Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 39678 depositata il 4 settembre 2018
RITENUTO IN FATTO
1. È impugnata la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Milano ha parzialmente riformato quella emessa dal Tribunale della medesima città, assolvendo taluni imputati dal reato di truffa di cui al capo A) per non aver commesso il fatto, ritenendo assorbito il predetto reato di truffa in quello di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, di cui al capo B) e per il quale era stato condannato NV, rideterminando, per l’effetto, la pena nei confronti di quest’ultimo in anni due e mesi sei di reclusione ed infine confermando le statuizioni sulla confisca disposte dal primo giudice.
A NV si contesta di aver commesso il reato previsto dall’articolo 5 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 perché, ai fine di evadere le imposte sui redditi, non presentava, essendovi obbligato, le dichiarazioni annuali dei redditi relativi a detta imposta, essendo l’imposta evasa superiore alla prevista soglia di euro 77.468,53. Ciò in quanto la società L. SA, per il periodo di imposta 2007, in cui il prevenuto ricopriva la carica di amministratore di diritto e/o di fatto, era risultata solo formalmente residente in Lussemburgo ma con sede dell’amministrazione stabilmente in Italia, presso il domicilio fiscale in Milano, Foro Bonaparte n. 70.
In particolare, si ometteva di indicare componenti di reddito per euro 19 milioni, pari alla plusvalenza tassabile realizzata in quanto i prevenuti, dopo aver individuato la parte acquirente del 90% del capitale sociale della W. srl nella società EI spa, e pattuito un prezzo di cessione di euro 46.163,195,74, nonché aver stabilito una penale fittizia di euro 10.000.000,00 a favore della società maltese E. Ltd, interponevano artificiosamente, nella compravendita, la società di diritto lussemburghese L. SA, la quale, dapprima acquistava il 100% della W. srl dalle società venditrici F. srl e BB 8s Brown srl, al prezzo di euro 33.263.195,74, e, successivamente (dopo mezz’ora), ne rivendeva il 90% alla E.I. spa, al prezzo di euro 46.163.195,74 al fine di allocare all’estero la plusvalenza tassabile di euro 12.900.000,00 (nonché il 10% della W. del valore di 6.100.000,00 euro), con conseguente evasione:
– ai fini delle imposte dirette e dell’IRES,pari ad euro 6.270.000
– ai fini delle imposte indirette e dell’IVA (20%) l relativa) pari ad euro 3.800.000;
– ai fini delle imposte regionali e dell’IRAP) pari ad euro 807.500. Reato commesso in Milano il 30 settembre 2008.
2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza NV, FE, AS S. e GS, tramite i rispettivi difensori, articolano i seguenti motivi di impugnazione, qui enunciati, ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. NV affida il gravame a cinque motivi.
2.1.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione di legge e l’inosservanza di norme processuali previste a pena di nullità e vizio di motivazione, in particolare per violazione delle disposizioni in materia di competenza territoriale e mancanza di motivazione in ordine al rigetto dell’eccezione di incompetenza territoriale (articolo 606, comma 1, lettere b), c) ed e), codice di procedura penale).
Sostiene che, secondo l’accusa, il profitto derivante dal reato di truffa aggravata e di omessa dichiarazione sarebbe stato, successivamente, oggetto di plurime condotte di riciclaggio commesse da altri imputati, assolti con la sentenza di primo grado.
In considerazione del fatto che la connessione costituisce un criterio autonomo ed originario di attribuzione della competenza ed in presenza quindi di una connessione ai sensi dell’articolo 12, lettera c), del codice di procedura penale, tra i reati di cui ai capi a), b) ed il reato di cui al capo c), esistendo tra essi un chiaro nesso teleologico di tipo “oggettivo”, si sarebbero dovute applicare le norme sulla determinazione della competenza territoriale per connessione, in virtù delle quali il legittimo e corretto radicamento della competenza territoriale coinciderebbe, nel caso di specie, con il luogo di consumazione del reato di riciclaggio ex articolo 648-bis del codice penale, contestato al capo c), da individuare secondo le regole stabilite dagli articoli 8 e seguenti del codice penale.
I vari trasferimenti di denaro sono, infatti, avvenuti attraverso bonifici bancari effettuati a beneficio di società italiane, di persone fisiche residenti in Italia, o di società estere comunque riconducibili ad imputati residenti in Italia. Ed in particolare, le suddette condotte risultano chiaramente consumate in Roma, ove doveva radicarsi la competenza territoriale del reato ex articolo 648- bis del codice penale, giammai in ogni caso a Milano, e, comunque, analogo approdo sarebbe stato conseguito qualora si fosse ritenuto applicabile l’articolo 9 del codice di procedura penale o qualora si dovesse considerare la connessione con il solo reato di truffa pluriaggravato, dovendo il luogo di consumazione di tale delitto essere individuato in quello in cui si era verificata la deminutio patrimonii per l’amministrazione finanziaria (l’evento della truffa, infatti, sarebbe stato costituito proprio mancata dalla percezione di somme dovute da parte dell’amministrazione finanziaria), con la conseguenza che il reato, nel caso in esame, si sarebbe verificato a Roma, sede della Banca d’Italia, che svolge il servizio di Tesoreria dello Stato.
Qualora poi si fosse considerato come unico il reato di riciclaggio, la competenza si sarebbe dovuta radicare in capo al Tribunale di Marsala, dovendosi applicare la seconda parte dell’articolo 10, comma 1, del codice di procedura penale secondo cui “Nel caso di pluralità di imputati, procede il giudice competente per il maggior numero di essi”: il luogo di residenza del maggior numero degli imputati (GS e AS S.) era Salemi, rientrante nel circondario del Tribunale di Marsala.
2.1.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione di legge e la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione, laddove la Corte di appello ha riaffermato la penale responsabilità del NV con riferimento al reato di cui al capo b) della rubrica (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), codice di procedura penale).
Premette che l’assunto accusatorio, recepito dai Giudici di merito, è nel senso che il NV, quale “amministratore di diritto e/o di fatto” della L. SA, avrebbe omesso di presentare la dichiarazione annuale relativamente alle imposte sui redditi, al fine di evadere le imposte medesime.
Tale società, infatti, sarebbe stata “solo formalmente residente in Lussemburgo ma con sede dell’amministrazione stabilmente in Italia” e, dunque, avrebbe dovuto dichiarare in Italia i redditi percepiti, ed in particolare la plusvalenza che sarebbe derivata dalla cessione delle quote W. poco prima acquistate, e corrispondere le relative imposte.
Tuttavia, il capo di imputazione, benché nella parte iniziale faccia espresso riferimento ad uno scopo di evadere le sole “imposte sui redditi” e all’omissione delle dichiarazioni “relative a tale imposta”, successivamente, nel determinare l’imposta asseritamente evasa, indica anche una pretesa evasione dell’IVA (per € 3.800.000) e dell’IRAP (per € 807.500).
Il recepirnento, da parte dei Giudici di prime e seconde cure, di tale indicazione – che è stata in effetti utilizzata per determinare l’importo da sottoporre a confisca per equivalente (oltre ad avere inciso negativamente sul trattamento sanzionatorio, tanto che proprio l’ammontare di imposta evasa è stato indicato dal Tribunale come elemento ostativo alla concessione delle attenuanti generiche) – sarebbe frutto di una evidente violazione di legge, sul rilievo che l’Irap, non essendo un’imposta sui redditi in senso tecnico, non integra il fatto di reato contestato e che le operazioni in materia di quote societarie sono, ai sensi dell’articolo 10 d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633 esenti da Iva cosicché parimenti non integrerebbero il fatto di reato.
Ciò premesso, il ricorrente ricorda che i Giudici del merito hanno ritenuto che la L. SA fosse una società esterovestita, cosicché il ricorrente avrebbe fittiziamente localizzato la residenza fiscale della società all’estero, in particolare in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, allo scopo di sottrarsi al più gravoso regime nazionale.
Peraltro, il Lussemburgo, Stato di localizzazione della società, non è un paradiso fiscale e non era certo onere del ricorrente provare che la società aveva regolarmente pagato le tasse nello Stato di residenza fiscale.
L’opposta conclusione risulterebbe invece fondata su un’erronea, parziale, lettura delle risultanze dibattimentali e sarebbe frutto di una indebita e illegittima inversione dell’onere probatorio. Su tali decisivi punti, articolati anche con i motivi aggiunti, la Corte di appello non avrebbe motivato incorrendo nei vizi denunciati.
Allo stesso modo, ad avviso del ricorrente, una motivazione meramente apparente si registrerebbe in merito a quanto rappresentato nei motivi di gravame con riferimento alla ricostruzione complessiva della vicenda e alle condotte poste in essere dal NV prima e dopo quelle oggetto di contestazione, tanto sia ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo del reato, caratterizzato dal dolo specifico, quanto dell’elemento materiale.
In particolare, quanto all’elemento soggettivo, nell’atto di appello si era evidenziato che:
– il NV (come chiarito in particolare dai testi C. e Cavallaro) aveva costituito (unitamente ad altri soci) la L. in modo assolutamente trasparente, utilizzando quale provvista dell’investimento somme insistenti sui propri conti correnti presenti in Italia (in particolare presso la Banca MPS) ed affidandosi a una nota società fiduciaria italiana (SG), soggetto vigilato da Banca d’Italia, tenuto ex lege alle segnalazioni alle competenti Autorità regolatorie (anche ai fini antiriciclaggio), che agì quale canalizzatore esclusivo di tutti i flussi finanziari in entrata ed in uscita di L. SA, ed era, secondo la normativa italiana, sostituto di imposta per il versamento delle tasse dovute sugli utili effettivamente percepiti dai soci;
– una volta tramontate le aspettative di sviluppo in ambito internazionale da parte del Gruppo NV, fu effettuato il disinvestimento da L. SA ed il rientro trasparente ed effettivo di tutti i capitali in Italia, ad ulteriore dimostrazione dell’insussistenza di qualunque finalità di evasione fiscale; in particolare L. SA, che non aveva debiti, venne ceduta dai soci ad una società italiana del Gruppo NV, la NH SPA, al fine di garantire che L. SA avesse un solo socio, e si potesse procedere alla più rapida ed immediata procedura di liquidazione istantanea prevista dalla legge lussemburghese con l’avvio della c.d. “procedura di dissoluzione”;
– tutto il patrimonio di L. SA è dunque interamente rientrato in Italia lecitamente, nel febbraio 2010, ed acquisito da NH Spa; sugli utili percepiti dai soci (solo nel 2010, non prima) sono stati effettuati i pagamenti delle imposte dovute, in concreto disposti da SG;
– l’assoluta insussistenza di finalità di evasione risulta confermata dalla circostanza che il rientro in Italia di tutti i capitali in capo a L. SA non venne eseguito, pur essendovene la possibilità, con il ricorso allo “scudo fiscale” di cui al d.l. 78 del 2009 e succ. mod., ma con procedura trasparente, con pagamento nominativo e tracciabile.
Sostiene il ricorrente, al riguardo, che proprio in quel periodo (la dissoluzione della L. SA è del febbraio 2010) vi sarebbe stata la possibilità di usufruire di quella forma di condono, prima citata, ma il NV, su suggerimento dei propri legali e consulenti, non lo ritenne necessario. Nessuno di tali rilievi sarebbe stato preso in considerazione dai Giudici del merito, che non avrebbero speso neppure una parola sulle modalità dell’investimento in L. affermando, poi, “che a nulla rileva la condotta successivamente tenuta dall’imputato (rientro parziale di tale somma), intervenuta a reato consumato, alla luce di una mutata situazione di fatto”.
Secondo il ricorrente, tale asserzione sarebbe del tutto incomprensibile laddove si accenna, senza nessuna ulteriore specificazione, ad una “mutata situazione di fatto”, dal momento che i Giudici di appello non avrebbero spiegato a quali mutamenti essi intendevano riferirsi e perché, a seguito degli stessi, l’imputato, prima intenzionato ad evadere le imposte, avrebbe maturato la decisione di far rientrare i capitali in Italia per poi pagare le imposte sui relativi utili; avrebbero omesso di rispondere ai rilievi difensivi, tesi ad evidenziare le condotte successive al preteso reato non già per il loro rilievo oggettivo (la difesa non aveva mai contestato che al momento del rientro del patrimonio in Italia l’eventuale reato sarebbe stato già consumato), bensì in quanto sintomatiche – unitamente a tutte quelle precedenti-dell’insussistenza, già a monte, del dolo di evasione; non avrebbero spiegato affatto l’omesso ricorso allo scudo fiscale, davvero dirimente al fine di dimostrare che il NV fosse pienamente convinto di avere agito correttamente.
Dai predetti vizi motivazionali è derivata, in sostanza, la disapplicazione dei principi, pur richiamati nella motivazione della sentenza impugnata, con riferimento al dolo specifico che caratterizza il reato in esame.
Siffatte considerazioni sarebbero da sole sufficienti a giustificare L’Annullamento della sentenza impugnata ma il ricorrente osserva come analoghi vizi inficino anche la disamina della Corte d’appello in ordine all’aspetto oggettivo del reato in esame.
La Corte territoriale, confermando quanto già ritenuto dal Tribunale, ha concluso che quella della L. fosse una fattispecie di esterovestizione, e cioè che, sostanzialmente, la stessa fosse residente in Italia.
La Corte del merito ha, al riguardo, correttamente richiamato il disposto dell’articolo 73, comma 3, D.P.R. 917 del 1986 – a norma del quale si considerano residenti in Italia soltanto “società ed enti che, per la maggior parte del periodo di imposta, hanno la loro sede legale ovvero la sede amministrativa ovvero l’oggetto principale nel territorio dello Stato” – ma ne ha dato un’interpretazione ed un’applicazione del tutto erronea, supportata da una motivazione meramente apparente e priva di completezza in ordine ai rilievi difensivi.
La sentenza, invero, preso atto che la sede legale della L. era in Lussemburgo, assume che tuttavia tale indicazione fosse meramente fittizia e che, in particolare, la sede amministrativa della società, intesa come luogo “in cui si esplicano la direzione e il controllo” dell’attività sociale, sarebbe stata in Italia. Al riguardo, a fronte di analoga affermazione del Tribunale, si era obiettato nei motivi di appello che la stessa non fosse stata supportata da idonei elementi di fatto e che, soprattutto, invertendo l’onere della prova, i Giudici di prime cure avessero basato la propria convinzione su una (pretesa) mancanza di prova circa l’operatività della L. in Lussemburgo.
Si era lamentato, altresì, che il Tribunale non avesse preso in considerazione una serie di elementi, analiticamente indicati, che nel corso dell’istruzione dibattimentale avevano dimostrato come la sede amministrativa della società (confacente alle attività tipiche di una holding) fosse effettivamente in Lussemburgo.
Orbene, per quanto attiene al primo rilievo (inversione dell’onere della prova), i Giudici di appello, dopo avere riportato in parte qua la sentenza di primo grado, si sarebbero limitati ad asserire, in modo generico ed apodittico, che la Pubblica Accusa avrebbe evidenziato “una serie di elementi di carattere documentale e logico” – nessuno dei quali sarebbe stato indicato o illustrato in sentenza – “che dimostrano l’estero vestizione della L.”.
