Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 39615 depositata il 20 ottobre 2022
responsabilità amministrativa dell’ente dipendente da reato commesso da persona fisica
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’impugnata sentenza la Corte d’Appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale di Rimini che, ritenuta provata la responsabilità della società S.G., aveva condannato l’odierna ricorrente alla sanzione amministrativa pari a 200 quote dell’importo di euro 500 ciascuna per un importo complessivo di euro 100.000,00 oltre le spese.
2. La società era stata tratta a giudizio per rispondere dell’illecito amministrativo di cui agli artt. 5 e 25 septies d.lgs.vo 231/2001 in relazione alle lesioni colpose patite da un dipendente della società a seguito della violazione delle norme poste a tutela della sicurezza sul Il sinistro- come ricostruito dai giudici di merito – , verificatosi nella notte tra il 16 ed il 17 settembre del 2008 -, era avvenuto in occasione di un’operazione di sostituzione di un nastro trasportatore finalizzato a fare confluire materiale per la fusione all’interno di un silos. La persona offesa, Z.G., era l’unico dei componenti di una squadra di quattro operai a trovarsi sulla sommità del silos. L’infortunio si era verificato a seguito del transito di una componente del carroponte, alla cui guida si trovava altro componente della squadra, che aveva provocato lo schiacciamento del capo della vittima contro uno spigolo della balaustra A seguito del sinistro lo Z.G. aveva riportato lesioni gravissime, comportanti una invalidità permanente del 75%.
3. Avverso la sentenza propone ricorso la società, a mezzo del suo difensore, formulando plurimi motivi di impugnazione.
Con il primo motivo deduce contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato presupposto.
Con il secondo motivo deduce violazione di legge e mancanza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata in relazione alla sussistenza del requisito dell’interesse e del vantaggio ai sensi dlgs.vo 231/2001
Con il terzo motivo censura infine il vizio di motivazione, sotto il profilo della calcolo della sanzione amministrativa e dell’importo delle quote.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. È opportuno procedere ad una generale ricostruzione dell’evoluzione giurisprudenziale relativa all’applicabilità del d.lgs. n. 231/2001, con particolare riferimento ai reati colposi.
Tradizionalmente estranea al nostro ordinamento, la responsabilità penale degli enti è stata introdotta dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, il quale ha previsto un sistema di responsabilità amministrativa dipendente da reato gravante direttamente sull’ente. Il d.lgs. n. 231/2001 realizza una flessione del tradizionale principio espresso dal brocardo societas delinquere non potest, in favore di una forma di responsabilità dell’ente del tutto autonoma, ma connessa, legata ad un illecito amministrativo che dipende dalla realizzazione di un reato (sempre che esso rientri fra quelli previsti dal decreto) a sua volta perpetrato da una persona fisica. La connessione in discorso è duplice. Dal punto di vista oggettivo, infatti, l’art. 5 del decreto richiede che la persona fisica abbia agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente. Dal punto di vista soggettivo, inoltre, il medesimo articolo richiede la sussistenza di un rapporto fra la persona fisica e l’ente. In particolare, due possono essere i rapporti rilevanti: ex art. 5, c. 1, lett. 21), la persona fisica può trovarsi in posizione apicale all’interno dell’organizzazione dell’ente, ovvero, ex art. 5, c. 1, lett. b), può essere sottoposta all’altrui direzione. La lettera a) tipizza il c.d. principio di identificazione, per il quale l’ente si identifica nel soggetto in posizione apicale e così, dunque, è come se avesse direttamente commesso il reato. È tuttavia previsto un contemperamento: l’ente non risponde se prova la sussistenza di tutti e quattro i criteri appositamente previsi dal successivo art. 6, c. 1, ossia l’esistenza e la corretta attuazione di modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire la commissione di reati della specie di quello verificatosi. Nel caso dei soggetti di cui alla lettera b), invece, ci troviamo di fronte ad una vera e propria fattispecie colposa, prevista dall’art. 7 del decreto, a norma del quale l’ente risponde se non ha rispettato i propri obblighi di direzione o di vigilanza, i quali fanno capo al modello di organizzazione, gestione e controllo previsto dal decreto e considerato dai commi 2, 3 e 4 dell’art.
