rinvio per nuovo esame su detto punto ad altra sezione della Corte di Appello di Lecce; nel resto i ricorsi vanno, invece, dichiarati inammissibili.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al punto delle pene accessorie ex art. 216 L. Fall. con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di Appello di Lecce. Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi.
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