CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 39350 depositata il 3 novembre 2021
Reati fiscali – Occultamento e distruzione dei documenti contabili – Applicazione della confisca per equivalente – Esclusione per i reati commessi fino al 20 ottobre 2015
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza 23.02.2021, la Corte d’Appello di Salerno, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Salerno in composizione monocratica, assolveva il C. “perché il fatto non costituisce reato” per i fatti di cui al capo 1) dell’imputazione e rideterminava lo stesso alla pena di mesi 8 di reclusione per i fatti di cui al capo 2) della rubrica ovvero per il reato di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia del ricorrente, iscritto all’Albo speciale previsto dall’art. 613, c.p.p., articolando due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p.
2.1. Deduce, con il primo motivo, violazione di legge in ordine agli artt. 192 c.p.p. e 10 Dlgs. n. 74 del 2000 in punto di sussistenza del dolo specifico e correlato vizio di motivazione.
In sintesi, lamenta che la Corte d’Appello ha erroneamente ritenuto provata la responsabilità del C. sulla base del dolo specifico richiesto dal delitto contestato all’imputato. In particolare, sostiene che, in assenza di altri elementi, la Corte territoriale ha erroneamente desunto che lo stesso, in qualità di amministratore dal punto di vista formale, abbia occultato ovvero distrutto le scritture contabili. Sul punto, ad avviso della difesa, i giudici sono incorsi in un travisamento della prova in merito alla “natura strumentale e pretestuosa” delle denunce sporte dal ricorrente ed in maniera apodittica ed illogica hanno dato per scontato che le scritture contabili della società fossero sotto il controllo e nella materiale disponibilità dell’imputato e non di altro socio o di terzi. Pertanto, prosegue il ricorso, le argomentazioni sviluppate dalla Corte d’appello non sono sufficienti ad affermare la responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio quanto alla sussistenza del dolo specifico richiesto dal delitto contesto.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, violazione di legge e correlato vizio di motivazione in ordine all’art. 12 bis D.lgs. 74 del 2000 e all’art. 1 comma 143 L. n. 244 del 2017 con riferimento all’applicazione della confisca per equivalente.
In sintesi, lamenta che la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto applicabile la confisca per equivalente nonostante i fatti di cui al n. 2 della rubrica siano stati accertati in Salerno e commessi a Pontecagnano in data 27.12.2013 e quindi in epoca antecedente rispetto al 20.10.2015, data di entrata in vigore dell’art. 12 bis D.lgs. 74 del 2000. Sul punto, richiamando la sentenza della Sez. III n. 15745 del 14.12.2018, il ricorso evidenzia che per il fatto di occultamento e distruzione dei documenti contabili commessi fino al 20 ottobre 2015 non è applicabile né la confisca per equivalente né quella ai sensi della I. n. 244 del 2017 poiché non contempla il delitto di cui sopra. Inoltre, la confisca ha natura eminentemente sanzionatoria e non essendo estensibile ad essa la regola dettata per le misure di sicurezza, non si applica ai reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge sopracitata.
3. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta del 12.07.2021 — antecedente all’entrata in vigore dell’art. 7, comma 2, d.l. n. 105 del 23 luglio 2021, entrato in vigore in pari data — ha ritenuto che la motivazione della sentenza impugnata fosse immune da profili di illogicità, concludendo per il rigetto del ricorso.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato solamente per quanto riguarda il secondo motivo.
2. Il primo motivo di ricorso è invece manifestamente infondato, generico e ripetitivo dei motivi di appello, senza critiche specifiche alle motivazioni della sentenza impugnata.
Il motivo, articolato in fatto, valutato nel complesso, richiede alla Corte di Cassazione una rivalutazione del fatto, non consentita in sede di legittimità. Il ricorrente, infatti, si limita sostanzialmente a proporre una lettura alternativa del materiale probatorio posto a fondamento della affermazione di responsabilità penale sotto il profilo psicologico, dilungandosi in considerazioni in punto di fatto, che non possono trovare ingresso nel giudizio di legittimità, non essendo demandato alla Corte di cassazione un riesame critico delle risultanze istruttorie.