Per quanto attiene all’ulteriore profilo (omessa considerazione degli elementi di smentita dell’assunto accusatorio), nell’atto di appello si era evidenziato che, come emerso documentalmente e per testi nel corso del giudizio di primo grado:
– L. SA disponeva di un Consiglio di Amministrazione composto da tre membri, due dei quali risiedevano in Lussemburgo (il terzo era il ricorrente stesso);
– tanto le decisioni del Consiglio di Amministrazione quanto ogni impegno di natura patrimoniale richiedevano la concorde volontà (e la sottoscrizione, nel caso dei contratti) di almeno due dei tre amministratori;
– i Consigli di Amministrazione (come risultante anche dai bilanci, acquisiti in giudizio, ove erano registrate, tra l’altro, le spese per le trasferte dell’amministratore NV in Lussemburgo) e le Assemblee si tenevano in Lussemburgo, ove, dunque, tutte le decisioni venivano assunte e formalizzate;
– in Lussemburgo si trovava la contabilità ed avevano sede gli istituti bancari con i quali la società intratteneva rapporti ed ivi si svolgeva il c.d. day by day management (operazioni bancarie, gestione della corrispondenza, contratti con i fornitori, ecc.).
Tali elementi apparivano davvero decisivi al fine di dimostrare che la sede amministrativa della L. fosse a tutti gli effetti in Lussemburgo.
La Corte di Appello, tuttavia, ha ritenuto di poter liquidare le prospettazioni difensive (e le prove addotte a sostegno delle stesse), ripetendo quanto già affermato dal Tribunale, sulla base della deposizione del teste C., della fiduciaria SG, del tutto travisandola.
D’altro canto, i Giudici di merito non sono stati neppure in grado di individuare quale sarebbe stata la sede della società (o di una sua “stabile organizzazione”) in Italia (nelle due sentenze si parla sia di Alcamo che di Milano).
Aggiunge il ricorrente che la sentenza impugnata, al di là dei vizi fin qui denunciati, meriterebbe di essere annullata anche laddove ha totalmente ignorato le assai significative (ed anzi, decisive per il caso in esame) novità legislative di cui al decreto legislativo n. 128 del 2015.
In particolare, con l’articolo 1 di tale decreto è stata per la prima volta introdotta, nell’ambito dello statuto dei diritti del contribuente (cfr. l’articolo 10- bis della legge n. 212 del 2000), una disciplina generale del c.d. “abuso del diritto o elusione fiscale”.
La nuova norma stabilisce, nello specifico, che configurano abuso del diritto, e non sono pertanto opponibili all’amministrazione finanziaria, le operazioni “prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”.
Si tratta, cioè, di operazioni inidonee a produrre “effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”, caratterizzate da una incoerenza delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e dalla non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato.
Nel caso in esame, dal testo delle sentenze di primo e di secondo grado emerge come i Giudici di merito abbiano stigmatizzato le operazioni poste in essere dal NV proprio perché “prive di sostanza economica”.
Il ricorrente ricorda come il predetto articolo 10-bis abbia stabilito espressamente (all’ultimo comma) che, ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative, “Le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili al sensi delle leggi penali tributarie”.
In sostanza, anche ove si volesse ritenere che il ricorrente avesse compiuto un’operazione abusiva, finalizzata esclusivamente ad ottenere indebiti vantaggi fiscali, ciò non integrerebbe comunque alcun reato, alla luce della nuova normativa e dell’interpretazione che di essa ne ha dato la giurisprudenza.
2.1.3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione di legge e la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione, laddove non sono state concesse al NV le circostanze attenuanti generiche e, comunque, con riferimento alla dosimetria della pena principale e delle pene accessorie (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), codice di procedura penale).
Sostiene che nell’appello, inoltre, venivano indicati ulteriori elementi che avrebbero giustificato la concessione delle attenuanti generiche, e segnatamente:
– il contegno processuale, sul rilievo che il ricorrente si era sottoposto ad interrogatorio già in fase di indagini e poi ad esame nel corso del dibattimento;
– le condotte successive ai fatti contestati (rientro dei capitali in Italia);
– la sostanziale buona fede del NV, che aveva seguito i consigli di consulenti legali di primo ordine.
2.1.4. Con il quarto motivo il ricorrente eccepisce la prescrizione del reato, essendo la causa estintiva maturata dopo la pronuncia della sentenza d’appello.
2.1.5. Con il quinto motivo il ricorrente deduce la violazione di legge ed il difetto di motivazione, in relazione agli articoli 5 e 12-bis d.lgs. 74 del 2000, 10 D.P.R. 633 del 1972, laddove è stata confermata la statuizione relativa alla confisca (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), codice di procedura penale).
Osserva che la sentenza impugnata sarebbe irrimediabilmente viziata anche nella parte in cui la Corte d’appello ha confermato la statuizione dei Giudici di prime cure in ordine alla confisca del profitto del reato nei confronti dell’imputato NV, in relazione al reato di cui al capo b), per la somma complessiva di euro 10.877.500,00, indicata come importo dell’imposta evasa.
Tale statuizione sarebbe illegittima sotto diversi profili.
Innanzitutto, come articolato nel primo motivo, i Giudici di merito hanno del tutto erroneamente inserito nel calcolo dell’imposta evasa gli importi asseritamente dovuti a titolo di IRAP (807.500) e di IVA (3.800.000), benché, come anticipato:
– le violazioni relative all’IRAP non fossero penalmente sanzionate;
– la cessione di quote societarie sarebbe esente dall’IVA ex art. 10 D.P.R. 633 del 1972.
Del tutto erronea sarebbe, inoltre, la determinazione della plusvalenza eventualmente tassabile in € 19.000.000,00.
Ed invero:
– in tale importo è compreso il valore di € 6.100.000,00, pari al 10% delle quote che sarebbero state vendute (realizzando una plusvalenza) solo successivamente, e da parte dell’amministratore giudiziario;
– la plusvalenza avrebbe dovuto, al più, essere calcolata previa detrazione delle spese, tra cui l’importo di € 10.000.000,00 immediatamente girato ad altra società.
Inoltre l’impugnata sentenza, con specifico riferimento al punto sulla confisca, costituisce violazione delle norme recentemente introdotte con il d.lgs. n. 158 del 24 settembre 2015.
Riproduttivo (il primo comma dell’articolo 12-bis legge n. 74 del 2000) della disposizione di cui all’articolo 1, comma 143, legge n. 144 del 2007, è invece totalmente innovativo, secondo il ricorrente, il contenuto normativo di cui al secondo comma dell’articolo 12-bis, secondo il quale: “la confisca non opera, per la parte che il contribuente s’impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta”.
La ratio della norma è quella di evitare l’illegittima duplicazione della sanzione economica penale, in termini di fatto analoghi a quanto già previsto all’articolo 19 D.lgs. n. 231 del 2001, che esclude la confisca all’ente “per la parte che può essere restituita al danneggiato”, e coerentemente con la previsione della causa di non punibilità per estinzione del debito tributario prevista dall’articolo 13 D.lgs. 74 del 2000.
La previsione di cui all’articolo 12-bis, comma 2, D.lgs. 74 del 2000 risulta, in effetti, perfettamente lineare e corrispondente all’orientamento giurisprudenziale, intervenuto proprio in materia di confisca, che impone sempre la verifica da parte dell’Autorità Giudiziaria della equivalenza tra le somme confiscate ed il prezzo o profitto da confiscare, dovendosi sempre evitare duplicazioni e/o ingiustificati impoverimenti e correlative locupletazioni derivanti da un abuso dell’istituto de quo.
Trattandosi di norma più favorevole al reo, il capoverso dell’articolo 12-bis è applicabile, ai sensi dell’articolo 2 del codice penale, alla fattispecie oggetto del presente giudizio, quantomeno in termini astratti.
Ciò premesso, osserva il ricorrente come fosse stato processualmente accertato e documentato il versamento da parte del contribuente, tramite l’amministratore giudiziale, che ne aveva il possesso in virtù del disposto sequestro penale, già nel 2011 di un importo di oltre 600 mila euro in favore dell’Erario, per imposte dovute su redditi da capitale, con una aliquota del 12,5% come previsto dal regime fiscale vigente all’epoca dei fatti (segnatamente, su espressa autorizzazione dell’amministratore giudiziario, l’importo di 623.825 euro, equivalente al 12,5% della plusvalenza realizzata, reddito da capitale sequestrate dagli inquirenti sui conti correnti di NH Spa, ed attualmente oggetto di confisca), conseguendo da ciò anche l’annullamento in parte qua dell’impugnata sentenza.
2.2. FE affida l’impugnazione ad un unico complesso motivo, con il quale denuncia l’inosservanza o l’erronea applicazione della norma di cui all’articolo 322-ter del codice penale nonché la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), del codice di procedura penale.
Osserva il ricorrente che il Tribunale lo assolveva dal delitto di riciclaggio ma disponeva la confisca delle somme sequestrate. La Corte d’appello di Milano confermava la sentenza di primo grado, mantenendo la confisca delle somme rinvenute sui conti correnti della G.C. Holding LTD riferibile all’ing. FE, riproponendo le argomentazioni della sentenza del Giudice di prime cure, incorrendo, da un lato, nel vizio di mancanza di motivazione (per non aver, a fronte di specifiche censure della sentenza di primo grado, argomentato in ordine all’inconsistenza o non pertinenza delle stesse, ed in particolare del primo motivo di appello proposto, relativo alla violazione dell’articolo 1 codice penale) e, dall’altro, di contraddittorietà ed illogicità della motivazione e di erronea applicazione dell’articolo 322-ter del codice penale, nella parte in cui, riprendendo le argomentazioni della sentenza di primo grado, veniva confermata la sanzione della confisca per equivalente nei confronti di persona assolta dal reato di riciclaggio, senza che mai fosse stato contestato né provato un suo coinvolgimento nel reato presupposto e senza alcuna dimostrazione che le somme della società G.C. Ltd fossero nella disponibilità di NV.
Infatti, pur al cospetto di corrette premesse, la Corte d’appello non ha tratto le logiche conclusioni, avendo con una motivazione del tutto apodittica affermato come fosse «di tutta evidenza che nella specie a nulla rileva l’intervenuta assoluzione degli appellanti dal reato di riciclaggio loro originariamente ascritto, posto che la confisca di somme di denaro depositate sul c/c di società ad essi riconducibili, poggia sul fatto che, in realtà, tali somme erano nella disponibilità effettiva dell’imputato condannato NV Vito, fungendo gli imputati da interposta persona».
Obietta il ricorrente come tale affermazione si basi su mere congetture e sia contraddittoria nonché illogica, in quanto il sequestro dei conti correnti intestati alla G.C. Holdings Limited era stato effettuato sul presupposto che tali somme costituissero il profitto del reato di riciclaggio e, pertanto, riveste rilievo decisivo l’intervenuta assoluzione del ricorrente per insussistenza del fatto in ordine a tale reato.
Peraltro l’assunto che le somme fossero nella disponibilità di NV sarebbe contraddetta da dati inequivoci che depongono in senso contrario ed in ordine ai quali non risulterebbe confezionata alcuna motivazione:
1) il ricorrente è stato assolto dall’accusa di riciclaggio perché il fatto non sussiste, in quanto, nel momento in cui la società maltese G.C. LTD (a lui riferibile) ha ricevuto le somme in contestazione, nessun reato (presupposto) era ancora stato commesso: tale dato non è irrilevante ai fini della confisca – come erroneamente sostiene la Corte d’Appello – poiché la somma percepita dall’ing. F. non costituiva – e non costituisce – il profitto di alcun reato e, pertanto, non poteva – e non può – essere oggetto di confisca per equivalente. In altri termini, la sentenza sarebbe illogica e contraddittoria laddove ha assolto l’Ing. F. dal reato di riciclaggio e allo stesso tempo ha ritenuto che lo stesso non fosse terzo in buona fede e, dunque, fosse applicabile nei suoi confronti la sanzione della confisca per equivalente sul presupposto non della sentenza (di assoluzione) emessa nei suoi confronti, ma della sentenza (di condanna) emessa nei confronti del solo NV per il reato fiscale (nel quale la truffa è stata ritenuta assorbita). Quindi, la sentenza di assoluzione nei confronti dell’Ing. F. per il reato di riciclaggio – divenuta irrevocabile – ha escluso che le somme in sequestro fossero provento di delitto e, pertanto, le stesse non potevano essere confiscate; altrimenti verrebbero aggirati i principi espressi dalla Corte Suprema di cassazione, nonché dalla Corte Costituzionale e dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, laddove statuiscono che contrasta con il principio di legalità l’applicazione della confisca, come sanzione penale, nel caso in cui l’infrazione penale sia estinta e, a fortiori, nel caso in cui l’imputato sia stato assolto;
2) ciò sarebbe ancor più vero, considerando che non solo il ricorrente è stato assolto dal reato di riciclaggio, ma lo stesso non è mai è stato imputato in concorso nel reato di truffa con NV o con persone ritenute con quest’ultimo in correità;
3) vi sarebbe inoltre un dato di fatto inequivoco che dimostrerebbe che le somme presenti sul conto corrente della G.C. LTD fossero nell’effettiva disponibilità del ricorrente: la circostanza cioè che egli abbia aderito allo scudo fiscale di cui al D.L. n. 78 del 2009, dando personalmente mandato a G.F. S.p.A. per il rientro in Italia della somma di € 1.700.000,00, pagando la relativa imposta sostitutiva nella misura del 4% dell’importo da regolarizzare.
2.3. AS e GS affidano il gravame a due ricorsi, uno per avv. Bonsignore, e l’altro per avv. Faiella, entrambi articolati su un unico complesso motivo.
2.3.1. Con il primo dei ricorsi, i ricorrenti deducono la violazione di legge e la mancanza della motivazione in relazione alla confisca disposta sulle somme di euro 299,01 riferite al rapporto intestato a “S.H. Limited” n.400017321381 e di euro 408.659,44 riferite al rapporto intestato a “SA Limited” n. 400017321240 (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), codice di procedura penale in relazione all’articolo 322-ter codice penale).
Assumono di essere stati entrambi definitivamente assolti con formula assolutoria piena, “perché il fatto non sussiste”, dal reato di riciclaggio originariamente contestato.
Ciò nonostante, è stata disposta la “confisca per equivalente” sui conti correnti accesi sulle società SA, poiché tali società, secondo la ricostruzione accusatoria, sarebbero state utilizzate dai ricorrenti per fare rientrare in Italia capitali illeciti, oggetto di evasione fiscale commessa dal NV.
Dal tenore della contestazione appare, pertanto, chiaro come il primo ed ineludibile compito dei giudici di merito ed, in particolare, della sentenza impugnata, fosse quello di individuare i presupposti legittimanti la applicabilità della confisca per equivalente per reati tributari nei confronti di persona giuridica totalmente estranea al reato.
Orbene, la sentenza di primo grado, nonostante abbia assolto entrambi i ricorrenti dal reato contestato, non ha affrontato in alcun modo il tema dell’individuazione dei suddetti presupposti, limitandosi a disporre la suddetta confisca per equivalente sull’assunto – totalmente erroneo ed inconferente ai fini che qui rilevano – che tali somme fossero nella disponibilità dell’autore del reato di evasione fiscale, vale a dire il NV.
