CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 40100 depositata il 6 settembre 2018
Fallimento ed altre procedure concorsuali – Bancarotta fraudolenta – Omissione sistematica del pagamento di imposte e contributi – Cagionato fallimento della società – Responsabilità penale – Socio accomandatario e amministratore – Sussiste
Ritenuto in fatto
1. La Corte di appello di Milano con sentenza del 5/12/2017 ha confermato la sentenza del Tribunale di Milano del 16/2/2016, appellata dall’imputato, che aveva ritenuto A.Z. responsabile del reato di bancarotta fraudolenta documentale e di cagionato fallimento tramite operazioni dolose ex artt. 223, comma 1, 216, comma 1, n. 2, 223, comma 2, 219, comma 2, n. 1 legge fall, (capo A) e del reato di cui all’art. 10 quater d.lgs. 10/3/2000 n. 74 (capo B) e l’aveva perciò condannato alla pena di anni 2 e mesi 2 di reclusione, previa unificazione dei due reati sotto il vincolo della continuazione e con la concessione delle attenuanti generiche prevalenti, con le pene accessorie di legge.
Con il capo A) era stato imputato allo Z., nella sua qualità di socio accomandatario illimitatamente responsabile e di amministratore della società A.Z.M. di Z. A. & C., dichiarata fallita in data 16/11/2011, di aver sottratto e distrutto libri e scritture contabili della società allo scopo di procurarsi ingiusto profitto e di danneggiare i creditori e comunque di aver tenuto libri e scritture in guisa tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, nonché di aver cagionato il fallimento della società con operazioni dolose, in particolare omettendo sistematicamente il pagamento delle obbligazioni tributarie e delle obbligazioni contributive verso gli enti previdenziali con la maturazione di un debito complessivo di € 1.818.914.
Con il capo B) era stato contestato allo Z. di non aver versato l’IVA per l’anno di imposta 2009 entro il termine per il versamento dell’acconto per l’anno successivo, utilizzando in compensazione crediti non spettanti per € 62.005,00.
2. Ha proposto ricorso l’avv. R.G., difensore di fiducia dell’imputato, svolgendo quattro motivi.
2.1. Con il primo motivo, proposto ex art. 606, comma 1, lett. b), cod.proc.pen., il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione al reato di bancarotta impropria.
Non era sufficiente la commissione di una operazione dolosa in sé, ma era anche necessario che al momento della relativa commissione il fallimento rappresentasse una conseguenza prevedibile ed evitabile in concreto. L’autore della condotta deve essere consapevole della natura dolosa dell’operazione e volerla, e deve rappresentarsi l’evento fallimentare come effetto dell’azione antidoverosa realizzata.
Una crisi di liquidità rappresentava una causa di forza maggiore capace di escludere la volontà del soggetto di omettere il versamento dei tributi dovuti.
La responsabilità penale dell’imputato era stata ravvisata sulla base della mera causazione materiale del fallimento, senza la prova di una sua effettiva volontà di ledere gli interessi dei creditori e della sua consapevolezza che dalla condotta posta in essere potesse scaturire il fallimento.
L’imputato aveva pagato in nero i lavoratori, creditori privilegiati, pur di continuare a lavorare.
Decisivo era risultato il mancato pagamento di un consistente credito di € 200.000 per lavori eseguiti e non pagati presso la Casa di Cura Bellora di Gallarate.
2.2. Con il secondo motivo, proposto ex art. 606, comma 1, lett. e), cod.proc.pen., il ricorrente lamenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in relazione agli elementi fondanti la responsabilità penale dell’imputato per i reati di cui al capo A).
La valutazione di irrilevanza del pagamento in nero dei lavoratori, espressa dalla Corte era contraddittoria; invece il pagamento di creditori privilegiati era dirimente ai fini della sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestato.
Quindi il ricorrente ripete le stesse circostanze già esposte nel contesto del primo motivo. Era mancata la motivazione circa le rappresentate oggettive difficoltà nel recupero dei crediti derivanti dall’attività lavorativa della società.
In relazione alla contestata bancarotta documentale, la teste Veglia, segretaria per tre anni, aveva riferito che le fatture venivano portate da un commercialista esterno. Tutta la documentazione contabile e fiscale in possesso dell’imputato era stata consegnata al curatore.