La responsabilità degli enti può dunque essere definita come una vera e propria responsabilità da colpa di organizzazione, caratterizzata dal malfunzionamento della struttura organizzativa dell’ente, la quale dovrebbe essere volta – mediante adeguati modelli – a prevenire la commissione di reati. Le Sezioni Unite hanno infatti al riguardo affermato che, in tema di responsabilità da reato degli enti, la colpa di organizzazione, da intendersi in senso normativo, è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli (Sez. Un., n. 38343 del 24 aprile 2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri Rv. 261114). Quanto alla natura, penale od amministrativa, della responsabilità ex decreto 231, la giurisprudenza ha ormai chiarito che si è in presenza di un tertium genus, il quale, coniugando i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, configura un sistema di responsabilità compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza (Sez. Un., n. 38343 del 24 aprile 2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri Rv. 261112). Parimenti, si è chiarita anche la natura autonoma della responsabilità dell’ente rispetto a quella penale della persona fisica che ponga in essere il reato-presupposto. Ai sensi dell’art. 8 del decreto, rubricato per l’appunto “autonomia della responsabilità dell’ente”, la responsabilità dell’ente deve essere, infatti, affermata anche nel caso in cui l’autore del suddetto reato non sia stato identificato, non sia imputabile ovvero il reato sia estinto per causa diversa dall’amnistia (Sez. 5, n. 20060 del 4 aprile 2013 P.M. in proc. Citibank, Rv. 255414; Sez. 6, n. 28299 del 10 novembre 2015, Bonomelli, Rv. 267048). Ciò significa che la responsabilità amministrativo penale da organizzazione prevista dal d.lgs. n. 231/2001 investe direttamente l’ente, trovando nella commissione di un reato da parte della persona fisica il solo presupposto, ma non già l’intera sua concretizzazione. La colpa di organizzazione, quindi, fonda una colpevolezza autonoma dell’ente, distinta anche se connessa rispetto a quella della persona fisica. 5. Tanto chiarito in generale sul sistema di responsabilità di cui al d.lgs. n. 231/2001, occorre soffermare l’attenzione sulla sua compatibilità rispetto alla commissione di reati colposi. Il punto di partenza del ragionamento è rappresentato dal fatto che, come noto, il modello repressivo previsto dal d.l9s. 231/2001 è un modello c.d. chiuso, dal momento che la commissione non di qualsiasi reato importa altresì la responsabilità dell’ente, ma solamente quella dei reati tassativamente e nominativamente previsti dalla Sezione III del Capo I (artt. 24 seg.) del decreto medesimo. 10 Originariamente, i delitti colposi di omicidio e lesioni personali sul lavoro non facevano parte dell’elenco. Successivamente, l’art. 9,, c. 1, legge 3 agosto 2007, n. 123 ha inserito al decreto l’art. 25-septies (Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro), poi ulteriormente modificato, nell’attuale configurazione, dall’art. 300, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81. In questo modo, lo schema di responsabilità degli enti è stato esteso anche alla commissione dei delitti colposi contro la vita e l’incolumità personale. Fin dall’introduzione dell’art. 25-septies., dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sulla compatibilità del modello di imputazione obiettiva previsto dall’art. 5 con il paradigma dei delitti colposi. Ci si è in particolare domandati come fosse possibile che potesse sussistere la responsabilità dell’ente in presenza di morte o lesioni colpose causate dalle persone fisiche previste dal decreto se il criterio oggettivo indispensabile per ritenere la sussistenza di tale responsabilità è quello della commissione del reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente. Per loro stessa natura, i reati colposi causalmente orientati, fondati sulla mancata volontà dell’evento lesivo, appaiono radicalmente inconciliabili con l’idea stessa di interesse o vantaggio dell’ente. È evidente, infatti, che nessun interesse o vantaggio può essere perseguito dalla persona fisica che si renda autrice di un delitto colposo, in cui l’evento non soltanto è involontario, ma è anche assolutamente in contrasto, per sua stessa natura, con qualsivoglia interesse per l’ente. Dalla morte o dalle lesioni dei propri lavoratori, infatti, l’ente non ha assolutamente nulla da guadagnare, né sul piano economico, né su quello di immagine. Ritenere, tuttavia, che i delitti colposi siano radicalmente inconciliabili con l’art. 5, d.lgs. n. 231/2001 avrebbe significato abrogare di fatto l’art. 25- septies. Perciò, la giurisprudenza ha elaborato un criterio di compatibilità che, in mancanza di una riformulazione del tessuto normativo in senso maggiormente conferente alle “esigenze” dei