A tale onere motivazionale, nonostante i motivi di impugnazione proposti, non ha adempiuto neppure la sentenza d’appello che si sarebbe dovuta pronunciare sulla questione dell’autonomia della società destinataria della confisca per equivalente rispetto all’autore del reato tributario nonché sulla circostanza che le società erano del tutto diverse dalla società debitrice dell’imposta evasa e che si era avvantaggiata del profitto illecito derivante dalla commissione di tale reato da parte del NV, il quale per tale reato era stato condannato.
Invece la Corte d’appello, condividendo l’approdo cui era giunto il primo giudice, ha ritenuto non scalfite dalle considerazioni svolte dai ricorrenti, le valutazioni che avevano indotto il Tribunale a ritenere la sussistenza della interposizione fittizia da parte delle società destinatarie, formalmente riconducibili agli imputati S. e F., dell’importo ricevuto da E..
Orbene, quanto alla questione dell’interposizione fittizia, i ricorrenti innanzitutto obiettano che la confisca così disposta sia del tutto illegittima, poiché il sequestro preventivo originariamente era stato disposto sull’assunto della pretesa commissione da parte dei ricorrenti del reato di riciclaggio contestato.
In altri termini, la Corte d’appello ha ritenuto di poter confermare la misura ablatoria, modificando totalmente l’originaria domanda di sequestro e, dunque l’ipotesi accusatoria che tale domanda aveva giustificato; vale a dire sul presupposto del preteso rapporto di interposizione fittizia dei ricorrenti con il NV, tale da far ritenere che le somme transitate sui c/c intestati alle società SA fossero nella disponibilità reale del NV stesso.
Tale percorso argomentativo non può certamente considerarsi irrilevante nel caso di specie perché, avendo modificato solo nel giudizio di appello il suddetto presupposto, ha certamente privato la difesa dei gradi di merito.
Invero, la difesa dei ricorrenti era diretta a dimostrare l’insussistenza del reato di riciclaggio – contestato sull’assunto del preteso utilizzo delle società SA per far rientrare in Italia i pretesi profitti illeciti derivanti dal reato fiscale commesso dal NV – e, dunque, la giustificazione lecita della ricezione di tali somme da parte dei ricorrenti. Sotto tale profilo la sentenza impugnata deve essere annullata, poiché deve ritenersi inammissibile la mutatio libelli mediante la totale modifica della causa petendi della richiesta confisca formulata per la prima volta in appello, su presupposti mai contestati ai ricorrenti.
Inoltre, la sentenza impugnata ritiene accertata la pretesa disponibilità delle somme in capo al NV, sulla base di una valutazione apodittica delle fonti dichiarative nonché del tutto erronea, per avere obliterato totalmente le considerazioni che i ricorrenti avevano svolto nel giudizio d’appello, nel corso del quale era stata ampiamente dimostrata, attraverso numerose prove testimoniali, la causale lecita di tali pagamenti, spettanti ad AS S. per avere messo in contatto BG e NV nonché per l’attività di consulenza svolta in qualità di imprenditore esperto nel settore delle energie rinnovabili, nonché le ragioni giustificative del versamento del compenso alla società estera riconducibile a GS.
Quanto poi alla disposta confisca per equivalente nei confronti di persona giuridica estranea al reato, osservano i ricorrenti come la sentenza impugnata debba essere annullata, poiché non contiene alcun tentativo di valutazione delle tesi difensive in ordine alla illegittimità della confisca per equivalente disposta nei confronti delle società SA.
Non sarebbe stata cioè considerata, incorrendo pertanto la sentenza impugnata nei vizi di violazione di legge e di difetto di motivazione denunciati, l’eccezione difensiva secondo la quale, nel caso di specie, la confisca fosse assolutamente illegittima, poiché disposta nei confronti di persona giuridica totalmente estranea al reato.
Invero, i ricorrenti erano stati assolti dal reato di riciclaggio contestato, le società SA erano totalmente autonome rispetto all’autore del reato fiscale, vale a dire il NV, esse non erano le società debitrici dell’imposta evasa né tantomeno si erano avvantaggiate del profitto illecito derivante dalla commissione dei reati fiscali da parte del NV che per tali condotte è stato condannato.
2.3.2. Con il secondo dei ricorsi, gli imputati lamentano la violazione di legge ed il difetto di motivazione (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), codice di procedura penale) con riferimento all’articolo 5 d.lgs. n. 74 del 2000 e all’articolo 322-ter del codice penale; la violazione di legge per mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato; violazione del diritto di difesa (articolo 24 cost.); la violazione principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, con riferimento all’applicazione della confisca.
Assumono che, nel caso in esame, non è possibile affermare e sostenere validamente che la somma giunta nella disponibilità dei ricorrenti sia profitto del reato asseritamente commesso da L. s.a. che si è consumato in data successiva (31 dicembre 2008) rispetto al bonifico da parte di E. a SA Ltd (4 luglio 2008).
Nel caso di specie, infatti, il pagamento eseguito in favore dei ricorrenti non è stato posto in essere da L. s.a. ma da E. a SA ltd.
Da ciò i ricorrenti traggono argomento per ritenere la chiara evidenza dell’impossibilità di identificazione del profitto illecito, riscontrabile già a monte del primo passaggio (L. s.a. — E. ltd.) per la inidoneità individualizzante del reato presupposto rispetto alla utilitas prodotta, posto che a pagare non era stato l’asserito responsabile del reato presupposto (L. s.a.), ma, appunto, E. ltd.
Quest’ultima cioè non può aver pagato con la stessa utilitas tratta dal primo illecito posto in essere in capo a L. s.a., atteso che, ricorrendo indeterminatezza e indeterminabilità già nella fase del primo passaggio (cioè da L. s.a. a E. ltd), ricorrerebbe, a maggior ragione, alta probabilità di lecita provenienza nel passaggio successivo (cioè da E. ltd a SA ltd).
La data dell’asserito provento illecito coinciderebbe allora con la mancata presentazione della dichiarazione dei redditi da parte di L. s.a., ossia il 31 dicembre 2008, data entro cui sarebbe stato possibile regolarizzare il tutto. Dunque, a quella data, non si poteva ancora parlare di profitto illecito, posto che si tratta di compravendite condotte entro la data del 31 dicembre 2008 nella piena legalità fiscale.
Infatti, non è assolutamente possibile sostenere che il denaro, inteso in senso materiale, ricevuto da SA Ltd da parte di E. sia con certezza lo stesso denaro di L. e, anche se ipoteticamente lo fosse stato, non si potrebbe definire provento di “profitto illecito” in quanto alla data del bonifico (4 luglio 2008) alcun reato era stato commesso.
La confisca è stata poi disposta sulla base di una causa petendi diversa da quella originariamente contestata con conseguente violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e violazione del diritto di difesa.
Il provvedimento ablativo infine è stato illegittimamente emanato nei confronti di soggetti terzi ed in buona fede, atteso che peraltro la ragione giustificativa della rimessa fondava sul diritto alla provvigione scaturente da un regolare contratto di mediazione stipulato tra le parti.
2.4. AS e GS hanno presentato tempestivi motivi nuovi (in data 18 marzo e in data 6 aprile 2018) e successiva memoria munita di allegati (in data 6 aprile 2018) con cui, ribadendo le precedenti doglianze e ricordando gli approdi della giurisprudenza nazionale e convenzionale, hanno fatto leva sulla sentenza Taricco della Corte di Giustizia ed hanno inoltre eccepito la prescrizione del reato presupposto della confisca, con la conseguenza che, trattandosi nella specie di confisca di valore, non era possibile, in caso di dichiarata prescrizione del reato, disporre tale tipologia di confisca per equivalente, la quale per la sua natura sanzionatoria richiede, perché possa essere legittimamente disposta, la sentenza di condanna per il reato che la presuppone.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono parzialmente fondati e, nel resto, sono privi di fondamento sulla base delle considerazioni che seguono.
2. Con accertamento di fatto, adeguatamente e logicamente motivato, insuscettibile pertanto di essere sindacato in sede di scrutinio di legittimità, i Giudici del merito hanno, in maniera del tutto conforme, ritenuto integrata la fattispecie di cui all’articolo 5 d.lgs. n. 74 del 2000 in conseguenza della cessione del capitale sociale della W. s.r.I., società che operava nel settore della progettazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, costituita nel 2002 e titolare di concessioni nella Regione siciliana per la costruzione e gestione di un parco eolico nei comuni di Salemi e di Trapani.
2.1. Dal testo dell’impugnata sentenza, si apprende che la vicenda si è sviluppata attraverso le seguenti fasi:
a) in data 28 dicembre 2007 alle ore 14.30 i soci di W. (F., BB, cioè R. e LB, quest’ultimo poi deceduto) dinanzi al notaio GG in Roma vendettero il 100% delle quote di W. a L. Sa (società lussemburghese costituita il 20 giugno 2006 attraverso la fiduciaria SG della famiglia NV) al prezzo di 33.263.195,74;
b) nella medesima data e presso lo stesso notaio GG, alle ore 15,00 L. SA vendette il 90% delle quote W. s.r.l. a EI spa (che in data 26 febbraio 2009 aveva mutato la propria denominazione in GDF Suez Energia Italia spa) al prezzo di 46.163.195,74 euro, realizzando quindi una plusvalenza di 12.900,00 euro. In questo secondo atto EI (i cui soci erano la EI SA con sede in Belgio e la EI Investment Luxemburg SA con sede in Belgio) si impegnò ad acquistare il restante 10% al prezzo di sei milioni di euro all’esito della verifica in ordine al rilascio delle concessioni che la W. era in attesa ancora di ricevere e all’esito dell’effettiva realizzazione dell’impianto (il diritto di opzione in capo a EI doveva essere attivato nei 18 mesi successivi); il prezzo di vendita fu pagato da EI direttamente agli originari soci venditori di W. (BB, F. e R.) per l’importo da questi richiesto come prezzo nel primo contratto con L., mentre l’importo pari al differenziale di 12.900,00 fu corrisposto da EI s.r.l. a L. SA;
c) precedentemente, in data 15 novembre 2007, L. SA si era impegnata, con un preliminare di vendita, a cedere a ER Ltd (società maltese riconducibile a BG) le stesse quote di W. poi cedute a EI spa il mese successivo; in tale atto si stabilì, per l’ipotesi della mancata vendita, che L. SA avrebbe dovuto corrispondere a ER una penale dell’importo di 10 milioni di euro; in adempimento agli accordi assunti tra le parti in tale atto, stante la vendita delle quote a EI spa, L. SA corrispose il 4 gennaio 2008 a ER l’importo di euro 8 milioni; in epoca di poco successiva si registrò il bonifico dei restanti 2 milioni.
Secondo l’ipotesi accusatoria, NV, (titolare, unitamente ai componenti della sua famiglia, di numerosissime società aventi ad oggetto lo sviluppo dell’energia di fonti alternative, colpito da decreto del Tribunale Misure di Prevenzione di Trapani in quanto ritenuto vicino alla mafia trapanese), formalmente consulente della W. ma di fatto dominus di tutta la vicenda, grazie all’interposizione della L., non dichiarò in Italia, pur dovendolo fare essendo la società solo formalmente lussemburghese, la plusvalenza di euro 12.900.000,00 realizzata attraverso i due distinti e successivi atti, di acquisto prima e di cessione poi delle quote W..
Sulla base di ciò era stata elevata l’imputazione di cui all’articolo 5 d.lgs. n. 74 del 2000 per il NV.
Con riferimento alla predetta operazione societaria, si era anche ipotizzato il delitto di truffa aggravata, ritenuto poi assorbito dal reato fiscale, e quello di riciclaggio, successivamente escluso, a carico, per quanto qui interessa, di FE, AS e GS in relazione alla somma di 10.000.000 versata da L. a ER e da quest’ultima girata a società di comodo, con causali ritenute finte, riferibili agli imputati (in particolare, GC ltd riferibile a FE e SA riferibile ad AS e GS.
2.2. In considerazione di ciò, il Tribunale ritenne integrati gli elementi costitutivi del delitto di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi da parte di NV, sul rilievo che, analizzati i criteri elaborati dalla giurisprudenza con riferimento alla definizione del fenomeno dell’estero- vestizione, stimò che L. SA fosse una società solo fittiziamente avente sede all’estero e che la stessa fosse, nella sostanza, diretta, gestita ed organizzata in Italia da NV nonché caratterizzata da un oggetto sociale ed una concreta attività il cui perseguimento era realizzato totalmente sul territorio nazionale.
Nelle trattative con W., la comparsa di L. SA, nella fase terminale della contrattazione, fu pertanto inquadrata nello schema dell’interposizione volta al mero fine di far conseguire a NV, vero ed unico dominus della L., una rilevante parte del prezzo di vendita.
Ad avviso del Tribunale alcun regime di specialità intercorreva tra la fattispecie di truffa aggravata ai danni dello Stato e quella di violazione dell’articolo 5 d.lgs. n.74 del 2000.
In definitiva, il Tribunale ricostruì l’articolata e complessa attività realizzata dagli attori della transazione nel senso che la stessa consistette: a) nell’avere ideato e programmato l’operazione di cessione delle quote W. s.r.l. attraverso la predisposizione di una doppia (ed altrimenti inutile) sequenza contrattuale; b) nell’avere così “spezzato” non solo il pacchetto di quote cedute ma anche il prezzo di cessione, cesura che consentì di far transitare parte del prezzo di cessione all’estero, nelle casse di una società che, proprio perché formalmente residente all’estero, in un paese a fiscalità privilegiata e comunque sottoposto a controlli meno invasivi, non sarebbe stata oggetto di segnalazione (ed infatti la segnalazione pervenne a Banca Italia da Malta e non dal Lussemburgo); c) nell’avere, dunque) completamente sottratto ad imposizione parte della quota di prezzo di cessione (la tassazione non avvenne neppure in Lussemburgo con riguardo a tale operazione); d) nell’avere previsto una penale del tutto fittizia in favore di E. Ltd (società creata nel novembre 2007 al mero scopo di ricevere detta penale e senza che si fosse mai interessata in precedenza all’operazione W. s.r.I.) al fine di far transitare la consistente somma di euro 10.000.000,00 corrispondente a parte rilevante del denaro liquido versato da EI spa a L. SA verso la società maltese in tempi rapidissimi e da tale società in rapida sequenza ancora verso persone giuridiche gestite da soggetti che non agivano autonomamente ma di fatto per conto di NV, all’ulteriore ed evidente fine di far perdere traccia della destinazione del denaro.
La E. era stata creata, dunque, nel novembre 2007 ed in totale assenza di ulteriori attività diverse da quella di ricevere la “penale” da L. SA; quanto alle altre società, del pari costituite in concomitanza all’affare W., nessuna di esse era stata protagonista di vicende commerciali collegate alla gestione e/o allo sfruttamento dell’energia eolica risultando provato che l’unica operazione che le vedeva coinvolte era la ricezione di somme di denaro da parte di E. che così suddivideva il consistente importo ricevuto al fine di rendere più difficoltoso l’accertamento della sorte delle somme stesse.
2.3. Perciò, secondo l’accertamento di fatto contenuto nella sentenza di primo grado, gli imputati avevano sinergicamente preso parte all’operazione secondo convergenti scopi attraverso i quali si sarebbero assicurarti i rispettivi profitti e ciascuno sulla base delle proprie competenze: NV, in qualità di amministratore di fatto di L. SA e di primo beneficiario delle somme Ae– costituenti profitto dell’operazione, aveva offerto lo spunto per la costituzione di L. SA e, per quanto attiene all’operazione W. s.r.I., aveva reso necessario il suo coinvolgimento.
