CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 39960 depositata il 30 settembre 2019
Tributi – Accertamento – Spesometro – Omessa presentazione dichiarazione IVA – Evasione – Rilevanza penale
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 9 gennaio 2019, la Corte d’appello di Salerno, decidendo il gravame proposto da M.D.F., ha confermato la sentenza con cui il medesimo è stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 5 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 per aver omesso di presentare la dichiarazione dei redditi per l’anno d’imposta 2011, al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto, per un importo dovuto, accertato dall’Agenzia delle Entrate di Pagani attraverso lo strumento dello spesometro, pari ad Euro 99.570,00.
2. Avverso la sentenza di appello, ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo, con il primo motivo, la nullità del procedimento di secondo grado per omessa notifica del decreto di citazione a giudizio nei confronti dell’imputato, posto che – non avendo egli eletto domicilio, né mai mutato la propria residenza – l’avviso era stato notificato esclusivamente al difensore, il quale, nell’atto di nomina, aveva peraltro esplicitato di non accettare notifiche dirette all’imputato.
3. Con il secondo motivo si lamentano l’omessa motivazione e la violazione dell’art. 5 d.lgs. 74/2000, innanzitutto per essere stata ritenuta superata la soglia di punibilità indicata nella fattispecie incriminatrice sulla scorta del valore imponibile IVA ricostruito dall’Agenzia delle Entrate in base alle fatture di vendita indicate dall’odierno ricorrente nello spesometro integrato, senza considerare le fatture di acquisto, la cui IVA andava compensata con quella delle fatture di vendita, operazione che avrebbe ridotto l’importo d’imposta dovuto ad un valore inferiore alla soglia di rilevanza penale. In secondo luogo si lamenta l’omissione di motivazione con riguardo alla sussistenza del dolo specifico di evasione richiesto dalla fattispecie incriminatrice.
4. Con il terzo motivo di ricorso si propone questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 d.lgs. 74/2000, per contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione. In particolare, il ricorrente lamenta l’irragionevolezza della disciplina ed il difetto di proporzionalità della pena evidenziando le differenti soglie di punibilità e cornici edittali di pena delle fattispecie di cui agli artt. 5 e 8 d.lgs. 74/2000, nonostante si tratti di condotte sostanzialmente identiche poste a tutela del medesimo bene giuridico.
Considerato in diritto
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
Risulta dagli atti, il cui esame è consentito dalla natura della doglianza sollevata, che la notificazione all’imputato del decreto di citazione a giudizio in grado d’appello è stata tentata a mezzo UNEP presso la sua residenza di Pagani, Via D.G., il 5 ottobre 2018.
Non essendo stato rinvenuto alcuno presso l’abitazione, la notificazione è avvenuta secondo la procedura di cui all’art. 157, comma 8, cod. proc. pen., con conseguente deposito di copia dell’atto in busta chiusa e sigillata presso la casa comunale di Pagani, affissione del relativo avviso del deposito sulla porta dell’abitazione e comunicazione al destinatario con lettera raccomandata dell’avvenuto deposito. Quanto all’ultimo dei menzionati incombenti, nella relata di notifica si dà atto dell’avvenuta spedizione della raccomandata (n. 66838071757-0), ma dall’annotazione dell’ufficiale postale effettuata sul plico in data 12 ottobre 2018 risulta che lo stesso non è stato consegnato per essere il destinatario “sconosciuto”.
1.2. Essendo divenuta impossibile la notifica presso l’abitazione, l’atto è stato correttamente notificato al difensore ai sensi dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen.
Ed invero, dal decreto di citazione a giudizio di primo grado risulta che con tale atto l’imputato era stato espressamente invitato «a dichiarare o eleggere domicilio, con l’avvertimento dell’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto e che, in caso di mancanza di insufficienza o di inidoneità della dichiarazione o delle elezione di domicilio, le successive notificazioni verranno eseguite nel luogo in quest’atto è stato notificato», vale a dire, appunto, la residenza di Pagani, Via D.G. (la notificazione presso quell’indirizzo si era in allora perfezionata, come risulta dalla relata di notifica, con deposito di copia dell’atto nella casa comunale ed il compimento delle altre formalità indicate nell’art. 157, comma 8, cod. proc. pen.; che l’imputato avesse ricevuto la notifica del decreto in questione è peraltro stato espressamente riferito dal difensore alla prima udienza del processo di primo grado e ribadito in ricorso).
A fronte, dunque, di tale espresso invito, non avendo l’imputato dichiarato o eletto domicilio diverso da quello così “determinato” ai sensi dell’art. 161, comma 2, cod. proc. pen. ed essendo divenuta impossibile la notificazione presso il medesimo, in forza della previsione contenuta nella prima parte dell’ultimo comma di tale disposizione, la notificazione del decreto di citazione a giudizio per il grado d’appello è stata correttamente eseguita mediante consegna al difensore. Il richiamato dettato normativo, di fatti, è chiarissimo e, ribadendo un indirizzo in altre occasioni già affermato in simili casi (Sez. 5, n. 20742 del 18/04/2014, Di Coste, Rv. 259859; Sez. 1, n. 10427 del 20/02/2009, Miozzi, Rv. 242901), deve affermarsi il principio secondo cui l’avvenuta notifica con esito positivo nella residenza anagrafica dell’imputato del decreto di citazione a giudizio di primo grado che contenga l’invito previsto dall’art. 161, comma 2, cod. proc. pen. implica che, in caso di mancata elezione o dichiarazioni di un diverso domicilio, detto luogo debba considerarsi come domicilio “determinato” ai sensi della stessa disposizione, con la conseguenza che le successive notificazioni, divenute impossibili da eseguire in tale luogo, sono legittimamente effettuate al difensore.