La giurisprudenza di questa Corte Suprema di Cassazione ha infatti evidenziato come in tema di giudizio di Cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito” (Sez. VI, n. 47204 del 07/10/2015). In tema di motivi di ricorso per Cassazione, infatti, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento” (Sez. VI, n. 13809 del 17/03/2015).
2.1. Nel caso in esame, contrariamente a quanto assume il ricorrente, la Corte territoriale è pervenuta all’affermazione della responsabilità penale in ordine al delitto di cui all’art. 10 con motivazione logica, aderente al dato probatorio e giuridicamente corretta alla luce dell’interpretazione della norma incriminatrice di cui sopra.
Ed invero, la decisione della Corte di appello circa il fatto contestato di cui al capo 2) della rubrica, ovvero l’art. 10 D.lgs. 74 del 2000 (e la sentenza di primo grado, in doppia conforme) contiene adeguata motivazione, senza contraddizioni e senza manifeste illogicità, sulla responsabilità del ricorrente per il reato contestatogli, rilevando la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato e la sussistenza del dolo, in quanto viene evidenziata l’oggettiva esistenza delle fatture di acquisto e di vendita trasmesse dai soggetti interpellati, circostanza che vale a dimostrare come l’imputato, in origine, fosse necessariamente entrato in possesso di tali documenti contabili, redatti in duplice copia. La Corte, sul punto, riprende le argomentazioni svolte dal giudice di prime cure secondo il quale, sulla base di quanto è risultato dal processo verbale, si constatava la mancata consegna, da parte dell’imputato, di qualsiasi documento contabile relativo alla società sottoposta a verifica. Si sottolinea che tali documenti erano stati certamente redatti in origine atteso il rinvenimento delle fatture di acquisto e di vendita presso i fornitori e clienti.
Non particolarmente rilevante è stata poi ritenuta la circostanza che i militari della Guardia di Finanza fossero riusciti a dimostrare, almeno in parte, l’entità del fatturato imputabile alla s.a.s. C. P. & C. sulla base dei pochi documenti rinvenuti nella sede aziendale, bensì sulla base dei dati trasmessi dai fornitori e clienti cui era stato inviato apposito questionario (pag. 7 sentenza impugnata).
Pertanto, la circostanza che le fatture non fossero state rinvenute al momento del controllo, avvenuto in assenza del C.M.O., al tempo resosi irreperibile, né fossero state prodotte in un momento successivo, è stata ritenuta dai giudici di merito elemento sufficiente a dimostrare che i documenti in questione erano stati occultati o distrutti dall’imputato che originariamente ne era in possesso.
Parimenti irrilevante, se non addirittura platealmente inverosimile, è stata valutata l’ipotesi dedotta dalla difesa circa una perdita involontaria, avendo l’imputato presentato una denuncia per furto della documentazione fiscale dell’azienda. Sul punto, si legge in sentenza, da un lato non pare credibile l’esistenza di persone interessate alla reiterazione seriale di condotte finalizzate alla sottrazione dei beni del tutto privi di valore economico e, dall’altro, le denunce erano state presentate in concomitanza con l’avvio di numerose verifiche fiscali cui era stata sottoposta la s.a.s. C.. Circostanza questa indicativa della natura strumentale e pretestuosa (pagg. 7-8 sentenza impugnata).
2.2. Con particolare riferimento all’elemento soggettivo, entrambi i giudici, alla luce di tali elementi e soprattutto in ordine alla mancata presentazione delle dichiarazioni annuali, hanno affermato come fosse del tutto evidente che l’occultamento delle fatture e degli altri documenti contabili aveva come unico scopo quello di ostacolare la ricostruzione degli elementi positivi di reddito da sottoporre a tassazione. Inoltre, nella motivazione si legge: “può valere ad integrare il dolo specifico anche la finalità di consentire a terzi l’evasione, donde la rilevanza del vantaggio economico che con la condotta incriminata si mirava a far conseguire ai soci della C. P. & c., quanto all’Irpef che avrebbero dovuto versare per gli utili a loro imputabili” (pag. 8 sentenza impugnata). Sicché il mancato rinvenimento delle stesse appare essere stato correttamente interpretato dalla Corte territoriale come elemento di prova del loro occultamento o della loro distruzione.