Essendo egli il soggetto di riferimento di L. SA ed il diretto beneficiario delle somme costituenti il profitto dell’operazione, era senza dubbio consapevole dell’effetto di evasione fiscale che l’operazione avrebbe determinato e della particolare artificiosità richiesta al fine di evitare che l’amministrazione finanziaria si rendesse conto della imponibilità dei proventi della cessione, cosicché l’interposizione di L. rendeva evidente come fosse chiara la finalità (diretta all’evasione fiscale) del suo utilizzo.
2.4. Per queste ragioni, il Tribunale aveva anche disposto la confisca ex 44- lege del profitto del reato ex articolo 322-ter del codice penale nei confronti di NV con riferimento al reato di omessa presentazione della dichiarazione, individuandosi l’importo del profitto in euro 10.877.500,00 e cioè in una somma pari all’importo all’importo dell’imposta evasa così come calcolata dai testi del pubblico ministero.
Era stata confiscata anche la somma pari ad euro 5.635.785,69 depositata sul conto corrente intestato a NH spa sul rilievo che si trattasse di denaro nella diretta disponibilità dell’imputato NV, cui era pienamente riferibile NH s.p.a.
Inoltre, poiché l’importo così confiscato non copriva interamente il risparmio di imposta guadagnato da L. SA in relazione alla vicenda W. s.r.I., venivano sottoposte a confisca anche le altre somme che l’UIF maltese era riuscita a rinvenire e sequestrare a seguito dei bonifici effettuati da E. Ltd, affermandosi che appartenevano a NV anche tutte le somme transitate da L. SA ad E. Ltd e da questa ai successivi beneficiari, in assenza di titoli che legittimassero pagamenti di sorta e risultando la documentazione prodotta dalle difese, per giustificare la ricezione di denaro da parte dei legali rappresentanti delle società, del tutto inidonea a dimostrare l’effettività delle prestazioni.
Sul punto, il Tribunale aveva ritenuto significative le dichiarazioni rese da FE nel corso dell’interrogatorio dinnanzi alla PG delegata dal PM in data 8 marzo 2012 a seguito della contestazione in ordine a conversazione telefonica intercettata in data 31 marzo 2010. In tale conversazione egli diceva con riguardo alle somme accreditate su G.C. “poi tutte quelle cifre esposte lì … hai capito … sono spaventose… Come se… se io le avessi prese… Però non… però sono spaventose”.
Da tale conversazione, il Tribunale aveva tratto logico argomento per ritenere che FE non solo non fosse consapevole dell’entità delle somme che si era prestato a ricevere sul conto della G.C. ma anche come lo stesso non potesse realmente disporne, risultando,a1 pari degli altriimero intermediario nelle operazioni di trasferimento di esse interamente riconducibili a NV.
2.5. Dopo aver rigettato le eccezioni processuali, ivi compresa quella relativa alla dedotta incompetenza per territorio, e aver escluso il concorso di reati tra delitto fiscale e quello di truffa aggravata, ritenendo tale ultimo delitto assorbito dal primo, la Corte di appello ha pienamente condiviso le conclusioni del Tribunale, trovandole aderenti alle risultanze dibattimentali, circa il fatto che, nel caso in esame, si fosse al cospetto di una ipotesi di estero-vestizione.
Nella specie, i Giudici del merito hanno ritenuto che L. SA fosse società con sede solo fittiziamente radicata in Lussemburgo ma, per direttive gestionali, la concreta attività, diretta al perseguimento del fine sociale, era svolta a pieno titolo nel territorio nazionale ove aveva sempre operato NV, che era dunque soggetto all’imposizione fiscale italiana.
In particolare, gli elementi di fatto sulla cui base i Giudici del merito hanno maturato, con logica ed adeguata motivazione, il predetto convincimento, sono costituiti dalla circostanza che:
• il bilancio non evidenziava spese per il mantenimento di uffici o personale dipendente in Lussemburgo, non vi erano spese evidenti per l’utilizzo di spazi, mezzi e personale idonei allo svolgimento di una effettiva attività imprenditoriale all’estero (nulla era stato acquisito, neppure a cura delle difese che sul punto si erano limitate a prendere atto di quanto osservato dal Pubblico Ministero);
• le scelte relative all’attività di gestione della società, come riferito dal teste C. (di SG), pervenivano a mezzo istruzioni specifiche dei fiducianti e, dunque, dalla famiglia NV, a mezzo lettera scritta che veniva inoltrata al legale rappresentante Nicolay, il quale si atteneva a tali istruzioni;
• dalla lettura degli scarni verbali del consiglio di amministrazione, emergeva che in tali sedi non venissero adottate decisioni rilevanti per la società, essendo del tutto assente qualsiasi tipo di discussione e limitandosi i presenti ad una mera presa d’atto delle indicazioni offerte da Nicolay;
• le limitate attività sociali, peraltro, ben emergenti dai bilanci acquisiti, si erano risolte in poche operazioni di compravendita di quote societarie nell’ambito del settore delle energie alternative, nella specie eolico; nell’anno 2008 venne perfezionata la sola cessione W. s.r.I.; l’indagine in ordine al soggetto che operava per conto di L. SA era dunque di semplice realizzazione; chi aveva sempre operato per L. SA era NV;
• proprio l’assoluto coinvolgimento di quest’ultimo nella vita decisionale ed operativa di L. SA rendeva evidente come il luogo dal quale effettivamente provenivano gli impulsi volitivi inerenti l’attività societaria, cioè il luogo in cui si esplicavano la direzione e il controllo di detta attività, fosse l’Italia, e come in Italia, nella specie Alcamo e Milano, avessero avuto concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si fossero sostanzialmente convocate le assemblee;
• il ruolo svolto nell’operazione W. da NV era stato determinate, sia sotto il profilo del collegamento con il territorio siciliano, sia sotto il profilo del \S C suo coinvolgimento nell’impresa che avrebbe poi realizzato il parco eolico, sia sotto il profilo del ruolo di interlocutore privilegiato tra la proprietà di W. s.r.l. e EI;
• il NV era figura di riferimento in assenza della quale l’operazione di cessione non si sarebbe potuta realizzare, quantomeno nei termini voluti da EI spa.
2.6. Sulla base di tali decisive acquisizioni, i Giudici del merito hanno ritenuto in definitiva accertato che L. SA fosse società estero-vestita, di fatto operante attraverso NV suo amministratore di fatto in Italia, ove pur avendo percepito utili per 19 milioni di euro non li aveva dichiarati, omettendo di presentare la relativa dichiarazione dei redditi ed IVA ed accumulando un debito fiscale per un ammontare ampiamente superiore alla soglia di punibilità prevista dalla legge.
Tale circostanza rendeva sostanzialmente indifferente, ai fini della responsabilità penale, la ricostruzione dell’imponibile quale plusvalenza o mediazione, a fronte dell’assenza di un pagamento di imposta anche in Lussemburgo ed alla luce della accertata estero vestizione di L. SA.
Alla luce delle considerazioni che precedono, alcun dubbio i Giudici del fatto hanno nutrito in merito alla sussistenza dell’elemento soggettivo in capo a NV, una volta ricordato che in materia di reati tributari, il dolo specifico di evasione risulta integrato dalla deliberata ed esclusiva intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte nella piena consapevolezza della illiceità del fine e del mezzo.
Escluso che l’operazione, per come strutturata, avesse una logica imprenditoriale legittima e reale (non era stato provato – ed era agevole farlo, anche per via documentale – il pagamento delle imposte in Lussemburgo, emergendo per altro come la vicenda fosse venuta alla luce non già per la segnalazione delle autorità di quel paese, ma su segnalazione di quelle maltesi, a seguito dell’accertato collegamento di L. con E.), la predisposizione di una situazione societaria apparentemente diversa dalla reale rendeva evidente il fatto che l’imputato avesse consapevolmente preordinato l’omessa dichiarazione di cui all’imputazione.
Alla luce di tali considerazioni, è stata ritenuta provata la deliberata ed esclusiva intenzione di NV di sottrarsi al pagamento delle imposte nella piena consapevolezza dell’illiceità del fine e del mezzo adottato, cosa ben diversa dalla generica volontà consapevole di avvalersi degli strumenti negoziali previsti dalla legge per ottenere vantaggi fiscali non dovuti.
2.7. Sulle somme confiscate, la Corte di appello ha ragionato mettendo in campo i seguenti principi di diritto.
Ai fini della confisca di cui all’articolo 322-ter del codice penale non solo non occorre provare il nesso di pertinenzialità della res rispetto al reato ma neppure è necessario che i beni siano nella titolarità del soggetto indagato o condannato, essendo necessario e sufficiente che egli abbia un potere di fatto sui beni medesimi (e, quindi, la disponibilità degli stessi) che può essere esercitato direttamente o a mezzo di altri soggetti, che a loro volta, possono detenere la cosa nel proprio interesse (detenzione qualificata) o nell’interesse altrui (detenzione non qualificata).
Viene, cioè, in rilievo e legittima il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente l’interposizione fittizia, vale a dire quella situazione in cui il bene, pur formalmente intestato a terzi, sia nella disponibilità effettiva dell’indagato o condannato.
È necessario, perciò, che venga dimostrata la disponibilità, secondo la nozione sopra delineata, del bene da parte dell’indagato e che quindi vi sia discrasia con la intestazione formale.
Spetta certamente al giudice esplicitare le ragioni della ritenuta interposizione fittizia, utilizzando allo scopo non solo circostanze sintomatiche di mero spessore indiziario, ma elementi fattuali, dotati dei crismi della gravità, precisione e concordanza, idonei a sostenere, anche in chiave indiretta, l’assunto accusatorio.
La prova ben può fondarsi anche su presunzioni che possono essere le più svariate; infatti, se il meccanismo utilizzato è stato quello simulatorio (interposizione fittizia o reale), l’onere probatorio non può che consistere nella prova che l’indagato/imputato sia il reale possessore del bene e che il terzo non sia altro che la classica “testa di legno”.
Ciò premesso, esclusa qualsiasi rilevanza all’intervenuta sentenza di assoluzione dal reato di riciclaggio, la confisca di somme di denaro depositate su c/c di società, riconducibili alle persone degli imputati, poggia, ad avviso della Corte di appello, sul fatto che, in realtà, tali somme erano nella disponibilità effettiva dell’imputato NV, fungendo gli imputati da interposta persona.
Sulla base di ciò, i Giudici del merito hanno ritenuto la sussistenza della interposizione fittizia da parte delle società destinatarie, formalmente riconducibili agli imputati S. e F., dell’importo ricevuto da E., atteso che quest’ultima aveva effettuato una serie di trasferimenti di denaro una volta ricevuta la provvista di 10 milioni di euro (il 4 gennaio 2008 la L. aveva trasferito alla E. 8 milioni di euro, cui poi seguivano i restanti 2 milioni di euro in data 29 luglio 2008), formalmente giustificata dal mancato rispetto del preliminare di vendita.
Tali trasferimenti sono stati analizzati sia dalla Guardia di Finanza che dal consulente tecnico del PM ed alcuni di questi trasferimenti sono risultati mere partite di giro.
3. Passando ora all’esame dei motivi di ricorso proposti da NV, è fondata, per quanto di ragione, l’eccezione di prescrizione, sollevata con il quarto motivo di impugnazione, sul presupposto della non manifesta infondatezza delle restanti doglianze le quali hanno pertanto consentito la formazione di un valido rapporto giuridico processuale.
Ciò impone alla Corte di cassazione la declaratoria, ex articolo 129 del codice di procedura penale, della causa estintiva del reato (prescrizione) maturata, come nel caso in esame, dopo l’emanazione della sentenza impugnata, in mancanza di concorrenti cause di proscioglimento nel merito di immediata evidenza.
Occorre tuttavia scrutinare le singole censure perché, non incidendo, come sarà più chiaro in seguito, la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, sulle statuizioni relative alla confisca, è necessario accertare che sia stato raggiunto, in ordine al reato configurato, un completo e pieno accertamento della responsabilità dell’imputato dal punto di vista oggettivo e soggettivo.
Al riguardo va comunque osservato che l’eccezione di incompetenza per territorio (primo motivo del ricorso NV), tempestivamente sollevata nei gradi di merito, non può ritenersi preclusa per la presenza di una causa di estinzione del reato, quando, per altri capi della sentenza, va disposto, come nel caso di specie, l’annullamento con rinvio al giudice del merito, la cui investitura presuppone la valida costituzione del rapporto processuale, che richiede il rispetto delle regole sulla competenza.
Ricorrendo una tale evenienza, il principio di diritto secondo il quale non sono rilevabili in sede di legittimità vizi produttivi di nullità, anche di ordine generale, della sentenza impugnata, in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244275), subisce un temperamento quando la sentenza di merito – ipoteticamente affetta da nullità per incompetenza del giudice che l’ha emessa e la cui declaratoria non sia preclusa nel giudizio di legittimità – abbia deciso non solo in ordine al reato per cui è intervenuta la prescrizione, ma anche in ordine al risarcimento dei danni da esso cagionati o alle restituzioni (Sez. 2, n. 3221 del 07/01/2014, Macchia, Rv. 258817) o, come nel caso di specie, sulla confisca, giacché in tal caso la nullità, ove sussistente, deve essere comunque rilevata e dichiarata perché, influendo sulla valida instaurazione del rapporto processuale, si riflette sulla validità di quelle statuizioni che la regolare costituzione dell’indicato rapporto presuppongono.
In altri termini, se l’eccezione di incompetenza per territorio fosse fondata, l’intervenuta prescrizione avrebbe dovuto determinare, nel caso in esame, l’annullamento senza rinvio tout court della sentenza impugnata, non essendo possibile alcuna investitura del giudice incompetente su temi residui e neppure ripetere il giudizio secondo le regolari scansioni processuali, tra cui il rispetto delle regole sulla competenza.
3.1. Tanto premesso, il primo motivo non è fondato.
Con esso il ricorrente ha sollevato l’eccezione di incompetenza territoriale del Tribunale di Milano, in favore di quello di Roma, ovvero in subordine di quello di Marsala, sul rilievo:
1) della ritenuta sussistenza del vincolo di connessione teleologica, ai sensi dell’articolo 12, comma 1, lettera c), del codice di procedura penale, dei reati di omessa dichiarazione e truffa aggravata con quello di riciclaggio (delitto, quest’ultimo, più grave e di competenza di diversa Autorità Giudiziaria);
2) della competenza, comunque, di altra Autorità Giudiziaria per il reato di truffa aggravata, cui al capo a) della rubrica.
I Giudici del merito, nel respingere l’eccezione di incompetenza, hanno ritenuto l’insussistenza di un nesso, rilevante ex articolo 12, comma 1, lettera c), del codice di procedura penale tra i delitti contestati al ricorrente (capi a e b) e quello di riciclaggio (capo c).