2.3. Con il terzo motivo, proposto ex art. 606, comma 1, lett. b), cod.proc.pen., il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione all’art. 10 quater d.lgs.74/2000.
Il mancato versamento per illegittima compensazione doveva trovare la sua base della prova del carattere indebito della compensazione stessa.
La documentazione contabile e fiscale era tenuta da consulenti esterni, sicché l’imputato non doveva rispondere del loro operato per mera mancata vigilanza, e la documentazione da lui posseduta era stata consegnata al curatore.
2.4. Con il quarto motivo, proposto ex art. 606, comma 1, lett. e), cod.proc.pen., il ricorrente lamenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in relazione al capo di imputazione sub B), riprendendo le considerazioni esposte nel precedente motivo.
3. In data 21/6/2018 l’avv. G., difensore dell’imputato, ha dichiarato la propria intenzione di aderire alla astensione proclamata dall’Unione Camere Penali per il 25/6/2018.
Il Procuratore generale si è opposto al rinvio.
La Corte, preliminarmente, ha respinto l’istanza di rinvio perché il codice di autoregolamentazione non consente l’astensione se il reato per cui si procede si prescrive entro 90 giorni e perché il reato di cui all’art. 10 quater del d.lgs. 10/3/2000 n. 74 (capo B), contestato con riferimento alla data del 27/12/2010, veniva a prescriversi il 27/6/2018, in difetto di sospensioni del decorso della prescrizione.
1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione al reato di bancarotta impropria.
1.1. Il ricorrente osserva che non era sufficiente la commissione di una operazione dolosa in sé, ma era anche necessario che al momento della sua commissione il fallimento rappresentasse una conseguenza prevedibile ed evitabile in concreto; l’autore della condotta deve infatti essere consapevole e volere la natura dolosa dell’operazione e rappresentarsi l’evento fallimentare come effetto dell’azione antidoverosa realizzata.
Aggiunge il ricorrente che una crisi di liquidità rappresenta una causa di forza maggiore idonea ad escludere la volontà del soggetto di omettere il versamento dei tributi dovuti; che la responsabilità penale dell’imputato era stata ravvisata sulla base della mera causazione materiale del fallimento, senza la prova di una sua effettiva volontà di ledere gli interessi dei creditori e della consapevolezza che dalla sua condotta potesse scaturire il fallimento; che l’imputato aveva pagato in nero i lavoratori, creditori privilegiati, pur di continuare a lavorare; che decisivo era risultato il mancato pagamento di un consistente credito di € 200.000 per lavori eseguiti presso la Casa di Cura Bellora di Gallarate.
1.2. L’art. 223, comma 2, n. 2, della legge fallimentare assoggetta alla pena prevista dal primo comma dell’art. 216 della stessa legge gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori di società dichiarate fallite, che abbiano cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società.
1.3. Secondo l’orientamento costante di questa Corte, a cui il Collegio intende garantire continuità, in tema di fallimento determinato da operazioni dolose, non interrompono il nesso di causalità tra l’operazione dolosa e l’evento fallimentare né la preesistenza alla condotta di una causa in sé efficiente verso il dissesto, valendo la disciplina del concorso causale di cui all’art. 41 cod.pen. né il fatto che l’operazione dolosa contestata abbia cagionato anche solo l’aggravamento di un dissesto già in atto (Sez. 5, n. 40998 del 20/05/2014, Concu e altro, Rv. 262189; Sez. 5, n. 8413 del 16/10/2013, dep. 2014, Besurga, Rv. 259051; Sez. 5, n. 17690 del 18/2/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a. e altri, Rv. 247316; Sez. 5, n. 19806 del 28/3/2003, Negro ed altri, Rv. 224947).
1.4. Un costante orientamento di questa Corte, dedicato alla tecnica di autofinanziamento mediante sistematico ricorso all’omissione del pagamento di imposte e contributi, afferma che in tema di bancarotta fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, l. fall, possono consistere nel mancato versamento dei contributi previdenziali praticato con carattere di sistematicità (Sez. 5, n. 15281 del 08/11/2016 – dep. 2017, Bottiglieri, Rv. 270046; Sez. 5, n. 29586 del 15/05/2014, Belleri, Rv. 260492; Sez. 5, n. 12426 del 29/11/2013 – dep. 2014, P.G. e p.c. in proc. Beretta e altri, Rv. 259997).