delitti colposi, ha permesso di ritenere operativo il suddetto articolo. Si fa riferimento, come noto, al criterio per cui, nei delitti colposi, l’interesse o vantaggio per l’ente, di cui all’art. 5, non deve riferirsi alla commissione dell’evento del reato, ma deve riguardare unicamente la condotta (Sez. Un., n. 38343 del 24 aprile 2014, P.G., R.C., Esp, nhahn e altri Rv. 261115). È chiaro, infatti, che un interesse per l’ente può essere ottenuto dalla violazione delle norme antinfortunistiche solamente al momento della condotta ed al netto dell’evento, sub specie di risparmio di spesa o di accelerazione e massimizzazione della produzione. Valutando il comportamento del soggetto agente del reato, infatti, è al momento della condotta che si realizza quell’intento finalistico di procurare un vantaggio all’ente necessario a ritenere anche quest’ultimo responsabile, essendo l’evento del reato non voluto. 6. Ulteriore nodo problematico del rapporto fra d.lgs. n. 231/2001 e delitti colposi è rappresentato dal configurarsi dei criteri di “interesse” o “vantaggio” in relazione alla colpa. Occorre al riguardo ripercorrere lo sviluppo giurisprudenziale relativo ai due parametri di imputazione obiettiva di cui all’art. 5. Nonostante esistano teorie c.d. unitarie, per cui interesse e vantaggio incarnerebbero sostanzialmente un unico criterio, trattandosi di tautologica ripetizione del medesimo concetto tramite due termini differenti, in giurisprudenza si è affermata la più corretta teoria per cui si tratterebbe, invece, di criteri diversi ed alternativi. In particolare, si è affermato che, in tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche e delle società, l’espressione normativa, con cui se ne individua il presupposto nella commissione dei reati “nel suo interesse o a suo vantaggio”, non contiene un’endiadi, perché i termini hanno riguardo a concetti giuridicamente diversi, potendosi distinguere un interesse “a monte” per effetto di un indebito arricchimento, prefigurato e magari non realizzé1to, in conseguenza dell’illecito, da un vantaggio obbiettivamente conseguito con la commissione del reato, seppure non prospettato ex ante, sicché l’interesse ed il vantaggio sono in concorso reale (Sez. 2, n. 3615 del 20 dicembre 2005, D’Azzo, Rv.. 232957). 6.1. Come si vede, i due criteri vengono tenuti nettamente distinti, vale a dire operanti su piani diversi, uno (l’interesse) su quello soggettivo e l’altro (il vantaggio) su quello oggettivo. Così, l’interesse è il criterio soggettivo (indagabile ex ante) consistente nella prospettazione finalistica, da parte del reo persona fisica, di arrecare un interesse all’ente mediante il compimento del reato, a nulla valendo che poi tale interesse sia stato concretamente raggiunto o meno. Il vantaggio, al contrario, è il criterio oggettivo (da valutare ex post), consistente nell’effettivo godimento, da parte dell’ente, di un vantaggio concreto dovuto alla commissione del reato. In altri termini, il richiamo all’interesse dell’ente valorizza una prospettiva soggettiva della condotta delittuosa posta in essere dalla persona fisica da apprezzare ex ante, mentre il riferimento al vantaggio evidenzia un dato oggettivo che richiede sempre una verifica ex post (Sez. 5, n. 10265 del 28 novembre 2013, Banca Italease S.p.a.,. Rv. 258575). Le Sezioni Unite, a loro volta, hanno abbracciato tale impostazione, statuendo che, in tema di responsabilità da reato degli enti, i criteri cli imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento contenuto nell’art. 5 del d.lgs. 231 del 2001 all”‘interesse o al vantaggio”, sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il criterio dell’interesse esprime una valutazione teleoloi ica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del 12 vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito (Sez. Un., n. 38343 del 24 aprile 2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri Rv. 261114 ). 6.2. Ultimo tassello del ragionamento è dato dall’applicazione di tali criteri ai reati colposi.
5. Venendo specificamente alle questioni poste dalla ricorrente, il primo motivo di ricorso è infondato e va pertanto disatteso. Si sostiene che la Corte territoriale avrebbe sul punto (sussistenza del reato presupposto) confermato la sentenza di prime cure con una motivazione “palesemente illegittima”, “illogica e superficiale” in quanto “in aperto contrasto con la motivazione di primo grado, priva di correlazione con la imputazione contestata”. In particolare si duole del fatto che sarebbero stati introdotti argomenti di colpa inediti e rispetto ai quali la società ricorrente mai si sarebbe potuta difendere (mancanza della puntuale osservanza delle prescrizioni del DVR e della vigilanza circa il rispetto delle modalità imposte per la sicurezza nel corso delle operazioni).