Infatti, questa Corte ha affermato che, in tema di reati tributari, l’accertamento del dolo specifico richiesto per la sussistenza del delitto di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10 (occultamento o distruzione di documenti contabili al fine di evasione) presuppone la prova della produzione di reddito e del volume di affari, che può desumersi, in base a norme di comune esperienza, dal fatto che l’agente sia titolare di un’attività commerciale (Sez. III, n. 51836 del 03/10/2018; Id. n.16167 del 27/02/2019; Id. n.22294 del 9/01/2021).
Peraltro, il D.lgs. n. 74 del 2000, art. 10 punisce colui il quale, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto o di consentire a terzi l’evasione, salvo che il fatto costituisca più grave reato, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume degli affari. La condotta punibile consiste quindi nella distruzione o nell’occultamento totale o parziale delle scritture: la distruzione configura un reato istantaneo che si realizza al momento dell’eliminazione della documentazione, la quale può consistere o nella stessa eliminazione del supporto cartaceo o mediante cancellature o abrasioni.
L’occultamento consiste invece nella temporanea o definitiva indisponibilità della documentazione da parte degli organi verificatori e si realizza mediante il nascondimento materiale del documento. La condotta di occultamento, tipizzata nell’art. 10, definisce il comportamento di colui che nasconde materialmente, in tutto o in parte, le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, mantenendo celate le predette cose in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume degli affari. E’ stato così ribadito che l’occultamento, a differenza della distruzione, dà luogo ad un reato permanente perché l’obbligo di esibizione perdura finché è consentito il controllo fiscale, con la conseguenza che la condotta antigiuridica si protrae nel tempo a discrezione del reo, il quale, a differenza della distruzione, ha il potere di fare cessare l’occultamento esibendo i documenti.
Il reato permanente, infatti, si distingue da quello istantaneo proprio perché, perdurando la fase di consumazione del reato, il soggetto attivo ha la possibilità di fare cessare in qualsiasi momento la perdurante condotta antigiuridica.
La permanenza cessa allorché scade l’obbligo della conservazione o per altre cause (sequestro aliunde della documentazione, chiusura dell’accertamento fiscale). D’altra parte occultare un documento non significa solo nasconderlo ma anche mantenerlo nascosto e siccome l’occultamento, per essere punito, deve avere avuto incidenza, sia pure relativa, sulla ricostruzione dei redditi o del volume di affari, la condotta antigiuridica perdura finché esiste in favore dell’amministrazione il potere di controllare l’ammontare dei redditi o del volume degli affari (Sez. III, n.5596 del 08/10/2020).
2.3. In questa sede poi va ribadito che la disposizione di cui al D.lgs. 74 del 2000, art. 10 prevede una doppia alternativa condotta riferita ai documenti contabili (la distruzione e l’occultamento totale o parziale), un dolo specifico di evasione propria o di terzi e un evento costitutivo, rappresentato dalla sopravvenuta impossibilità di ricostruire, mediante i documenti i redditi o il volume degli affari al fine dell’imposta sul valore aggiunto. E’ evidente che si tratta di un reato a condotta vincolata comnnissiva con un evento di danno, rappresentato dalla perdita della funzione descrittiva della documentazione contabile. Ne consegue che la condotta del reato de quo non può sostanziarsi in un mero comportamento omissivo, ossia il non avere tenuto le scritture in modo tale che sia stato obbiettivamente più difficoltosa – ancorché non impossibile – la ricostruzione aliunde ai fini fiscali della situazione contabile, ma richiede, per l’integrazione della fattispecie penale, un quid pluris a contenuto commissivo consistente nell’occultamento ovvero nella distruzione di tali scritture la cui istituzione e tenuta è obbligatoria per legge (Sez. III, n. 19106 del 02/03/2016;Id. n.5079 del 13/12/2017; Sez. V, n. 35591 del 20/06/2017).