Al riguardo, la sentenza impugnata ha affermato che il reato di riciclaggio è costituito da una condotta che consente al colpevole o ad altri di conseguire o assicurare il profitto del reato presupposto, con la conseguenza che tra il reato di truffa e quello di riciclaggio sussiste tutt’al più un caso di connessione consequenziale, la cui rilevanza, ai fini delle regole sulla competenza, è stata espressamente esclusa dall’articolo 1, comma 1, della legge 1 marzo 2001, n. 63, che ha modificato in senso restrittivo l’articolo 12 lettera c) del codice di procedura penale, escludendo dai casi di connessione, previsti in precedenza, sia l’ipotesi di connessione occasionale che consequenziale (cioè, appunto, quella volta a mettere in relazione reati eseguiti per poter conseguire prodotto, prezzo o profitto di altri o per assicurarsi l’impunità).
Il ricorrente obietta sostenendo che, al di là del rapporto astratto tra le fattispecie, la sussistenza del nesso doveva essere verificata in concreto, sulla base delle contestazioni formulate, tenendo quindi presente che, nella prospettazione accusatoria, alcun riferimento era stato operato al nesso di consequenzialità, laddove invece le operazioni finanziarie, che avrebbero integrato il reato di riciclaggio, erano state poste in essere proprio al fine di ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del “fondo nero” costituito tramite i reati di cui ai capi a) e b) della rubrica e cioè, in altri termini, al fine di occultare i predetti reati.
Sotto l’ulteriore e secondo profilo, il ricorrente obietta che, anche senza considerare la connessione tra i reati ascrittigli e quello di riciclaggio, stante l’indubbia connessione tra i reati di cui ai capi a) e b) della rubrica, la competenza avrebbe dovuto essere determinata facendo riferimento al più grave dei due reati, e cioè quello di truffa aggravata, che avrebbe radicato la competenza in Roma.
Le critiche rivolte alla sentenza impugnata non hanno giuridico fondamento.
3.1.1. Pur irrilevante la mancanza di identità soggettiva degli autori dei reati sub iudice, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno affermato che, ai fini della configurabilità della connessione teleologica prevista l’articolo 12, lettera c), del codice di procedura penale e della sua idoneità a determinare uno spostamento della competenza per territorio, resta tuttavia ferma la necessità di accertare che l’autore di quest’ultimo abbia avuto presente l’oggettiva finalizzazione della sua condotta alla commissione o all’occultamento di un altro reato (Sez. U, n. 53390 del 26/10/2017, Patroni Griffi, Rv. 271223), cosicché, come ha sottolineato il Procuratore Generale nella sua requisitoria, con argomentazioni che il Collegio condivide, non sussiste nel caso di specie la condizione della oggettiva finalizzazione della condotta del riciclaggio all’occultamento del reato di truffa.
Lo stesso ricorrente, richiamandosi al contenuto dell’imputazione, ammette che, ai soggetti imputati di riciclaggio, era, infatti, contestato di aver agito in modo da ostacolare l’identificazione del denaro profitto del reato di truffa e/o di omessa dichiarazione e non di occultare tale reato.
Va allora data continuità alla lezione interpretativa impartita dalla giurisprudenza di legittimità quando, sin dall’entrata in vigore del codice di rito, ha affermato che il nuovo codice di procedura penale, nel ridurre le ipotesi di connessione, ha richiamato – nell’articolo 12, lettera c), – il caso in cui una persona sia imputata di più reati quando gli uni sono stati commessi per eseguire od occultare gli altri, ma non ha più riprodotto le ulteriori ipotesi che, col precedente codice (articolo 45 n. 2 cod. proc. pen. 1930), facevano ravvisare la connessione allorquando un reato era stato commesso in occasione di altri ovvero per conseguire od assicurare al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità. Ciò sta a significare che queste ultime ipotesi, non più ripetute dal legislatore, non sono utili ad istituire la connessione di procedimenti, essendo adesso limitata ai casi previsti dall’articolo 12, lettere a) – b) – c), da applicare tassativamente (Sez. 1, n. 618 del 07/02/1991, Grasso, Rv. 186713).
3.1.2. Anche l’ulteriore e subordinato profilo non è fondato. Posto che il delitto di truffa (che è stato assorbito, come si è detto, nel reato tributario con esclusione da parte della Corte di appello del concorso di reati) si consuma, come lo stesso ricorrente mostra di ritenere, nel momento in cui alla realizzazione della condotta tipica abbiano fatto seguito la “deminutio patrimonii” del soggetto passivo e la “locupletatio” dell’agente (Sez. 2, n. 14317 del 06/02/2018, Pilato, Rv. 272515), osserva il Collegio che senza alcun aggancio normativo il ricorrente eccepisce che la competenza si radichi in Roma, perché ivi ha sede la Tesoreria dello Stato.
Tuttavia, siccome l’imposta va versata nel luogo del domicilio fiscale (secondo la contestazione in Milano), è nel momento e nel luogo del mancato pagamento dell’imposta che si consuma anche il reato di truffa, essendo in tale luogo che l’agente si è assicurato l’ingiusta locupletazione e, al tempo stesso, si è verificato il corrispondente danno per il soggetto passivo, vittima di un atto patrimoniale pregiudizievole costituito dalla mancata riscossione di una somma.
In ogni caso, come ha condivisibilmente osservato il Procuratore Generale in sede di conclusioni, non è configurabile l’invocata connessione tra i due delitti perché il nesso teleologico non figura dalla contestazione accusatoria e neppure ricorre l’ipotesi di cui alla lettera b) dell’articolo 12, in quanto non è stata ipotizzata la continuazione, né è stato ipotizzato il concorso formale di reati.
4. La seconda doglianza è fondata sotto due limitati aspetti censurati con il motivo di ricorso ed è infondata nel resto, essendo stata correttamente ritenuta l’integrazione della fattispecie incriminatrice contestata al ricorrente, al quale, in definitiva, si addebita (“al fine di evadere le imposte sui redditi, non presentava, essendovi obbligato, le dichiarazioni annuali dei redditi relativi a detta imposta”) l’omessa presentazione della dichiarazione relativa alle sole imposte sui redditi nonostante, nella determinazione dell’imposta evasa, l’accusa rimprovera, oltre all’evasione dell’imposta sui redditi in misura tale da configurare la soglia di punibilità necessaria per l’integrazione del fatto di reato, anche una pretesa evasione dell’IVA (per € 3.800.000) e dell’IRAP (per € 807.500).
4.1. Ciò posto, il ricorrente (v. sub 2.1.2. del ritenuto in fatto) lamenta che i Giudici del merito hanno ritenuto che la L. SA fosse una società esterovestita, cosicché il ricorrente avrebbe fittiziamente localizzato la residenza fiscale della società all’estero, in particolare in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, allo scopo di sottrarsi al più gravoso regime nazionale.
Nel pervenire alla conclusione che si fosse al cospetto di un’ipotesi di estero- vestizione (v. sub 2.5. del considerato in diritto), la Corte di appello si è uniformata al principio di diritto espresso da questa Sezione secondo il quale l’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale dei redditi da parte di società avente residenza fiscale all’estero, la cui omissione integra il reato previsto dall’articolo 5 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, sussiste se detta società abbia stabile organizzazione in Italia, il che si verifica quando si svolgano in territorio nazionale la gestione amministrativa e la programmazione di tutti gli atti necessari affinché sia raggiunto il fine sociale, non rilevando il luogo di adempimento degli obblighi contrattuali e dell’espletamento dei servizi (Sez. 3, n. 7080 del 24/01/2012, Barretta, Rv. 252102).
In questo arresto, è stato affermato che, con riferimento alle persone giuridiche la nozione di residenza fiscale è stabilita dal D.P.R. n. 344 del 2003, art. 5, comma 3, ed è ripresa con riferimento ai soggetti passivi dell’IRES, secondo cui, ai fini delle imposte sui redditi, si considerano residenti in Italia le società e gli enti che, per la maggior parte del periodo di imposta, hanno la sede legale o la sede amministrativa o l’oggetto principale nel territorio dello Stato (articolo 73 cit. T.U.I. R.).
I criteri indicati dall’articolo 73 sono collegati da una “o” disgiuntiva, di conseguenza la sussistenza di uno solo di essi può permettere di individuare la residenza fiscale della società in Italia.
Il riferimento alla sede legale, che può essere fittizia e non coincidere con quella effettiva, va inteso come il luogo in cui opera il centro direttivo e amministrativo della società, ove avviene il compimento di atti giuridici in nome di essa, con l’abituale presenza degli amministratori, investiti della relativa rappresentanza.
L’altro criterio, adottato dall’articolo 73, è quello della sede dell’amministrazione, per cui una società che abbia sede amministrativa in Italia è soggetta a tassazione world-wide (tassazione su base mondiale), anche se la propria sede legale o il proprio oggetto sociale sono fissati all’estero. Elemento individualizzante è il luogo da cui effettivamente provengono gli impulsi volitivi inerenti l’attività societaria, cioè il luogo in cui si esplicano la direzione e il controllo di detta attività; in particolare, qualora gli amministratori risiedano all’estero, ma svolgano le proprie funzioni a mezzo di procuratori operanti in Italia, si dovrà individuare in Italia il luogo della concreta messa in esecuzione da parte dei predetti procuratori delle direttive ad essi impartite e, quindi la residenza fiscale societaria.
Il criterio dell’oggetto sociale ha natura residuale rispetto a quello della sede e si applica soltanto se questa, legale o amministrativa, non sia in Italia per la maggior parte del periodo di imposta.
E’ stato correttamente ritenuto come la finalità della norma in esame sia quella di contrastare quei fenomeni di fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale, ivi posizionando la sede legale onde creare un’apparenza di residenza fiscale nello Stato estero, ma conservando nella sostanza in Italia, in modo occulto e non trasparente, il centro amministrativo, decisionale ed operativo della società.
L’art. 73 TUIR dispone che l’oggetto esclusivo o principale dell’ente è determinato con riferimento all’atto costitutivo, redatto in atto pubblico o scrittura privata, e, in mancanza, in base alla attività effettivamente esercitata, per cui per identificare la nozione di principalità necessita fare riferimento a tutti gli atti produttivi e negoziali, nonché ai rapporti economici, che lo stesso ente pone in essere con i terzi, e per individuare il luogo in cui viene a realizzarsi l’oggetto sociale rileva, non tanto quello dove si trovano i beni principali posseduti dalla società, quanto la circostanza che occorra o meno una presenza in loco per la gestione della attività dell’ente.
Di poi, secondo il Commentario all’art. 4 del Modello OCSE la sede di direzione effettiva deve essere individuata:
– nel luogo dove vengono assunte le decisioni chiave, di natura gestionale e commerciale, necessarie per la conduzione della attività di impresa;
– nel luogo dove la persona o il gruppo di persone che esercitano le funzioni di maggior rilievo assumono ufficialmente le loro decisioni;
– nel luogo di determinazione delle strategie che dovranno essere adottate dall’ente nel suo insieme.
La valutazione di tali elementi deve essere sempre condotta in un’ottica di prevalenza della sostanza sulla forma, come ricorda esplicitamente lo stesso Comnnentario.
Orbene, l’Italia nell’approvare il modello di Convenzione OCSE ha espresso una riserva all’art. 4, dichiarando di non condividere la interpretazione espressa nel paragrafo 24, riguardante la persona o il gruppo di persone che esercitano le funzioni di rango più elevato quale esclusivo criterio per identificare la sede di direzione effettiva di un ente, per la cui determinazione deve, invece, essere preso in considerazione “il luogo ove l’attività principale e sostanziale è esercitata” (Sez. 3, n. 7080 del 24/01/2012, cit. in motiv.).
Di conseguenza, i rilievi del ricorrente appaiono, come sottolineato dal Procuratore Generale nella requisitoria orale, ampiamente infondati risultando immuni da vizi le convergenti motivazioni dei giudici di merito in punto di esterovestizione della L. SA, in quanto le censure avanzate in sede di ricorso, sostanzialmente reiterative dei motivi di appello, risultano adeguatamente contrastate, valorizzando sia le complessive modalità operative e di gestione della L. SA, sia gli acquisiti apporti dichiarativi che, contrariamente a quanto genericamente sostenuto dal ricorrente, non sono stati affatto travisati, essendo stata puntualmente descritta la pedissequa esecuzione da parte degli organi sociali, attraverso mere prese d’atto, delle istruzioni ricevute dalla famiglia NV.
A tale proposito, la Corte territoriale ha precisato che:
• la Pubblica accusa ha assolto l’onere probatorio che sulla stessa incombeva, evidenziando una serie di elementi, di carattere documentale e logico, che dimostrano l’estero-vestizione della L., ritenuta dal Tribunale non già sulla base di mere presunzioni;
• è ben vero che l’oggetto sociale di L. SA, essendo quello della compravendita di quote societarie, non avrebbe richiesto mezzi e strumenti di rilevante impatto, anche fisico, sulla gestione aziendale; tuttavia, non è stata fornita traccia dell’esistenza di alcuna seppur minima struttura all’estero in grado di portare a compimento l’attività sociale;
• l’esigenza di dare respiro internazionale alle future attività dell’imputato, che secondo il teste Cavallaro (legale di NV nel corso dell’operazione W.) costituiva la ragione dell’operatività del gruppo in Lussemburgo, non solo non è mai neppure stata prospettata dallo stesso imputato, ma ha trovato smentita nella natura e nelle caratteristiche dei pochi “affari” portati a termine dalla L. SA nella sua breve esistenza e che in alcun modo richiedevano l’intervento di un soggetto operante all’estero: tutti i contratti sono stati stipulati in Italia, all’esito di trattative condotte in Italia, attraverso società italiane;
• si è visto che NV “era” la L., così che tutte le decisioni maturavano in Italia, all’esito di trattative condotte in Italia;
• l’intervento di un soggetto estero non aveva alcuna giustificazione funzionale, né strategica.
Da tutto ciò, e dunque con logica e congrua motivazione, la Corte d’appello ha ritenuto provato – non già sulla base di mere astratte presunzioni, ma di concreti elementi di fatto e univoche considerazioni logiche, al di là di ogni ragionevole dubbio – come il luogo ove si esplicava la direzione e il controllo dell’attività della L. SA fosse l’Italia.
Tali considerazioni hanno poi trovato ulteriore conforto dall’analisi, nella sua interezza, della vicenda relativa all’operazione di cessione delle quote della W..
A tale riguardo, è stato significativamente osservato come la società L. SA fosse comparsa all’improvviso senza una ragione giustificativa nell’economia dell’affare; vi erano dei venditori e vi era un’acquirente già individuato da tempo; i contatti erano già avviati, le due diligence effettuate ed il prezzo fissato; i tecnici di EI, come confermato anche dai testi Iviani (già direttore ENEL e poi libero professionista, consulente di EI nella valutazione tecnica dell’impianto di Salemi) e Scornaienchi (la cui attendibilità è stata messa in discussione sulla base di considerazioni motivatamente non condivisibili, non essendo emerso un suo diretto interesse nei fatti riferiti), avevano già partecipato a numerose riunioni per definire la compravendita insieme a R., LB, per la parte venditrice e, in qualità di mediatori, con NV, BG e SJ.