2. Le doglianze contenute nel secondo motivo di ricorso sono inammissibili per genericità e manifesta infondatezza.
2.1. Quanto alla contestazione circa l’omessa motivazione, da parte del giudice di primo grado, sul fatto che lo “spesometro” non considera l’IVA a credito risultante dalle fatture di acquisto, si tratta di doglianza inammissibile perché non risulta dedotta con il gravame di merito.
Richiamando consolidati principi affermati con riguardo alla causa di inammissibilità di cui all’art. 606, comma 3, ult. parte, cod. proc. pen., deve ribadirsi che laddove si deduca con il ricorso per cassazione il mancato esame da parte del giudice di secondo grado di un motivo dedotto con l’atto d’appello, occorre procedere alla specifica contestazione del riepilogo dei motivi di gravame, contenuto nel provvedimento impugnato, che non menzioni la doglianza proposta in sede di impugnazione di merito, in quanto, in mancanza della predetta contestazione, il motivo deve ritenersi proposto per la prima volta in cassazione (Sez. 2, n. 31650 del 03/04/2017, Ciccarelli e a., Rv. 270627; Sez. 2, n. 9028/2014 del 05/11/2013, Carrieri, Rv. 259066). Nella specie ciò non è stato fatto e per ciò solo il motivo è inammissibile, ricavandosi peraltro dal disposto di cui all’art. 606, comma 3, cod. proc. pen. il principio secondo cui è precluso dedurre per la prima volta in sede di legittimità questioni di cui il giudice dell’impugnazione sul merito non era stato investito (cfr. Sez. 5, n. 3560 del 10/12/2013, dep. 2014, Palmas e aa., Rv. 258553).
2.1.1. In ogni caso la doglianza è del tutto priva di specificità poiché a questa Corte non è stata fornita alcuna allegazione che permetta di accertare l’eventuale travisamento della prova per omissione, vale a dire l’omessa valutazione, da parte dei giudici di merito, dell’IVA a credito risultante da fatture di acquisto pagate dall’imputato.
2.2. Del pari generica è la doglianza relativa alla dedotta insussistenza dell’elemento soggettivo: l’imputato non allega alcuna ragione, diversa dall’intento di evadere le imposte, circa la mancata presentazione della dichiarazione dei redditi e l’imposta evasa era decisamente superiore (quasi doppia) a quella che integra la soglia di rilevanza penale della condotta e che nella specie era ictu oculi determinabile, trattandosi dell’IVA dovuta sulle fatture di vendita. Va, pertanto, richiamato il principio secondo cui in tema di reati tributari, la prova del dolo specifico di evasione, nel delitto di omessa dichiarazione di cui all’art. 5, d.lgs. 74 del 2000, può essere desunta dall’entità del superamento della soglia di punibilità vigente, unitamente alla piena consapevolezza, da parte del soggetto obbligato, dell’esatto ammontare dell’imposta dovuta (Sez. 3, n. 18936 del 19/01/2016, V., Rv. 267022), ammontare che, peraltro, può costituire oggetto di rappresentazione e volizione anche soltanto nella forma del c.d. dolo eventuale (cfr. Sez. 3, n. 7000 del 23/11/2017, dep. 2018, Venturini, Rv. 272578).
3. Manifestamente infondata e generica, da ultimo, è la questione di legittimità costituzionale dedotta con il terzo motivo di ricorso. In disparte l’incongruenza tra le (scarne) argomentazioni dedotte a sostegno della richiesta e l’indicazione del tertium comparationis rispetto al quale si prospettano i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 5 d.lgs. 74 del 2000 (in ricorso, di fatti, viene sempre citato l’art. 8 del decreto, che punisce l’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e che non ha alcuna soglia di rilevanza penale), quand’anche – come sembrerebbe dal tenore delle argomentazioni – il ricorrente volesse far riferimento al disposto di cui all’art. 10 ter d.lgs. 74 del 2000 (vale a dire al reato di omesso versamento dell’IVA), i dubbi di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 27 Cost. sono manifestamente infondati.
Se è condivisibile il rilievo che entrambe le disposizioni (come, peraltro, tutte quelle previste nel d.lgs. 74 del 2000) tutelano l’interesse dell’Erario al versamento delle imposte, non v’è dubbio che sia ben più grave omettere la dichiarazione d’imposta (sì da imporre all’amministrazione finanziaria un onere aggiuntivo, il cui adempimento non è sempre agevole, per l’accertamento della base imponibile e/o delle imposte dovute), piuttosto che effettuare correttamente la dichiarazione ed omettere poi il versamento di quanto autoliquidato. L’omissione di cui all’art. 5 d.lgs. 74 del 2000 determina un’offesa del bene giuridico – oltre che anticipata – ben più grave rispetto a quella determinata dalla condotta sussumibile nel successivo art. 10-ter proprio perché impone allo Stato di attivarsi non soltanto per la semplice riscossione di un credito certo, liquido ed esigibile (perché dichiarato dallo stesso debitore), ma di procedere alla determinazione dello stesso, con conseguente possibilità dell’obbligato di contestare l’accertamento e di instaurare sul punto un (potenzialmente non semplice e non breve) contenzioso.
La diversa soglia di punibilità ed il differente trattamento sanzionatorio – la cui concreta determinazione è peraltro rimessa alla discrezionalità legislativa, nella specie non irragionevolmente esercitata (il ricorrente sul punto non spende parola) – sono dunque oggettivamente e razionalmente giustificati.
4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, tenuto conto della sentenza Corte cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., oltre all’onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di €. 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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