Deve rilevarsi che, sul tema, questa Corte, con un orientamento più risalente, aveva affermato che condotta idonea ad integrare il reato di cui al Dlgs. n. 74 del 2000, art. 10, non sarebbe solamente quella volta alla evasione delle imposte dirette o sul valore aggiunto consistente nell’occultare o distruggere le scritture contabili ovvero la documentazione la cui tenuta è obbligatoria, ma anche la condotta di chi, al medesimo fine, si limiti ad omettere la tenuta della documentazione contabile, essendo sufficiente per l’integrazione del reato de quo, anche la sola impossibilità relativa ovvero una semplice difficoltà di ricostruzione del volume degli affari e dei redditi, derivante, appunto da detta omissione (Sez. III, n. 3057 del 14/11/2007; Id. n. 28656 del 14/07/2009). A tale orientamento se ne contrappone un altro, più recente, secondo il quale la condotta del reato richiede un comportamento attivo e commissivo di distruzione o occultamento dei documenti contabili la cui istituzione e tenuta è obbligatoria per legge (Sez. III, n. 38224 del 28/10/2010; Id. n. 11643 del 15/10/2014; Id. n. 11643 del 20/03/2015). Tale orientamento, condivisibile, è fondato sulla chiara lettera della legge e sulla ratio della norma già ricollegata, da questa Corte, alla tutela del bene giuridico rappresentato dall’interesse statale alla trasparenza fiscale del contribuente (Sez. III, n. 3057 del 14/11/2007).
2.4. Nel caso in giudizio, nessuna dimostrazione è stata fornita dall’imputato sulla distruzione dei documenti mentre la prova della sussistenza del dolo di evasione è stata desunta, in modo logico, dal fatto che l’evidente finalità del meccanismo fraudolento di cui il C. era partecipe, tra cui, in particolare, l’occultamento o la distruzione delle scritture contabili e dei documenti fiscali, era quello di impedire la ricostruzione degli effettivi redditi e del volume d’affari dell’impresa (resa parzialmente possibile solo a seguito della acquisizione di specifiche informazioni attraverso la banca data accessibile alla polizia tributaria), allo scopo di occultare il complesso meccanismo strumentale all’evasione fiscale, dunque proprio il dolo di evasione richiesto per la configurabilità del D.lgs. n. 74 del 2000, art. 10.
Ne consegue, in definitiva, l’evidente infondatezza di tale motivo di ricorso.
3. Il secondo motivo, come anticipato, è invece fondato.
3.1. Giova precisare che la recente revisione del sistema penale tributario operata con il d.lgs. n. 158/2015 (vigente dal 22 ottobre 2015) ha introdotto anche per il reato di occultamento o distruzione la confisca, sia diretta, sia di valore, del profitto o prezzo del reato. Prima del d.lgs. n. 158/2015, infatti, la confisca di cui all’art. 322 ter c.p., grazie al rinvio di cui all’art. 1, co. 143, I. n. 244/2007, era applicabile a tutti i reati tributari, ma non al delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili (unica fattispecie esclusa). Quest’ultimo quindi era l’unico reato per il quale era esclusa l’applicazione della confisca ex art. 322 ter c.p.
La giurisprudenza si è pronunciata sul punto ma non sempre in modo univoco.
Alcune pronunce hanno escluso l’applicabilità della confisca per equivalente al reato in esame perché non era prevista dalla legge, altre hanno consentito l’applicabilità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente seppur non previsto dal D.lgs. 231 del 2001 in quanto, sebbene il reato fosse addebitabile alla persona fisica, le conseguenze patrimoniali ricadano sulla società a favore della quale la persona fisica ha agito.