6. Osserva la Corte: contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente alla società è stato espressamente contestato di aver “omesso di predisporre ed attuare le misure di prevenzione ed i modelli di organizzazione e gestione previsti ex lee idonei a scongiurare la commissione di reati…”, contestazione che era stata avanzata anche nei confronti delle persone fisiche e che è stata evidenziata anche nella sentenza del giudice di primo grado che oltre a sottolineare l’assenza di una adeguata formazione, ha posto in rilievo anche le carenze nella valutazione dei rischio e la mancanza di un protocollo standard volto a regola mentare le diverse fasi di effettuazione dell’operazione manutentiva (pag, 8 della sentenza di primo grado e 11 della sentenza di appello dove in particolare viene sottolineato che “presso la fonderia non vi era alcun divieto di accesso al silos durante lo svolgimento della procedura”), procedendo ad una compiuta verifica della sussistenza del fatto di reato, stante la intervenuta declaratoria di prescrizione adottata nei confronti delle persone fisiche. La sentenza impugnata, al di là di alcune inesattezze semantiche inidonee a scalfirne la tenuta complessiva e la sua congruità logica, ha altresì puntualizzato a riquardo come il personale difettasse di puntuali istruzioni su come eseguire la manovra, ed in particolare sulla necessità di una continua contezza della posizione dei colleghi. E del resto, significativamente, la stessa ricorrente sin dal ricorso in appello – come dato atto dalla stessa sentenza impugnata- ha cercato di sostenere di aver provveduto ad una rituale redazione del DVR con una apposita disciplina dell’utilizzo del carro ponte e del silo.
7. Fondato ed assorbente si appalesa invece il motivo di ricorso su cui la ricorrente aveva già formulato apposito motivo di appello. La Corte territoriale è rimasta assolutamente silente sul punto, limitandosi ad affermare (pag. 4) che “la scelta di operare in orario notturno deve ragionevolmente ritenersi dovuta dalla determinazione di recare il minore intralcio possibile alla produzione, dunque essere rispondente all’interesse dell’impresa di ottimizzare la produzione, ancorchè con compressione dei livelli di sicurezza dei dipendenti.
Sulla scorta dell’impostazione tracciata dalle Sezioni Unite sul caso ThyssenKrupp, e dunque sulla base della distinzione dei due criteri che si è sopra riportata, la giurisprudenza ha stabilito come debbano essere intesi l’interesse ed il vantaggio in riferimento ai delitti colposi di cui all’art. 25-septies, d.lgs. n. 231/2001. Si è chiarito che, in tema di responsabilità amministrativa degli enti derivante da reati colposi di evento, i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento contenuto nell’art. 5 del d.lgs. n. 231 del 2001 all’interesse o al vantaggio, sono alternativi e concorrenti tra di loro e devono essere riferiti alla condotta anziché all’evento, pertanto, ricorre il requisito dell’interesse qualora l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di conseguire un’utilità per l’ente, mentre sussiste il requisito del vantaggio qualora la persona fisica ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto (Sez. 4, n. 2544 del 17 dicembre 2015, Gastoldi ed altri, Rv. 268065; Sez. 4, n. 24697 del 20 aprile 2016, Mazzotti e altro, Rv. 268066).