La Corte territoriale ha aggiunto che:
– come emerso dai contratti di cessione del 27 dicembre 2007, l’attività di due diligence svolta da EI nei confronti di W. s.r.l. era stata completata sia sotto il profilo della ricerca dei terreni e dei partner per la realizzazione del campo e sia sotto il profilo delle autorizzazioni, con la conseguenza che il soggetto giuridico L. SA non era per nulla coinvolto nell’affare né tantomeno operativo con una propria autonoma attività;
– la lettura dei due contratti di cessione, in sequenza tra loro, evidenziava come nulla vi fosse di nuovo nel passaggio tra un contraente e l’altro, se non il prezzo, rimanendo immutate le garanzie in favore di EI presente anche come spettatrice interessata al primo contratto;
– ché anzi, in un primo momento, come emerso dalla documentazione sequestrata presso la fiduciaria SG, era previsto fino all’ultimo il coinvolgimento di altra società, la POCKERET LIMITED, che aveva delle caratteristiche simili a quelle della L.): – fin dall’inizio delle trattative NV si presentava a tutte le parti in causa come il vero dominus e l’effettivo titolare della W. (i testi Iviani e Scornaienchi avevano riferito che il loro interlocutore era stato, sin dall’inizio, il NV, che pensavano fosse il vero proprietario della WINDC0);
– i testi Iviani e Scornaienchi avevano ribadito che EI aveva interesse ad acquistare il parco eolico ad un prezzo non superiore a 60 milioni di euro, ma nessun interesse avevano ad entrare in società con L. o con NV, né all’interposizione di L..Ed ancora: – la mediazione prestata da NV (soggetto residente), quale amministratore della L. SA, si riferiva alla compravendita di quote relative alla W. SRL (soggetto residente);
– la parte venditrice (F., BB 85 BROWN, R.), la parte acquirente (EI SPA) e la società oggetto della compravendita, ovvero la W. SRL, erano soggetti residenti;
– le trattative per la compravendita delle quote W. erano avvenute nello Stato italiano;
– la L. SA, all’epoca dei fatti, aveva il domicilio fiscale in Italia, Milano, Foro Bonaparte, 70;
– i contratti di compravendita erano stati sottoscritti nello Stato italiano in nome della L. SA;
– i soci della L. SA, seppur attraverso la fiduciaria italiana SG SPA, erano soggetti residenti.
L’istruttoria dibattimentale poi aveva, secondo quanto risulta dal testo della sentenza impugnata, ampiamente dimostrato che il contratto preliminare intercorso tra L. SA ed E., altro non era stato che un modo per giustificare il trasferimento di fondi dalla società lussemburghese L. SA alla società maltese E. LTD.
Infatti, EI era stata da tempo (quantomeno nel settembre 2007) individuata quale acquirente della W. srl: già nell’agosto aveva effettuato una prima due diligence e i suoi tecnici si erano recati a Salemi ed avevano preso contatti con NV e con i proprietari della quote W..
Il preliminare stipulato tra la L. SA e la E. LTD – quando era ben chiaro che l’acquirente della W. sarebbe stata la ELECRABEL, colosso mondiale nell’ambito delle energie – con la previsione della penale di ben 10.000.000 di euro in caso di mancata vendita del 90% delle quote W. alla E., non trovava alcuna ragione se non quella di dare una giustificazione formale al trasferimento di 10.000.000 di euro tra L. SA ed E.:
• ove l’impegno fosse stato effettivo, la L. SA non avrebbe avuto alcuna plausibile ragione di vendere il 90% delle quote W. acquistate alla EI anziché alla E., così esponendosi al pagamento di una penale di ben 10.000.000 di euro;
• era intercorso un brevissimo lasso temporale tra la stipula del preliminare tra L. SA ed E. con la previsione della penale e la conclusione, a poco più di un mese (il 27 dicembre 2007) del contratto di cessione delle quote W. con la EI, con conseguente pagamento di penale a favore di E.;
• la L., nel giro di mezz’ora, acquistava il 100% delle quote W. e ne rivendeva il 90% alla EI, impegnandosi peraltro a vendere il rimanente 10% ad un prezzo già pattuito di 6.100.000 euro;
• L. SA acquistava il 100% delle quote W. senza sborsare alcuna somma di denaro, posto che EI pagava direttamente il prezzo di 33 milioni ai soci W. (mentre versava la differenza di circa 13 milioni di euro direttamente a L. SA).
4.2. Da tutto ciò consegue che la fittizia estero vestizione, iscrivendosi nel novero delle simulazioni che rendono penalmente rilevanti la condotta del ricorrente, non sono in alcun caso riconducibili nel mero abuso del diritto non più penalmente rilevante ex articolo 10-bis dello Statuto del contribuente.
Al riguardo, è stato precisato che, in tema di violazioni finanziarie, l’istituto dell’abuso del diritto di cui all’art. 10-bis I. n. 212 del 2000 – che, per effetto della modifica introdotta dall’art. 1 del D.Lgs. n. 128 del 2015, esclude ormai la rilevanza penale delle condotte ad esso riconducibili – ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi (Sez. 3, n. 38016 del 21/04/2017, Ferrari, Rv. 270550) o quando, come nel caso in esame, il comportamento simulatorio costituisce un presupposto della condotta penalmente rilevante, rappresentando una modalità di estrinsecazione di essa.
4.3. Né rileva che, al momento dei singoli pagamenti da parte di E., quelle somme non fossero ancora provento di reato, circostanza che è stata decisiva per ritenere insussistente il contestato reato di riciclaggio, ma del tutto indifferente ai fini dell’integrazione del reato di omessa dichiarazione dei redditi, rilevando, nei reati tributari, il risparmio spesa che costituisce il vantaggio diretto ed immediato che si ritrae dal delitto.
Altra questione, come sarà più chiaro in seguito, investe invece la conseguente confisca del profitto corrispondente all’imposta evasa e la natura (se diretta o per equivalente) di detta confisca, quando essa si risolva, come nella specie, nell’ablazione di una somma di denaro comunque nella disponibilità dell’autore del reato.
A questo proposito, le Sezioni Unite Lucci hanno chiarito, in conformità a precedenti arresti delle stesse Sezioni Unite, che qualsiasi trasformazione che il denaro illecitamente conseguito subisca per effetto di investimento dello stesso autore, deve essere considerato profitto del reato allorché sia direttamente riconducibile al reato stesso ed al profitto immediato conseguito (vale a dire il denaro), e sia soggettivamente attribuibile all’autore del reato, che quella trasformazione abbia voluto, traendosi da ciò il corollario che, ove il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro, questa, non soltanto si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, ma perde – per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo – qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica. Non avrebbe, infatti, alcuna ragion d’essere – né sul piano economico né su quello giuridico – la necessità di accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita: ciò che rileva è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reo. Soltanto, quindi, nella ipotesi in cui sia impossibile la confisca di denaro sorge la eventualità di far luogo ad una confisca per equivalente degli altri beni di cui disponga l’imputato e per un valore corrispondente a quello del prezzo o profitto del reato, giacché , in tal caso, si avrebbe quella necessaria novazione oggettiva che costituisce il naturale presupposto per poter procedere alla confisca di valore (l’oggetto della confisca diretta non può essere appreso e si legittima, così, l’ablazione di altro bene di pari valore).
Né è a dirsi che la confisca del denaro costituente prezzo o profitto del reato, in assenza di elementi che dimostrino che proprio quella somma è stata versata su quel conto corrente, determinerebbe una sostanziale coincidenza della confisca diretta con quella di valore, dal momento che è la prova della percezione illegittima della somma che conta, e non la sua materiale destinazione: con la conseguenza che, agli effetti della confisca, è l’esistenza del numerano comunque accresciuto di consistenza a rappresentare l’oggetto da confiscare, senza che assumano rilevanza alcuna gli eventuali movimenti che possa aver subito quel determinato conto bancario (così, in termini, S.U. n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, in motiv.).
4.4. Sono invece fondati, nei limiti di seguito precisati, i due restanti rilievi mossi nei confronti dell’impugnata sentenza e che attengono non tanto alla configurabilità del delitto di omessa dichiarazione quanto piuttosto alla delimitazione dell’evento del reato ossia al risultato della condotta punibile.
Ai fini dell’integrazione del modello legale dei fatti di reato tipizzati negli articoli 2, 3, 4 e 5 del decreto legislativo n. 74 del 2000 è sufficiente che il dolo specifico “al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto” e l’oggetto materiale della condotta (“in una delle due dichiarazioni annuali relative a dette imposte” o, nell’articolo 5, “non presenta, pur essendovi obbligato, una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte”) investano alternativamente le imposte sui redditi o l’Iva, configurandosi il reato, in presenza di tutte le altre condizioni richieste per l’integrazione della fattispecie incriminatrice, con l’evasione, oltre soglia, di una soltanto delle due imposte.
Positivizzato il concetto di «imposta evasa>> nell’articolo 1, lettera f), del decreto legislativo n. 74 del 2000, le uniche due imposte, la cui evasione può essere definita, in ossequio al principio di legalità, come penalmente rilevante, sono dunque le imposte sui redditi e l’imposta sul valore aggiunto, con la conseguenza che fuoriescono dall’ambito oggettivo delle fattispecie le imposte non sussumibili nelle predette categorie o diverse da quelle tipizzate (come, as esempio, l’imposta di registro o l’Irap), in quanto non ricomprese nel perimetro disegnato dalle norme penali tributarie in precedenza richiamate.
E’ poi necessario che, ai fini dell’integrazione e della determinazione dell’evento evasivo, le imposte (sui redditi o sul valore aggiunto), rientranti nel perimetro disegnato dal modello legale di reato, siano «dovute>>, requisito quest’ultimo ricavabile proprio dalla definizione dell’imposta evasa fornito dal richiamato articolo 1, lettera f), del decreto legislativo n. 74 del 2000.
Ne consegue che, come fondatamente lamenta il ricorrente, l’Irap non può concorrere a determinare l’imposta evasa.
La ragione di ciò fonda sul rilievo che l’imposta regionale sulle attività produttive, avendo natura reale, si considera non incidente sul reddito e tale circostanza motiva l’esclusione della dichiarazione IRAP ai fini della quantificazione dell’imposta evasa.
Si tratta di un approdo che trova un aggancio nella Circolare del Ministero delle Finanze – (CIR) n. 154 E del 4 agosto 2000, secondo cui le dichiarazioni costituenti l’oggetto materiale dei reati tributari sono solamente le dichiarazioni dei redditi e le dichiarazioni annuali IVA, con la conseguenza che, nella citata circolare, sono state, ad esempio, ritenute escluse dalle relative fattispecie criminose le dichiarazioni prodotte, appunto, ai fini dell’IRAP nonché le dichiarazioni periodiche IVA e le dichiarazioni di successione.
Da ciò consegue che l’IRAP non poteva essere calcolata ai fini della determinazione dell’imposta evasa e, di conseguenza, per la quantificazione del profitto confiscabile.
La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, affermato, con indirizzo che va qui ribadito, che è irrilevante, in tema di reati tributari, l’evasione dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), non trattandosi di un’imposta sui redditi in senso tecnico (Sez. 3, n. 12810 del 26/01/2016, Monaco, Rv. 266486; Sez. 3, n. 11147 del 15/11/2011, dep. 2012, Prati, Rv. 252359).
Sotto altro aspetto, l’operazione economica, produttiva del reddito, era esente dall’IVA, ex articolo 10, comma 4, DPR n. 633 del 1972.
Infatti, in forza della predetta disposizione, “sono esenti dall’imposta … : 4) Le operazioni relative ad azioni, obbligazioni o altri titoli non rappresentativi di merci e a quote sociali, eccettuati la custodia e l’amministrazione dei titoli nonché il servizio di gestione individuale di portafogli; le operazioni relative a valori mobiliari e a strumenti finanziari diversi dai titoli, incluse le negoziazioni e le opzioni ed eccettuati la custodia e l’amministrazione nonché il servizio di gestione individuale di portafogli”, pur dovendosi considerare che, in tema di IVA, il contribuente che abbia posto in essere operazioni esenti da imposta di cui all’art. 10 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 è dispensato, ai sensi dell’articolo 36-bis del citato d.P.R., dagli obblighi di fatturazione e registrazione a condizione che ne abbia fatto preventiva comunicazione all’ufficio, ferma restando la soggezione all’obbligo di dichiarazione annuale, per il quale la norma non prevede alcuna dispensa; ne consegue la legittimità dell’accertamento con cui il competente ufficio finanziario irrogava le corrispondenti sanzioni, in difetto della prova della predetta comunicazione, gravante a carico del contribuente che voglia fruire del beneficio (Cass. civ. Sez. 5, n. 12198/2008, Rv. 603913 – 01).
4.5. In definitiva, pur non ininfluente sulla configurabilità del reato ex articolo 5 del decreto legislativo n. 74 del 2000 limitatamente all’evasione dell’imposta sui redditi, l’erronea indicazione, nel capo di imputazione, dell’imposta evasa ha inciso negativamente nella determinazione dell’evento del reato, che va depurato dalle imposte non dovute e non ricomprese nel raggio dell’incriminazione, nella quantificazione dell’importo confiscabile e sul trattamento sanzionatorio, tanto che proprio l’ammontare dell’imposta evasa è stato indicato dai Giudici del merito come elemento ostativo alla concessione delle attenuanti generiche (terzo motivo di ricorso), con la conseguenza che, essendo la sentenza impugnata incorsa in parte qua nel vizio di violazione di legge denunciato, il secondo motivo di ricorso, esaminato nel suo complesso, non può ritenersi manifestamente infondato ed il terzo motivo è addirittura fondato sicché, maturata medio tempore la prescrizione, la sentenza impugnata, in presenza di una regolare costituzione del rapporto processuale, va annullata senza rinvio, in accoglimento del quarto motivo di ricorso, essendo operativa una causa estintiva del reato.
5. Con il quinto motivo il ricorrente, sotto altro profilo (statuizione sulla confisca), sostanzialmente si duole del fatto che (a) il profitto confiscabile sia stato erroneamente determinato comprendendo oltre all’IRES non versata, anche VIVA e l’IRAP; (b) la plusvalenza tassabile sia stata erroneamente determinata in Euro 19 milioni, includendo in tale importo anche il valore di C 6.100.000,00, pari al 10% delle quote che sarebbero state vendute (realizzando una plusvalenza) solo successivamente, e da parte dell’amministratore giudiziario, ed inoltre senza considerare che detta plusvalenza avrebbe dovuto, al più, essere calcolata previa detrazione delle spese, tra cui l’importo di C 10.000.000,00 immediatamente girato ad altra società; (c) non sia stata fatta applicazione dell’articolo 12-bis, comma 2, d.lgs. 74 del 2000 (in forza del quale “la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta”), in quanto la Corte di appello non avrebbe tenuto in conto che già nel dibattimento di primo grado era emerso dalla deposizione del teste C. che, quando la società L. fu ceduta alla NH, erano stati versati nel 2011 all’Erario 600.000 Euro dalla società fiduciaria SG per i redditi da capitale ricevuti da NH e relativi alla “esterovestita” L..
5.1. Il primo rilievo, come già evidenziato in precedenza, è fondato perché l’operazione era esente da Iva e l’Irap non rientra nella categoria delle imposte sul reddito.
5.2. Il secondo rilievo è parzialmente fondato, quanto alla determinazione della plusvalenza tassabile, limitatamente alla censura secondo cui in tale importo è compreso il valore di € 6.100.000,00, pari al 10% delle quote che sarebbero state vendute (realizzando una plusvalenza) solo successivamente, e da parte dell’amministratore giudiziario.
Come puntualmente evidenziato dal Procuratore Generale in sede di conclusioni di udienza, le plusvalenze rientrano tra i redditi diversi ex art. 67 D.P.R. 22/12/1986, n. 917.