Tuttavia, come correttamente osservato dal ricorrente, si deve tenere presente che “in tema di reati finanziari e tributari, la confisca per equivalente prevista dall’art. 322 ter c.p., non è estensibile ai reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge finanziaria 2008 (L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1, comma 143), non rilevando la circostanza che la legge non abbia stabilito espressamente l’irretroattività della norma in sede d’estensione dell’applicazione della misura di sicurezza patrimoniale ai predetti reati” (Sez. III, n.39172 del 24/09/2008; SS.UU. 18374 del 31/01/2013: “La confisca per equivalente, introdotta per i reati tributari dalla L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143, ha natura eminentemente sanzionatoria e, quindi, non essendo estensibile ad essa la regola dettata per le misure di sicurezza dall’art. 200 c.p., non si applica ai reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge citata).
Deve essere precisato che il D.lgs. n. 158 del 2015, che ha abrogato la L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143, ha introdotto con l’art. 12 bis, una fattispecie di confisca che ricalca esattamente l’art. 322 ter c.p., così sostituendo la confisca già prevista dal comma dell’articolo ora abrogato, che disponeva appunto l’estensione ai reati tributari dell’art. 322 ter c.p.
Questa Sezione infatti, in linea coi principi sopracitati, con sentenza 14/12/2018, n.15745 ha affermato che in materia di reati tributari, la confisca è stata introdotta dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1, comma 143, a norma del quale “nei casi di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 2, 3, 4, 5, 8,10-bis, 10-ter, 10-quater e 11, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all’art. 322-ter c.p.”. Tale disposizione è stata successivamente abrogata dal D.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, art. 14, che contestualmente ha introdotto, nel corpo del D.lgs. n. 74 del 2000, l’art. 12-bis, a tenore del quale la confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo di uno dei delitti previsti dal D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, deve essere sempre disposta nel caso di condanna o di sentenza di applicazione concordata della pena. Inoltre, tra le due disposizioni appena indicate vi è continuità normativa (Sez. III, n. 50338 del 22/09/2016; Id. n. 35226 del 16/06/2016).
Si deve però osservare che la L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143, norma vigente al momento del fatto, essendo la data di consumazione del reato indicata al settembre 2012, individuava espressamente i delitti tributari in relazione ai quali erano applicabili le disposizioni di cui all’art. 322 ter c.p. e, tra questi, non era contemplato il delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili, previsto e punito dal Dlgs. n. 74 del 2000, art. 10, in relazione al quale, pertanto, non può essere disposta la confisca a norma della disposizione in esame.
3.2. Ciò premesso, si deve rilevare che la sentenza impugnata ha qualificato la confisca disposta come per equivalente (pag.8: “…in relazione al delitto per il quale è stata confermata la condanna è ammessa la confisca del profitto, in via diretta o per equivalente…dovendosi tener conto anche dell’imposta evasa dai soci della C. P. & C. il cui accertamento è stato indubbiamente ostacolata dalla condotta dell’imputato.. va mantenuta la confisca rapportata all’importo complessivo delle somme sottratte all’erario, va considerato pienamente operante il sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, di somme di denaro sottratte al pagamento dell’IVA…”).
Pertanto, alla luce di quanto sopra, nel caso in esame non può applicarsi retroattivamente la disposizione del D.lgs. n. 74 del 2000, art. 12-bis, stante la natura eminentemente sanzionatoria della confisca per equivalente, come affermato dalle Sezioni Unite in relazione all’ipotesi di confisca introdotta per i reati tributari dalla L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143, principio che, ovviamente, vale anche per la confisca di cui al D.lgs. n. 74 del 2000, art. 12-bis, stante l’indicata continuità normativa tra le due disposizioni. Ed invero, essendo stato il reato commesso anteriormente all’entrata in vigore del citato articolo, ovvero in data 27.12.2013, la confisca per equivalente non avrebbe comunque potuto essere disposta.
Il secondo motivo pertanto risulta fondato e va accolto.
4. Alla stregua dei rilievi che precedono, pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, limitatamente alla confisca, misura che elimina.
Nel resto, il ricorso dev’essere dichiarato inammissibile. Il parziale esito positivo del ricorso esclude tuttavia che il ricorrente possa essere condannato, per la parte concernente il ricorso dichiarato inammissibile, al pagamento di quanto previsto dall’art. 616 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alla disposta confisca che elimina e dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
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