Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 39909 depositata il 4 settembre 2018
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di sorveglianza di Roma – nel concedere a SB la detenzione domiciliare, in relazione alla pena di due anni di reclusione, inflitta per bancarotta fraudolenta (risalente all’anno 2012) e sospesa ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. – negava il più ampio beneficio dell’affidamento in prova al servizio sociale.
Il Tribunale, a sostegno della decisione, esprimeva uno sfavorevole giudizio sull’idoneità dell’attività lavorativa, intrapresa dal condannato, a garantire la sua risocializzazione. SB era infatti occupato alle formali dipendenze della società «ME», di cui in passato era stato amministratore e di cui ragionevolmente ancora gestiva le sorti, avente sede sociale coincidente con quella di una delle società (l’omonima impresa individuale) già dichiarate fallite. Facendo le compagini entrambe capo, di fatto o di diritto, al condannato, la concessione dell’affidamento tradirebbe le finalità della misura, perché permetterebbe lui di operare nel medesimo contesto imprenditoriale in cui maturarono i fatti di bancarotta.
2. SB ricorre per cassazione, tramite il difensore di fiducia, affidato a tre connessi motivi, con cui deduce la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
Alla gestione delle imprese fallite (quella individuale, così come la società in accomandita SB) provvederebbero gli organi della procedura concorsuale, sotto il controllo del Tribunale, e a tanto sarebbe del tutto estraneo l’operato della società «ME», avente oggetto sociale e compagine societaria affatto distinti.
Di tale ultima società il condannato, suo amministratore in tempi lontani, non manterrebbe comunque, ad oggi, alcun controllo gestionale.
La negativa prognosi di risocializzazione, espressa dal Tribunale, si baserebbe dunque su una fuorviante rappresentazione della realtà, e d’altra parte il condannato sarebbe in grado di dare prova del suo reinserimento sociale anche al di là della sua attività lavorativa, che era stata menzionata solo come elemento in tal senso indicatore.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato, nei termini di seguito precisati.
2. L’affidamento in prova al servizio sociale, disciplinato dall’art. 47 Ord. pen., è la misura alternativa alla detenzione carceraria che, a pieno titolo, attua la finalità costituzionale rieducativa della pena.
Esso può essere concesso, entro la generale cornice di ammissibilità prevista dalla legge, allorché, sulla base dell’osservazione della personalità del condannato condotta in istituto, o del comportamento da lui serbato in libertà, possa ritenersi che la misura, anche attraverso l’adozione di opportune prescrizioni, possa contribuire al percorso di rieducazione, prevenendo il pericolo di ricaduta nel reato.
Ciò che assume rilievo, rispetto all’affidamento, è l’evoluzione della personalità registratasi successivamente al fatto-reato, nella prospettiva di un ottimale reinserimento sociale (Sez. 1, n. 33287 del 11/06/2013, Pantaleo, Rv. 257001). Il processo di emenda deve essere significativamente avviato, ancorché non sia richiesto il già conseguito ravvedimento, che caratterizza il diverso istituto della liberazione condizionale, previsto dal codice penale (Sez. 1, n. 43687 del 07/10/2010, Loggia, Rv. 248984; Sez. 1, n. 26754 del 29/05/2009, Betti, Rv. 244654; Sez. 1, n. 3868 del 26/06/1995, Anastasio, Rv. 202413).
3. Rientra nella discrezionalità del giudice di merito l’apprezzamento sull’idoneità o meno, ai fini della risocializzazione e della prevenzione della recidiva, della misura alternativa indicata, ovvero l’eventuale scelta della misura gradata della detenzione domiciliare (ove ritenuta maggiormente congrua nel caso concreto), all’esito di una prognosi comune alle due misure e frutto di un unitario accertamento (Sez. 1, n. 16442 del 10/02/2010, Pennacchio, Rv. 247235).
Le relative valutazioni non sono censurabili in sede di legittimità, a patto che siano sorrette da motivazione adeguata e rispondente a canoni di logicità e intima coerenza (Sez. 1, n. 652 del 10/02/1992, Caroso, Rv. 189375).
4. A tali canoni si sottrae invero l’ordinanza impugnata, viziata nella consequenzialità del ragionamento svolto.
Non essendo la società »ME», ove SB lavora, coinvolta nel fallimento della omonima società in accomandita Scquicquaro, e dell’impresa individuale, aventi diverso oggetto sociale, e quindi neppure nella commessa bancarotta, appare manifestamente illogica la perentoria affermazione secondo cui accordare al condannato l’affidamento in prova significherebbe consentirgli «di eseguire una misura alternativa con finalità risocializzante nel medesimo contesto imprenditoriale in cui si è consumato il delitto ascrittogli, vanificando lo scopo di essa».
Un tale assunto sarebbe giustificabile solo ove fossero riscontrati elementi di collegamento tra le imprese fallite (di cui non è peraltro nota l’eventuale persistente operatività) e «ME», diversi dalla mera comunanza di sede sociale; nonché emergesse l’ingerenza del condannato, attuale ed effettiva, nella gestione di tale ultima società. L’ordinanza impugnata, nel relativo accertamento carente, deve essere pertanto annullata, con rinvio al giudice che l’ha pronunciata per rinnovato esame al riguardo.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di sorveglianza di Roma.
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