Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 40098 depositata il 6 settembre 2018
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Potenza con sentenza del 12/5/2017, ha parzialmente riformato la sentenza del Tribunale di Potenza del 24/3/2014, appellata dall’imputato TG, che l’aveva ritenuto responsabile del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale in concorso ex artt.110, cod.pen., 216, comma 1, n.1 e 2, 219, commi 1 e 2, legge fall. in relazione alla impresa individuale PG, dichiarata fallita il 10/1/2002 (capo A) e del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale in concorso ex artt.110, cod.pen., 216 n.1 e 2, 219, commi 1 e 2, legge fall. in relazione alla società P. S.p.a., dichiarata fallita il 13/6/2001 (capo B) e l’aveva pertanto condannato alla pena di anni cinque di reclusione, con le pene accessorie di legge al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, e alla rifusione delle spese in favore delle parti civili, ossia i fallimenti «P. s.p.a.»e «PG».
La Corte di appello ha concesso all’imputato le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, ha ridotto la pena ad anni tre di reclusione, ha revocato la pena accessoria dell’interdizione legale, ha stabilito in anni cinque la durata dell’interdizione dai pubblici uffici e ha confermato nel resto la sentenza di primo grado.
L’accusa per il reato di cui al capo A) era stata proposta nei confronti del TG, già membro del collegio sindacale di P. S.p.a., in qualità di legale rappresentante della I. s.r.l. e di procuratore della ditta fallita PG, in concorso con PGA e PLA, giudicati separatamente, per una serie di operazioni negoziali ritenute distrattive: la cessione in affitto di un ramo di azienda per produzione di gabbioni, reti metalliche e fili zincati, nonché di capannoni, attrezzature e dell’uso in licenza di marchi e brevetti, senza il versamento del canone previsto; l’utilizzazione del conto titolare a titolo personale fino a portare a 21 milioni di lire il credito dell’impresa nei suoi confronti, compensato da un fittizio apporto di immobili; la cessione delle quote di partecipazione in I. s.r.l. per il 60% del capitale; la cessione delle quote di partecipazione in M. s.r.l. per il 60% del capitale; l’incasso di C 34.743,23 a titolo di canoni di locazione di un immobile in usufrutto; la cessione senza corrispettivo, dopo la dichiarazione di fallimento, di due autobetoniere.
L’accusa per il reato di cui al capo B) era stata proposta nei confronti del TG, quale membro del collegio sindacale di P. S.p.a., in qualità di legale rappresentante della E. s.r.l. e della I. s.r.l. e di procuratore della ditta fallita PG, in concorso con PGA e PP, AG, TM, giudicati separatamente, per una serie di operazioni negoziali ritenute distrattive: la cessione di un ramo di azienda alla E. a prezzo simulato; l’iscrizione nello stato patrimoniale del conto socio/finanziamento PG, utilizzato a titolo personale con confusione delle attività di gestione con quelle personali e creando un credito verso il PG di oltre 9 miliardi di lire; l’estromissione dal patrimonio sociale di materiali, trattori e veicoli; la distrazione di un impianto di frantumazione macchine operatrici e automezzi; era stata altresì contestata la tenuta di libri e scritture contabili in modo tale da non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari.
2. Ha proposto ricorso l’avv.Leonardo Pace, difensore di fiducia dell’imputato, svolgendo due motivi.
2.1. Con il primo motivo, proposto ex art.606, comma 1, lett. b) ed e), cod.proc.pen., il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione all’art. 216 legge fall. nonché mancanza e contraddittorietà della motivazione, in relazione alla posizione dell’amministratore c.d. «testa di legno» nelle fattispecie di bancarotta patrimoniale.
La Corte di appello aveva richiamato contraddittoriamente il precedente di cui alla sentenza 19049 del 19/2/2010, secondo la quale non era consentito, in tema di responsabilità distrattiva dell’amministratore apparente, rifarsi automaticamente alla regola per cui il mancato reperimento dei beni nella disponibilità dell’imprenditore fallito implica la consapevolezza dei disegni criminosi dell’amministratore di fatto.
La Corte territoriale, poi, richiamato il dato di fatto della palese soggezione del TG al dominus reale PG e la sua veste di mera «testa di legno», aveva ritenuto l’imputato responsabile di bancarotta fraudolenta patrimoniale senza argomentare circa la necessaria consapevolezza dei disegni criminosi perseguiti dall’amministratore di fatto.
La responsabilità era stata così ritenuta senza alcuna prova, né alcun ragionamento opportunamente articolato in ordine alla volontà e alla consapevolezza ascrivibili all’imputato in riferimento alle singole operazioni economiche ritenute distrattive.