Per quanto qui interessa, secondo tale disposizione: ” 1. Sono redditi diversi se non costituiscono redditi di capitale ovvero se non sono conseguiti nell’esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente: (…);
c) le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di partecipazioni qualificate. Costituisce cessione di partecipazioni qualificate la cessione di azioni, diverse dalle azioni di risparmio, e di ogni altra partecipazione al capitale od al patrimonio delle società di cui all’articolo 5, escluse le associazioni di cui al comma 3, lettera c), e dei soggetti di cui all’articolo 73, comma 1, lettere a), b) e d), nonché la cessione di diritti o titoli attraverso cui possono essere acquisite le predette partecipazioni, qualora le partecipazioni, i diritti o titoli ceduti rappresentino, complessivamente, una percentuale di diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria superiore al 2 o al 20 per cento ovvero una partecipazione al capitale od al patrimonio superiore al 5 o al 25 per cento, secondo che si tratti di titoli negoziati in mercati regolamentati o di altre partecipazioni. Per i diritti o titoli attraverso cui possono essere acquisite partecipazioni si tiene conto delle percentuali potenzialmente ricollegabili alle predette partecipazioni. La percentuale di diritti di voto e di partecipazione è determinata tenendo conto di tutte le cessioni effettuate nel corso di dodici mesi, ancorché nei confronti di soggetti diversi. Tale disposizione si applica dalla data in cui le partecipazioni, i titoli ed i diritti posseduti rappresentano una percentuale di diritti di voto o di partecipazione superiore alle percentuali suindicate. Sono assimilate alle plusvalenze di cui alla presente lettera quelle realizzate mediante:
1) cessione di strumenti finanziari di cui alla lettera a) del comma 2 dell’articolo 44 quando non rappresentano una partecipazione al patrimonio;
2) cessione dei contratti di cui all’articolo 109, comma 9, lettera b), – “contratti di associazione in partecipazione ed a quelli di cui all’articolo 2554 del codice civile allorché sia previsto un apporto diverso da quello di opere e servizi”- qualora il valore dell’apporto sia superiore al 5 per cento o al 25 per cento del valore del patrimonio netto contabile risultante dall’ultimo bilancio approvato prima della data di stipula del contratto secondo che si tratti di società i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati o di altre partecipazioni. Per le plusvalenze realizzate mediante la cessione dei contratti stipulati con associanti non residenti che non soddisF. le condizioni di cui all’articolo 44, comma 2, lettera a), ultimo periodo, l’assimilazione opera a prescindere dal valore dell’apporto;
3) cessione dei contratti di cui al numero precedente qualora il valore dell’apporto sia superiore al 25 per cento dell’ammontare dei beni dell’associante determinati in base alle disposizioni previste del comma 2 dell’articolo 47 del citato testo unico (…)”.
La disciplina fiscale delle plusvalenze è disciplinata nell’articolo 68 TUIR e, ai fini che qui rilevano, va considerata la disposizione di cui al quarto comma, in forza della quale: “4. Le plusvalenze realizzate mediante la cessione dei contratti stipulati con associanti non residenti che non soddisF. le condizioni di cui all’articolo 44, comma 2, lettera a), ultimo periodo, nonché le plusvalenze di cui alle lettere c) e c-bis) del comma 1 dell’articolo 67 realizzate mediante la cessione di partecipazioni al capitale o al patrimonio, titoli e strumenti finanziari di cui all’articolo 44, comma 2, lettera a), e contratti di cui all’articolo 109, comma 9, lettera b), emessi o stipulati da società residenti in uno Stato o territorio a regime fiscale privilegiato incluso nel decreto o nel provvedimento emanati ai sensi dell’articolo 167, comma 4, salvo la dimostrazione, anche a seguito dell’esercizio dell’interpello secondo le modalità del comma 5, lettera b), dello stesso articolo 167, del rispetto delle condizioni indicate nella lettera c) del comma 1 dell’articolo 87, concorrono a formare il reddito per il loro intero ammontare. La disposizione del periodo precedente non si applica alle partecipazioni, ai titoli e agli strumenti finanziari di cui alla citata lettera c-bis), del comma 1, dell’articolo 67, emessi da società i cui titoli sono negoziati nei mercati regolamentati. Le plusvalenze di cui ai periodi precedenti sono sommate algebricamente alle relative minusvalenze; se le minusvalenze sono superiori alle plusvalenze l’eccedenza è riportata in deduzione integralmente dall’ammontare delle plusvalenze dei periodi successivi, ma non oltre il quarto, a condizione che sia indicata nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta nel quale le minusvalenze sono state realizzate. Qualora il contribuente intenda far valere la sussistenza delle condizioni indicate nella lettera c) del comma 1 dell’articolo 87, ma non abbia presentato l’istanza di interpello prevista dalla lettera b) del comma 5 dell’articolo 167 ovvero, avendola presentata, non abbia ricevuto risposta favorevole, la percezione di plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni in imprese o enti esteri localizzati in Stati o territori inclusi nel decreto o nel provvedimento di cui all’articolo 167, comma 4, deve essere segnalata nella dichiarazione dei redditi da parte del socio residente; nei casi di mancata o incompleta indicazione nella dichiarazione dei redditi si applica la sanzione amministrativa prevista dall’articolo 8, comma 3-ter, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471”.
Ciò precisato, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che “il diritto di opzione nella società per azioni assume un valore economico in sé, potendo essere oggetto liberamente di disposizione a favore di terzi (in questi termini, Cass. n. 10879 del 2007). Altro indice del carattere patrimoniale del diritto di opzione è rinvenibile nella circostanza che la delibera di aumento di capitale potrebbe fissare, per il collocamento delle azioni rimaste inoptate, un prezzo diverso e maggiore rispetto a quello previsto per l’azione. I titolari del diritto di opzione possono esercitare il loro diritto – per intero o anche in parte – oppure non esercitarlo affatto, ovvero possono monetizzarlo facendolo oggetto di cessione, il cui corrispettivo dipende dalle situazioni concrete. Il mancato esercizio del diritto di opzione nei termini stabiliti ne comporta la decadenza. L’emissione di nuove azioni, dunque, è una circostanza solo potenzialmente idonea a modificare la quota di partecipazione sociale. Le nuove azioni possono rimanere inoptate e l’aumento di capitale risultare scoperto. Ed invero, soltanto con il successivo esercizio del diritto di opzione si realizza l’effettiva attribuzione della quota di partecipazione sociale, con (eventuale) modifica del novero dei soci ed incidenza sulla quota di partecipazione di ciascuno al capitale sociale. È in tale momento che si producono gli stessi effetti del trasferimento della quota con effettiva assegnazione dei titoli (acquisto delle nuove azioni).
La mera cessione del diritto di opzione, per converso, non comporta affatto la cessione della partecipazione sociale, ma il titolare del diritto di opzione può raggiungere tale risultato, che dipende dal successivo esercizio del diritto di opzione ceduto. L’alienazione del diritto di opzione è un negozio che consente l’acquisto della partecipazione sociale da parte del cessionario, ma non è certo che tale effetto si verifichi, sussistendo uno iato tra i due momenti dell’operazione. Il terzo che voglia acquisire la partecipazione sociale, per soddisfare tale interesse, deve esercitare il diritto di opzione cedutogli”( Sez. 5, n. 10240 del 18/11/2016, dep. 2017, GBM Gruppo Bancario Mediterraneo Holding SPA, non mass.).
Da ciò consegue che la concessione del diritto di opzione costituiva un negozio giuridico avente un oggetto distinto dalla partecipazione, che risulta acquistata nel corso di un esercizio diverso dal 2007, cosicché il valore della partecipazione, per il cui acquisto era stata concessa l’opzione, non poteva costituire plusvalenza tassabile.
Una plusvalenza sarebbe stata configurabile con riferimento all’eventuale corrispettivo del diritto di opzione che, però, non risulta essere stato autonomamente considerato.
Quanto invece alle spese pari ad Euro 10 milioni girati ad altra società che vengono invocate con l’ulteriore profilo della sollevata doglianza, la censura si contraddistingue per la sua assoluta genericità.
Peraltro, l’onere di fornire la prova del fatto che la società abbia effettivamente subito perdite spetta a chi intenda far valere – ai fini del calcolo della plusvalenza derivante dalla cessione a titolo oneroso di una quota di partecipazione societaria – l’esistenza di costi o perdite costituenti una minusvalenza deducibile (Sez. 5, n. 7596 del 02/04/2014, Agenzia Entrate contro Lenci, Rv. 630168 – 01).
Posto poi che, con accertamento di fatto adeguatamente e logicamente motivato, i Giudici del merito hanno stabilito che il pagamento della penale fu solo un escamotage per far conseguire al ricorrente il profitto del reato, nulla il ricorrente stesso ha dedotto circa il collegamento tra le due operazioni, laddove l’illiceità del meccanismo simulatorio elimina in radice ogni possibilità di considerare la “clausola penale” quale minusvalenza collegata all’acquisto delle partecipazioni, qualifica che evidentemente presuppone un collegamento negoziale effettivo, escluso dalla simulazione dell’operazione economica stessa.
5.3. Anche il terzo rilievo non ha giuridico fondamento, non essendo assolutamente applicabile, al caso di specie, la disposizione ex articolo 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000 invocata dal ricorrente.
Dalla lettura della deposizione del C. (pag. 27 e 28 del verbale di esame testimoniale allegato al ricorso), si desume chiaramente che le imposte furono versate dalla fiduciaria (SG della famiglia NV) con gli F-24 del 5 maggio 2011 in relazione alla plusvalenza generata dalla vendita della L. alla NH e non alla vendita da parte di L. delle quote di W., oggetto, dapprima, della contestazione, poi, dell’affermazione di responsabilità e infine della successiva confisca.
6. L’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per prescrizione del reato impone, non avendo la statuizione sulla confisca autonoma e scindibile rilevanza, la verifica diretta a stabilire se la misura ablativa disposta abbia natura di confisca di valore (così come qualificata dai Giudici del merito) o in forma specifica, colpendo direttamente il profitto del reato.
6.1. A tale proposito, salvo temperamenti che qui non rilevano, le Sezioni Unite Lucci, come in precedenza evidenziato (sub 4.3. del considerato in diritto) hanno stabilito che la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264437), chiarendo che il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, non può disporre, atteso il suo carattere afflittivo e sanzionatorio, la confisca per equivalente delle cose che ne costituiscono il prezzo o il profitto (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, cit., Rv. 264435) e precisando che, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, il giudice può disporre, a norma dell’art. 240, comma secondo, n. 1 cod. pen., la confisca del prezzo e, ai sensi dell’art. 322-ter cod. pen., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, cit., Rv. 264434).
Ciò posto, con accertamento di fatto congruamente motivato e privo di vizi di manifesta illogicità nonché frutto del doppio e conforme convincimento espresso dai Giudici del merito, la disponibilità delle somme confiscate alla società NH s.p.a. ed ai terzi è stata attribuita al NV, né da questi è stata specificamente contestata.
Neppure è contestato l’accertato e pacifico ruolo rivestito dal NV di dominus delle società (prima della L. poi della NH) attribuitogli dalla doppia conforme di merito.
Ai fini dell’applicazione della confisca su beni formalmente intestati a persona estranea al reato, non è sufficiente la dimostrazione della mancanza, in capo a quest’ultima, delle risorse finanziarie necessarie per acquisire il possesso dei beni, essendo invece necessaria la prova, con onere a carico del P.M., della disponibilità degli stessi da parte dell’imputato.
La Corte ha affermato il principio di diritto, che va qui ribadito, secondo il quale la confisca diretta o per equivalente (al pari del sequestro) può ricadere su beni anche solo nella disponibilità dell’imputato, per essa dovendosi intendere la relazione effettuale con il bene, connotata dall’esercizio dei poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà (Sez. 2, n. 22153 del 22/02/2013, Ucci e altri, Rv. 255950), cosicché i beni, se anche siano formalmente intestati a terzi estranei al reato, devono ritenersi nella disponibilità dell’imputato quando essi, sulla base di elementi specifici e dunque non congetturali, rientrino nella sfera degli interessi economici del reo, ancorché il potere dispositivo su di essi venga esercitato per il tramite di terzi (Sez. 3, n. 15210 del 08/03/2012, Costagliola ed altri, Rv. 252378).
La qualifica di dominus consente, secondo un pacifico orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, al titolare di esercitare i poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà ed è sintomatica della disponibilità diretta dei beni della società soggetta al controllo della persona fisica. In tale caso, infatti, la società costituisce un mero schermo fittizio di attività illecite direttamente riconducibili al reo in quanto l’ente si risolve in un assetto privo di autonomia e rappresenta solo uno schermo attraverso il quale il reo agisce come effettivo titolare dei beni (Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258646).
Pertanto, la natura fungibile dei beni confiscati (che si desume dal testo della sentenza impugnata, v. pag. 11 e 12) e la diretta disponibilità di detti beni da parte del NV (affermata dalla doppia conforme di merito) consente di ritenere che erroneamente la Corte di appello ha qualificato la confisca come di valore (o per equivalente) anziché diretta (o in forma specifica).
6.2. La questione di diritto che si pone allora al Collegio è se, in assenza di impugnazione da parte del pubblico ministero, la Corte di cassazione possa procedere alla riqualificazione in iure della confisca qualificata in appello come di valore (o per equivalente) anziché diretta (o in forma specifica) e, in caso positivo, a quali condizioni detta riqualificazione sia ammessa.
Ritiene il Collegio, condividendo la richiesta formulata con le conclusioni orali da parte del Procuratore Generale, che la riqualificazione giuridica del fatto è sempre consentita di ufficio al giudice, anche a quello della impugnazione, ed è sottratta alla disponibilità delle parti, che hanno tuttavia pieno diritto all’attivazione del contraddittorio.
Si tratta di un principio giuridico risalente (“da mihi factum dabo tibi ius”) che caratterizza l’attività giurisdizionale e che trova copertura costituzionale nell’articolo 3 della Costituzione, nel senso che, fermo il fatto storico consegnato al giudice ed accertato in applicazione delle regole del giusto processo regolato dalla legge, il giudice è libero di assegnare al fatto stesso, nel rispetto del principio del contraddittorio, la sua esatta qualificazione giuridica, a garanzia della parità di trattamento di tutti i cittadini di fronte alla legge, in maniera che ognuno, al cospetto del medesimo fatto, risulti destinatario della medesima regola giuridica.
Da ciò consegue che il potere (anche officioso) di riqualificazione giuridica del fatto da parte del giudice di ricercare le norme correttamente applicabili al fatto allegato va coordinato, come avviene nel processo civile, con il divieto della cd. “terza via”, ossia senza che l’opera di riqualificazione del fatto produca una violazione del principio del contraddittorio, violazione che sussiste quando la decisione venga calata ex abrupto sulle parti, ignare della questione officiosamente rilevata e solitariamente risolta, non anche però quando il giudice pronunzi su un’eccezione oppure su una richiesta sollevata da una parte, sulla base dei fatti dedotti, individuando le norme disciplinatrici della fattispecie, come vuole il principio iura novit curia, oppure quando il giudice, pur in assenza di una richiesta o eccezione, inviti le parti ad interloquire su questioni a lui non devolute (Sez. VI-2, n. 22731 del 11/12/2012, Esim Srl contro Colas Rail Sa, Rv. 624334 – 01).