In particolare, le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, I. fall., attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la «salute» economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale che non discende direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), ma da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato. (Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, Prandini e altri, Rv. 261684: in applicazione del principio, è stata ritenuta corretta la qualificazione di operazione dolosa data nella sentenza impugnata al protratto, esteso e sistematico inadempimento delle obbligazioni contributive, che, aumentando ingiustificatamente l’esposizione nei confronti degli enti previdenziali, rendeva prevedibile il conseguente dissesto della società).
Poiché il fallimento determinato da operazioni dolose configura un’eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale, l’onere probatorio dell’accusa si esaurisce nella dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura dolosa dell’operazione alla quale segue il dissesto, nonché dell’astratta prevedibilità di tale evento quale effetto dell’azione antidoverosa, non essendo necessarie, ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo, la rappresentazione e la volontà dell’evento fallimentare (Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a. e altri, Rv. 247315; Sez. 5, n. 45672 del 01/10/2015, Lubrina e altri, Rv. 265510).
2.5. La Corte milanese, circa l’avvenuto pagamento in nero di fornitori e lavoratori in via preliminare ha osservato che tale circostanza non era affatto provata, con osservazione di per sé dirimente e comunque non censurata in modo pertinente e specifico dal ricorrente.
In ogni caso la Corte di appello ha decisivamente escluso anche la rilevanza dell’addotta circostanza di fatto, visto che l’imputazione mossa allo Z. non concerneva la distrazione di risorse aziendali.
Piuttosto, sotto il profilo oggettivo, al Corte milanese ha valorizzato il dato della omissione sistematica del versamento di tributi e contributi previdenziali a far data dal 2003 con l’accumulo di un passivo fallimentare di 1.600.000 € e ha giustamente considerato irrilevante l’eventuale collegamento dell’andamento negativo aziendale anche alla mancata soddisfazione di un rilevante credito verso un cliente, che costituisce, pur sempre, uno scenario prevedibile nella vita di una impresa.
Il ricorrente non contesta e non confuta il ragionamento della Corte territoriale e neppure il carattere di sistematicità delle omissioni contributive addebitategli, né ipotizza uno epilogo alternativo della sua strategia di autofinanziamento mediante omissione del pagamento dei debiti contributivi rispetto all’esito fallimentare, agevolmente prevedibile e in concreto scaturito.
Il motivo è quindi inammissibile.
2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in relazione agli elementi fondanti la responsabilità penale dell’imputato per i reati di cui al capo A).
2.1. Il ricorrente, insiste sul fatto che la valutazione di irrilevanza del pagamento in nero dei lavoratori, espressa dalla Corte, sarebbe contraddittoria; invece il pagamento di creditori privilegiati sarebbe dirimente ai fini della sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestato.
Il ricorrente dovrebbe spiegare invece perché il fallimento non sia la conseguenza del mancato sistematico pagamento dei debiti contributivi, mentre a tal proposito è irrilevante la diversa circostanza che egli, sia pur irregolarmente, abbia pagato le spettanze retributive ai lavoratori, fatto questo né dimostrato, né dedotto con indicazioni specifiche e autosufficienti della fonte di prova invocata.
2.2. Quindi il ricorrente ripete le stesse circostanze già esposte nel contesto del primo motivo e ribadisce la mancanza della motivazione circa le rappresentate oggettive difficoltà nel recupero dei crediti derivanti dall’attività lavorativa della società.
Al proposito occorre ricordare che la Corte territoriale si è conformata al consolidato e già rammentato orientamento di questa Corte, in tema di fallimento determinato da operazioni dolose, fondato sulla disciplina del concorso causale di cui all’art. 41 cod.pen., secondo il quale il nesso di causalità tra l’operazione dolosa e l’evento fallimentare non è giuridicamente interrotto né dalla preesistenza alla condotta di una causa in sé efficiente verso il dissesto, né dal fatto che l’operazione dolosa contestata si sia limitata ad aggravare un dissesto già in atto.