Occorre partire da un dato assodato, vale a dire dalla diversità ed alternatività dei criteri dell”‘interesse” e del “vantaggio”. Come visto, essi rappresentano due diversi criteri di imputazione obiettiva del reato all’ente, e non è dunque possibile parlare genericamente di “interesse” per l’ente onde farvi rientrare ogni tipo di profitto patrimoniale ottenuto dall’ente medesimo a seguito della commissione del reato. L’interesse è un criterio soggettivo, il quale rappresenta l’intento del reo di arrecare un beneficio all’ente mediante la commissione del reato. Per questo, l’interesse è indagabile solamente ex ante ed è del tutto irrilevante che si sia o meno realizzato il profitto sperato. Ebbene, è evidente che, nei reati colposi d’evento, affinché l’interesse per l’ente sussista, sarà certamente necessaria la consapevolezza della violazione delle norme antinfortunistiche, in quanto è proprio da tale violazione che la persona fisica ritiene di poter trarre un beneficio economico per l’ente (vale a dire un risparmio di spesa). Evidentemente, la sussistenza di tale consapevole violazione potrà apparire più evidente nei casi di colpa c.d. cosciente, o con previsione dell’evento, nei quali la volontà dell’agente non è diretta verso l’evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l’evento illecito, si astiene dall’agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo (Sez. Un., n. 38343 del 24 aprile 2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri Rv. 261104). Egli, infatti, ripone la propria fiducia nella non verificazione dell’evento, ma, d’altra parte, è pienamente consapevole della violazione delle regole cautela1·i, e potrebbe porre in •essere tale violazione proprio allo scopo, come spesso accade, di ottenere un risparmio di spesa. La volontà di risparmiare è dunque indispensabile affinché sussista l’interesse dell’ente. Diversamente deve ragionarsi con riferimento al vantaggio. Esso è criterio oggettivo, legato all’effettiva realizzazione di un profitto in capo all’ente quale conseguenza della commissione del reato. Per questo deve essere analizzato, a differenza dell’interesse, ex post. Chiaramente, come si è detto, nei reati colposi si dovrà guardare solamente al vantaggio ottenuto tramite la condotta. La condotta, nei reati colposi d’evento contro la vita e l’incolumità personale commessi sul lavoro, è rappresentata dalla violazione delle regole cautelari antinfortunistiche, ed è dunque in riferimento ad essa che bisognerà indagare se, ex post, l’ente abbia ottenuto un vantaggio di carattere economico. Qualora la persona fisica abbia violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto, allora potrà ravvisarsi il vantaggio per l’ente. In tale schema, marcatamente obiettivo, non è necessario che il reo abbia volontariamente violato le regole cautelari al fine di risparmiare, in quanto la mancanza di tale volontà rappresenta la sostanziale differenza rispetto all’interesse, ma solamente che risulti integrata la violazione delle regole cautelari contestate. In questo modo, il vantaggio viene rapportato alle specifiche contestazioni mosse alla persona fisica, salvaguardandosi il principio di colpevolezza, ma allo stesso tempo permettendo che venga attinto da sanzione penale anche il soggetto che, in concreto ed obiettivamente, si è giovato della violazione cautelare, vale a dire l’ente. Quanto, poi, alla consistenza del vantaggio, deve certamente trattarsi di importo non irrisorio, il cui concreto apprezzamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, che resta insindacabile ove congruamente ed adeguc1tamente motivata. Nel caso in esame la impugnata sentenza sulla scorte delle osservazioni che precedono è assolutamente carente.
Inoltre nulla viene detto dalla Corte territoriale nonostante uno specifico motivo di gravame sulla cd. “colpa di organizzazione”, requisito che assolve la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, quale elemento costitutivo del fatto tipico integrato dalla violazione ”colpevole” (ovvero rimproverabile) della regola cautelare. Sotto questo profilo la Suprema Corte (cfr. Sez. IV, n. 32899/2021) ha efficacemente osservato che proprio l’enfasi posta sul ruolo della colpa di organizzazione e l’assimilazione della stessa alla colpa, intesa quale violazione di regole cautelari, convince che la mancata adozione e l’inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente agli artt. 6 e 7 del decreto n. 131 del 2001 ed all’art. 30 del dl.gsvo n. 81 del 2008 non può assurgere ad elemento costitutivo della tipicità dell’illecito dell’ente, ma integra una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione, che va però specificamente provata dall’accusa, mentre l’ente può dare dimostrazione dell’assenza di tale colpa. Pertanto gli elementi costitutivi dell’illecito dell’ente, oltre alla compresenza della relazione organica e teleologica tra il soggetto responsabile del reato presupposto e l’ente (cd. immedesimazione organica), sono la colpa di organizzazione, appunto, il reato presupposto ed il nesso causale che deve correre tra i due.
8. Nella specie quindi la Corte territoriale non ha motivato sulla concreta configurabilità di una colpa di organizzazione dell’ente, non ha approfondito l’aspetto relativo al concreto assetto organizzativo adottato dall’impresa in tema di prevenzione dei reati della specie di quelli del quale qui ci si occupa, né ha stabilito se tale elemento abbia avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato La impugnata sentenza va pertanto annullata con riferimento alle osservazioni sopra formulate, restando cosi assorbito l’ultimo motivo di impugnazione.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’Appello di Bologna