In particolare non si era tenuto conto dei seguenti fatti: il TG era titolare di una mera procura speciale a riscuotere; la sua veste di membro del collegio sindacale era cessata in data 25/3/1999; una precedente sentenza del Tribunale di Potenza aveva escluso ogni responsabilità in capo ai membri del collegio sindacale.
2.2. Con il secondo motivo, proposto ex art.606, comma 1, lett. b) ed e), cod.proc.pen., il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione all’art.216 legge fall. nonché mancanza e contraddittorietà della motivazione, in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante contestata.
La Corte di appello, anziché parametrare la valutazione di gravità del danno patrimoniale al valore complessivo dei beni sottratti all’esecuzione concursuale, tenendo anche conto delle dimensioni dell’impresa e della natura delle sue operazioni, come avrebbe dovuto, si era limitata a una valutazione forfettaria in quanto non oggetto di alcuna doglianza quantitativa.
Anche l’aggravante dei plurimi fatti di bancarotta era stata ravvisata anche se le numerose e reiterate condotte erano riconducibili ad un unico reato in quanto realizzate in rapida successione cronologica ed erano pertinenti ad un unico patrimonio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione all’art.216 legge fall. nonché mancanza e contraddittorietà della motivazione, in relazione alla posizione dell’amministratore c.d. «testa di legno» nelle fattispecie di bancarotta patrimoniale.
1.1. Il ricorrente, osserva che la Corte di appello aveva richiamato in modo non pertinente il precedente di cui alla sentenza 19049 del 19/2/2010, secondo la quale non era consentito, in tema di responsabilità distrattiva dell’amministratore apparente, rifarsi automaticamente alla regola per cui il mancato reperimento dei beni nella disponibilità dell’imprenditore fallito implica la consapevolezza dei disegni criminosi dell’amministratore di fatto.
1.2. Effettivamente il filone giurisprudenziale richiamato non si attaglia al caso di specie e l’equivoco può essersi ingenerato per l’utilizzo con significati diversi della stessa espressione riassuntiva «testa di legno» come sinonimo di prestanome.
La giurisprudenza citata ricorre al concetto di «testa di legno» e prestanome per riferirsi all’amministratore di diritto di una società, formalmente investito della carica, ma in realtà mero strumento di un dominus occulto, che opera come effettivo amministratore di fatto della società; si ritiene quindi che l’amministratore di diritto, meramente apparente, debba comunque rispondere delle mistificazioni e delle carenze nella tenuta dei libri e delle scritture contabili, in presenza di un suo obbligo diretto e personale scaturente dalla carica rivestita, ma non dei fatti distrattivi in difetto di prova di una specifica consapevolezza dei disegni criminosi perseguiti e realizzati dall’amministratore di fatto.
1.3. Nel caso in esame il concetto di «testa di legno» e la funzione di prestanome sono stati attribuiti al TG, che non era affatto amministratore di diritto della società, in una diversa accezione, ossia per esprimere l’idea che egli era un mero strumento nelle mani di PG, sia come imprenditore individuale, sia come amministratore della società, per perseguire i propri disegni criminosi: ossia che il PG aveva realizzato le condotte distrattive avvalendosi della collaborazione attiva del TG, gregario docile e asservito ai progetti criminosi del PG.
1.4. Tuttavia, a prescindere dalla citazione non pertinente, la Corte territoriale ha fondato la responsabilità del TG sul carattere pacifico della realizzazione da parte sua delle condotte oggetto di imputazione, sull’assenza di ogni contestazione difensiva al proposito nonché sulle sostanziali ammissioni dell’imputato compiute all’udienza del 27/1/2014,
1.5. Secondo il ricorrente, la Corte territoriale, poi, richiamato il dato di fatto della palese soggezione del TG al dominus reale PG e la sua veste di mera «testa di legno», aveva ritenuto l’imputato responsabile di bancarotta fraudolenta, patrimoniale senza argomentare circa la necessaria consapevolezza dei disegni criminosi perseguiti dall’amministratore di fatto.
La responsabilità sarebbe stata così ritenuta senza alcuna prova, né alcun ragionamento opportunamente articolato in ordine alla volontà e alla consapevolezza ascrivibili all’imputato in riferimento alle singole operazioni economiche ritenute distrattive.
Ben diversamente, la Corte di appello, pur tenendo conto della soggezione in cui versava il TG rispetto al PG, quale elemento rilevante ai fini del trattamento sanzionatorio, ha attribuito rilievo, anche sotto il profilo soggettivo, alla riconosciuta consapevolezza del carattere illecito delle condotte, timidamente esternata dall’imputato al suo dominus e da questi prontamente rintuzzata con l’ordine di eseguire le varie operazioni senza farsi problemi se voleva conservare la sua posizione.