Sul punto, sebbene con specifico riferimento al processo penale in grado di appello e sotto altro apparente versante, la giurisprudenza di legittimità si è già pronunciata affermando il principio, che va condiviso e applicato anche al giudizio di cassazione con le precisazioni che seguono, secondo il quale il divieto di “reformatio in pejus” non è, in tali casi, violato poiché l’attribuzione alla confisca di una diversa qualificazione giuridica costituisce un’operazione istituzionalmente spettante al giudice, anche se di secondo grado (Sez. 6, n. 10708 del 18/02/2016, Mercuri, Rv. 266558), precisando che non viola il divieto di “reformatio in pejus” la qualificazione della confisca in appello come diretta, anziché di valore, sul rilievo che, pur avendo la confisca per equivalente natura essenzialmente sanzionatoria, ciò che rileva è l’effetto derivante dalla misura applicata, che resta immutato, salva la sua corretta qualificazione giuridica (Sez. 6, n. 13844 del 02/12/2016, dep. 2017, Aracu, Rv. 270372).
E’ stato, infatti, chiarito che, quando la confisca sia stata disposta in primo grado e la modifica operata in sede di appello attenga alla qualificazione giuridica della misura, si versa nell’ambito di un’operazione di istituzionale spettanza del giudice, anche se del gravame, ed è indicativo, in proposito, che, proprio nel prevedere il divieto di reformatio in peius con riguardo al giudizio di appello, l’articolo 597, comma 3, del codice di procedura penale faccia espressamente salvo il potere del giudice di “dare al fatto una definizione giuridica diversa”.
Né si può sostenere che l’operazione di “riqualificazione” debba ritenersi preclusa perché da essa dipende il mantenimento della misura ablatoria: secondo la costante giurisprudenza, non si pone in violazione del divieto di reformatio in peius nemmeno la sentenza di secondo grado che, su impugnazione dell’imputato, dia al fatto una definizione giuridica più grave la quale impedisca la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione (così, tra le tante, da ultimo, Sez. 6, n. 32710 del 16/07/2014, Schepis, Rv. 260663, e Sez. 1, n. 6116 del 11/12/2013, dep. 2014, Battaglia, Rv. 259466).
Gli stessi principi devono ritenersi applicabili nel giudizio di cassazione, purché sia assicurato il contraddittorio, con la conseguenza che, nel giudizio di legittimità, il potere della Corte di cassazione di attribuire una diversa qualificazione giuridica ai fatti accertati non può avvenire con atto a sorpresa e con pregiudizio del diritto di difesa, in quanto gli articoli 111, comma 3, della Costituzione e 6, comma 3, lett. a), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – come interpretato dalla Corte Europea Diritti dell’Uomo nella sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia – impongono l’instaurazione del contraddittorio tra le parti sulla relativa questione di diritto (Sez. 4, n. 2340 del 29/11/2017, dep. 2018, D.S., Rv. 271758).
Logico corollario di tali affermazioni è che la richiesta del Procuratore Generale in udienza, espressamente formulata ed argomentata, come nel caso in esame, in presenza delle parti, di riqualificazione della confisca, deve ritenersi pienamente idonea ad attivare il contraddittorio, cosicché il suo eventuale accoglimento non può costituire decisione a sorpresa.
Ne deriva che il potere della Corte di attribuire una diversa qualificazione giuridica ai fatti accertati non è dunque stato esercitato con atto a sorpresa e con pregiudizio del diritto di difesa, conseguendo tale qualificazione alle argomentate conclusioni del Procuratore Generale d’udienza con specifico riferimento al diverso inquadramento prospettabile, risultando in tal modo rispettato il principio di diritto espresso dalla Corte Europea Diritti dell’Uomo nella sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia.
Pertanto, non deve farsi luogo all’annullamento della sentenza, sul capo della confisca, perché, rimasta accertata la responsabilità dell’imputato per il reato contestato nelle sue componenti oggettive e soggettive, l’intervenuta prescrizione non osta alla conferma della statuizione de qua, previa riqualificazione della misura ablativa come confisca diretta e non per equivalente, riqualificazione che la Corte di cassazione, rispettato il contraddittorio, può, pieno iure, operare.
7. Il ricorso proposto da FE è fondato, limitatamente alla determinazione del profitto confiscabile, ed è infondato nel resto.
Con il motivo di gravame il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato la confisca della somma di Euro 991.241,52 riferita al rapporto intestato a G.C. Limited n. 400016934586 e della somma di Euro 203,85 riferita al rapporto intestato a G.C. Holding Limited n. 40016934599.
Il ricorrente non contesta di essere il titolare effettivo della società di diritto maltese G.C. LTD, beneficiaria, in data 18 marzo 2008, della somma di Euro 2.125.000 attraverso un bonifico disposto dalla società maltese E. LTD.
Deduce che è stata erroneamente esclusa la disponibilità delle somme confiscate in capo al ricorrente sul presupposto, altrettanto erroneo, che le stesse fossero invece nella disponibilità del NV e che l’apparente titolarità in capo al F. fosse il frutto di una interposizione fittizia desunta sulla base di mere presunzioni, non gravi, precise e concordanti quali: a) l’asserita assenza di titoli che legittimassero i pagamenti dalla E. Ltd alla G.C. Ltd; b) l’interpretazione del contenuto di una intercettazione telefonica relativa ad una conversazione con il figlio.
Va subito allora chiarito che, con accertamento di fatto adeguatamente e logicamente motivato, la Corte territoriale, con motivazione (pagg. 75 e ss. della sentenza impugnata) immune da vizi di manifesta illogicità in punto di disponibilità in capo al NV della somma a lui confiscata, ha dato conto:
1. dell’esito negativo delle perquisizioni espletate in data 30 marzo 2010, presso i luoghi lavorativi e abitativi di FE nonché presso le sedi romane delle società riconducibili a BG e Roberto SJ, nel corso delle quali non furono rinvenuti documenti e/o elementi comprovanti la prestazione della consulenza tecnica da parte del F. che a dire di questi sarebbe stata la causa del versamento (pagina 76);
2. della non verosimiglianza della esistenza di un mero accordo verbale cui aveva fatto riferimento il BG;
3. dell’inesistenza delle dedotte lacune investigative sul punto, avendo il teste Nastasi riferito in udienza di non aver trovato tracce del lavoro che avrebbe dovuto precedere la redazione della tabella finale: «… non l’abbiamo trovato da nessuna parte. L’abbiamo chiesto e nessuno è stato in grado di fornire il lavoro fatto da F.» (pag. 64);
4. dell’acquisizione di elementi da cui si è desunto l’espletamento della consulenza tecnica da parte di altri soggetti, in particolare dalla L., con sede in Germania (che risulta espletare “servizi di consulenza per gli impianti di energia eolica”) in relazione ai dati del vento relativi all’impianto eolico di Salemi;
5. della solo parziale riferibilità al Progetto eolico in Sicilia- Salemi/ Trapani W., anno 2007, della pur copiosa documentazione prodotta dalla difesa all’udienza dell’il dicembre 2014, pur attinente all’attività di esperto e consulente del ricorrente nell’ambito degli impianti di produzione di energie rinnovabili;6. dell’assenza agli atti di una nota o un qualunque prospetto che illustri i criteri posti alla base di una liquidazione di compensi tanto generosa ed importante;
7. del tenore del colloquio, in precedenza esaminato, intrattenuto con il figlio nel corso della conversazione del 31 marzo 2010, oggetto di intercettazione telefonica;
8. della risposta alla lettura alternativa proposta dalla difesa secondo quanto riferito dall’imputato durante il proprio interrogatorio (aveva dichiarato che, quanto alla somma di Euro 2.125.000, nel dire “come se le avessi prese”, egli si riferiva al fatto che non aveva avuto e non aveva ancora la disponibilità di tale somma. La Corte di Appello ha affermato che tale giustificazione mal si concilia con le successive valutazioni espresse dall’imputato sulla spaventosità delle somme ed ha confermato quanto messo in evidenza dal Tribunale, e cioè che dalle stesse si evinceva che F. non solo non fosse consapevole dell’entità delle somme che si era prestato a ricevere sul conto della G.C. ma anche come lo stesso non potesse realmente disporne, risultando al pari degli altri mero intermediario nelle operazioni di trasferimento di somme interamente riconducibili a NV).
In definitiva gli unici elementi favorevoli che invoca il ricorrente sono, oltre alle sue dichiarazioni, quelle del BG, senza però specificarne la decisività rispetto alla pluralità di indizi convergenti evidenziati dalla Corte di Appello.
8. I ricorsi di AS e GS sono fondati per quanto di ragione nei limiti di seguito precisati.
I ricorrenti censurano la sentenza impugnata in punto di conferma della confisca della somma di Euro 299,01 riferita al rapporto intestato a S.H. Limited n. 400017321318 e della somma di Euro 408.659,44 riferita al rapporto intestato a SA Limited n. 400017321240.
La disponibilità in capo al NV è stata giustificata dalla Corte territoriale con il pagamento da E. Ltd a SA Ltd, riferibile a GS, beneficiaria, senza alcuna indicazione di causale, di Euro 1.000.000, in data 4 luglio 2008, accreditato sul conto di risparmio n. 40017321240 presso la Bank of Valletta (beneficiario effettivo GS, all’epoca studente universitario).
La Corte del merito, a questo proposito, ha affermato che AS S., padre di Giacomo, aveva riferito che era lui il beneficiario della somma di 1.000.000 di euro, dovutagli da BG e SJ per averli messi in contatto con NV per la compravendita W., senza però che fosse risultato ben chiaro il ruolo (e la figura) di AS S., anche tenuto conto che lo stesso, dal 22 ottobre 2007 al marzo 2008, era stato posto agli arresti domiciliari per altra causa. Ha aggiunto la Corte milanese che quest’ultimo aveva riferito che, nel marzo 2008, una volta uscito dagli arresti, si era attivato con BG per ottenere parte delle sue spettanze. Il BG tuttavia gli aveva detto che l’affare era ormai concluso e che al più poteva ottenere la somma di 1 milione di Euro con un trasferimento “estero su estero” a favore di una società maltese (che poi risultò essere la SA LTD) di cui tuttavia lui (o il figlio) non dovevano risultare come titolari ma come fiduciari, cosicché, al di là delle dichiarazioni di AS Scirmemi (formalmente confermate da BG), non era comprensibile la ragione sottostante tale pagamento, tenuto conto che Giacomo e AS S. non avevano svolto alcun ruolo nella compravendita W., non avevano partecipazioni in tale società o in altre interessate a tale compravendita, né rapporti con la EI.
Inoltre se lo S. rivendicava delle spettanze sarebbe, allo stesso modo, incomprensibile anche il motivo per il quale non gli potessero essere trasferite, mediante bonifico, in Italia su conti correnti suoi, del figlio ovvero di società italiane di cui era il titolare.
Perciò, oltre alla mancanza di ragioni giustificative del pagamento anche le modalità dello stesso – avvenuto mediante pagamenti estero su estero, dalla società maltese E. Ltd alla società maltese SA Ltd, costituita ad hoc e amministrata da altri soggetti, di cui S. padre e figlio erano solo i beneficiari indiretti, peraltro individuati solo a seguito di complesse indagini e rogatorie a Malta – denotavano, secondo il convincimento della Corte del merito, la coscienza e volontà di ostacolare la provenienza delittuosa della somma di denaro (pag. 73 e 74 sentenza impugnata).
Tuttavia – come ha ampiamente esposto il Procuratore Generale nel corso della sua requisitoria, con argomenti che il Collegio condivide – la confisca attinge somme su conti correnti societari, in ipotesi accusatoria, nella disponibilità del NV, somme pervenute su tali conti per occultarne la riconducibilità allo stesso NV.
A fronte del titolo causale di detti versamenti, ravvisato dai ricorrenti in una opera di intermediazione e consulenza operata da AS S., la Corte di appello ha confezionato una motivazione perplessa per contrastarla: “non è ben chiaro il ruolo (e la figura) di S. AS”; “non si comprende la ragione sottostante al pagamento”, “non si vede perché il pagamento non è stato effettuato con bonifico in Italia”; e, soprattutto non indica, a definitivo scioglimento delle prospettazioni, quali prove dimostrino inequivocabilmente, al di là di ogni ragionevole dubbio, che le somme siano nella disponibilità del NV.
Ricorre l’ipotesi della motivazione perplessa allorquando le varie alternative, proposte o prospettate dal giudicante, non vengano al fine risolte, sicché rimane, bi • dal punto di vista motivazionale in relazione alla ratio decidendi del provvedimento, aperta ed insoluta la soluzione conclusiva, restando perciò indecifrabile il convincimento del giudice (in termini, Sez. 5, n. 10834 del 06/04/1988, Baldini, Rv. 179649).
Ne consegue che il motivo aggiunto, con il quale è stata eccepita l’impraticabilità della confisca in considerazione della prescrizione del reato è infondato, perché è intervenuta la riqualificazione in iure della misura ablativa quanto alla configurazione della confisca come diretta, anziché per equivalente, sicché la sentenza impugnata va annullata con rinvio, dovendosi porre riparo al vizio motivazionale che, in parte qua, l’affligge e che si risolve nella verifica della praticabilità della confisca delle somme accreditate sui conti dei ricorrenti, S., nella misura in cui sia rigorosamente provato che NV abbia la piena disponibilità di tali somme, essendo evidente che, nel caso di interposizione fittizia, il titolare apparente non può ritenersi persona estranea al reato, epilogo, quest’ultimo, ovviamente valido anche con riferimento alla posizione F..
Deve, infatti, ritenersi che, in tema di confisca, la mera intestazione a terzi del profitto del reato (nella specie, di una parte del risparmio di spesa conseguito mediante l’evasione del tributo), quando precisi elementi di fatto consentano di ritenere che l’intestazione sia del tutto fittizia e che in realtà sia l’autore dell’illecito ad avere la sostanziale disponibilità del bene, non integra la nozione di “persona estranea al reato”, la quale non esige la compartecipazione criminosa ma soltanto che il terzo non abbia ricavato vantaggi ed utilità dal reato e che sia in buona fede (v. Sez. 3, n. 29586 del 17/02/2017, Romano, Rv. 270250; Sez. 2, n. 13360 del 03/02/2011,Cioce, Rv. 249885).
Dovendosi poi quantificare con esattezza l’entità del profitto confiscabile (secondo quanto chiarito sub 5.1. e 5.2. del considerato in diritto) e risolvendosi la complessiva quantificazione in un accertamento di fatto, non consistendo il predetto accertamento nella sola operazione aritmetica di sottrazione dell’Irap e dell’Iva dall’importo dell’imposta evasa, come quantificata nell’imputazione, ma anche nella determinazione della plusvalenza tassabile, la sentenza impugnata va annullata con rinvio anche limitatamente alla determinazione del profitto confiscabile per tutti i ricorrenti.
I ricorsi vanno invece rigettati nel resto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata:
senza rinvio, limitatamente al residuo reato di cui al capo B) perché estinto per prescrizione;
qualificata la confisca come diretta e non per equivalente, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano limitatamente alla praticabilità della confisca nei confronti di S. AS e Scinnemi Giacomo nonché alla determinazione del profitto confiscabile per tutti i ricorrenti.
Rigetta nel resto i ricorsi.
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