Il Giudice di appello non ha quindi sostenuto che TG aveva gli elementi per rendersi conto del carattere illecito delle operazioni a cui si era prestato per agevolare i propositi del PG, ma piuttosto che egli se ne era reso perfettamente conto, fino al punto da esternare le proprie perplessità e resistenze al PG, salvo poi tacitare le proprie remore a fronte dell’imperioso e arrogante atteggiamento del titolare dell’azienda, che gli aveva ricordato la sua subalternità e i vantaggi che ne conseguivano.
1.6. Il ricorrente sostiene che in particolare non si era tenuto conto dei seguenti fatti: il TG era titolare di una mera procura speciale a riscuotere; la sua veste di membro del collegio sindacale era cessata in data 25/3/1999; una precedente sentenza del Tribunale di Potenza aveva escluso ogni responsabilità in capo ai membri del collegio sindacale.
A questo proposito la Corte di appello ha evidenziato che il coinvolgimento del TG non era fondato solo sulla carica rivestita nel collegio sindacale, rifiutando così la pertinenza del paragone con gli altri componenti del collegio; per altro verso le responsabilità del TG erano state collegate non solo all’utilizzo della procura, ma anche alle cariche ricoperte in E. e in I., società fittiziamente costituite per stornare beni e risorse dall’impresa e dalla società del PG, agendo quale fantoccio di costui, ma ricavandone anche consistenti benefici, oltre allo stipendio quale dipendente della ditta PG [l’amministrazione e i relativi emolumenti nelle società I., E. e M., la disponibilità a titolo gratuito di un appartamento e un riconoscimento di debito da spendere in sede fallimentare di oltre 70 milioni di lite (cfr sentenza di primo grado, pag.6)]. 2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione all’art.216 legge fall. nonché mancanza e contraddittorietà della motivazione, in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante contestata.
2.1. Il ricorrente sostiene che la Corte di appello, anziché calibrare la valutazione di gravità del danno patrimoniale al valore complessivo dei beni sottratti all’esecuzione concursuale, tenendo anche conto delle dimensioni dell’impresa e della natura delle sue operazioni, come avrebbe dovuto, si era limitata a una valutazione forfettaria, facendo leva sull’assenza di una precisa doglianza quantitativa.
Il motivo di appello sul punto era del tutto generico a fronte delle imponenti valorizzazioni dei fatti distrattivi descritti nei capi di imputazione e la Corte si è conseguentemente limitata a sottolineare che l’impugnazione non incideva sull’aspetto quantitativo delle distrazioni.
La censura è quindi aspecifica e comunque manifestamente infondata.
2.2. Secondo il ricorrente, anche l’aggravante dei plurimi fatti di bancarotta era stata ravvisata anche se le numerose e reiterate condotte erano riconducibili ad un unico reato in quanto realizzate in rapida successione cronologica ed erano pertinenti ad un unico patrimonio.
La censura è manifestamente infondata.
Al TG erano state addebitale plurime e variegate condotte distrattive, in parte riferibili alla ditta P. e in parte alla P. S.p.a. e sussistevano quindi ampiamente gli estremi, pur nella riconoscibilità di un medesimo disegno criminoso, per l’applicazione dell’aggravante di cui all’art.219, comma 2, legge fall., che costituisce un trattamento di maggior favore rispetto all’ordinaria disciplina della continuazione di cui all’art.81 cod.pen.
Occorre infatti ricordare che secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di reati fallimentari, nel caso di consumazione di una pluralità di condotte tipiche di bancarotta nell’ambito del medesimo fallimento, le stesse mantengono la propria autonomia ontologica, dando luogo ad un concorso di reati, unificati, ai soli fini sanzionatori, nel cumulo giuridico previsto dall’art. 219, comma 2, n. 1, legge fall., disposizione che pertanto non prevede, sotto il profilo strutturale, una circostanza aggravante, ma detta per i reati fallimentari una peculiare disciplina della continuazione derogatoria di quella ordinaria di cui all’art. 81 cod. pen. (Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011, P.M. in proc. Loy, Rv. 249665).
2.3. E’ solo il caso di aggiungere, per completezza, che entrambe le aggravanti sono state sterilizzate nella sentenza di secondo grado agli effetti sanzionatori dal riconoscimento delle attenuanti generiche equivalenti con la conseguente irrogazione di una pena pari al minimo edittale.
3. Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile; ne consegue la condanna del ricorrente ai sensi dell’art.616 cod.proc.pen. al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di € 2.000,00= in favore della Cassa delle ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere il ricorrente in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. 13/6/2000 n.186).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di € 2.000,00 a favore della Cassa delle ammende.
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