2.3. In relazione alla bancarotta documentale, il ricorrente sostiene che la teste Veglia, segretaria per tre anni, aveva riferito che le fatture venivano portate da un commercialista esterno e ribadisce che tutta la documentazione contabile e fiscale in possesso dell’imputato era stata consegnata al curatore.
Il motivo è palesemente inammissibile per difetto di specificità e pertinenza.
L’imputato era amministratore di diritto e di fatto e socio al 95% della società, in posizione assolutamente dominante, e, come ritenuto dai Giudici milanesi, deve rispondere delle gravi carenze riscontrate nella tenuta della contabilità, non essendo certamente sufficiente a esimerlo da responsabilità l’esistenza di consulenti esterni, in difetto di qualsiasi prova di un loro comportamento abusivo estraneo ai dettami e alle richieste dell’amministratore, per vero neppur allegato.
3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione all’art. 10 quater d.lgs.74/2000.
Il mancato versamento fondato su di una compensazione illegittimamente opposta dal contribuente doveva basarsi sulla prova del carattere indebito della compensazione stessa.
Con il quarto motivo il ricorrente lamenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in relazione al capo di imputazione sub B), riprendendo le considerazioni esposte nel precedente motivo.
3.1. I motivi strettamente connessi possono essere esaminati congiuntamente e sono palesemente inammissibili.
3.2. In tema di reati tributari, ai fini della configurabilità del delitto previsto dall’art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000, per credito «non spettante» si intende quel credito che, pur certo nella sua esistenza e nell’ammontare, sia, per qualsiasi ragione normativa, ancora non utilizzabile (ovvero non più utilizzabile) in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti fra il contribuente e l’Erario (Sez. 3, n. 36393 del 07/07/2015, Ghirlandini, Rv. 265014).
Il delitto di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater, d.lgs. 10/3/2000, n. 74, richiede, sotto il profilo oggettivo, che il mancato versamento di imposta risulti formalmente «giustificato» da una illegittima compensazione, ex art. 17 d.lgs. 9/7/1997, n. 241, operata tra le somme spettanti all’erario e i crediti vantati dal contribuente, in realtà non spettanti o inesistenti (Sez. 3, n. 15236 del 16/01/2015, Chiarolla, Rv. 26305101)
In ogni caso il ricorrente neppure si confronta con la specifica e dirimente ragione addotta dalla Corte territoriale, basata sulla deposizione del funzionario T. dell’Agenzia delle Entrate, ossia che il credito IVA, asseritamente riveniente dall’anno precedente, opposto in compensazione nel 2009 per € 62.000, era del tutto inesistente, visto che nell’anno precedente (il 2008, quindi) la società non aveva neppure presentato la dichiarazione fiscale.
3.3. Il ricorrente aggiunge che la documentazione contabile e fiscale era tenuta da consulenti esterni, sicché l’imputato non doveva rispondere del loro operato per mera mancata vigilanza, e la documentazione da lui posseduta era stata consegnata al curatore.
La responsabilità del commercialista è addotta in modo del tutto generico, senza neppur indicarne il nominativo e prospettare le ragioni dell’esclusiva responsabilità di siffatto, non meglio precisato, consulente e tantomeno le ragioni dell’esonero da responsabilità dell’imputato, che certamente non poteva ignorare, quale legale rappresentante e amministratore della società, di non aver presentato nell’anno precedente la dichiarazione fiscale.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte in tema di reati tributari, se è vero che anche il consulente fiscale può essere responsabile, a titolo di concorso, per la violazione tributaria commessa dal cliente, quando, in modo seriale, ossia abituale e ripetitivo, attraverso l’elaborazione e commercializzazione di modelli di evasione, sia stato il consapevole e cosciente ispiratore della frode, anche se di questa ne abbia beneficiato il solo cliente (Sez. 3, n. 1999 del 14/11/2017 – dep. 2018, Addonizio, Rv. 272713), certamente non può esimersi da responsabilità l’imprenditore che abbia posto in essere la frode, specie in totale difetto di allegazione e dimostrazione della propria pretesa estraneità al progetto criminoso ascritto al commercialista.
4. Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile; ne consegue la condanna del ricorrente ai sensi dell’art. 616 cod.proc.pen. al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di € 2.000,00= in favore della Cassa delle ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere il ricorrente in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. 13/6/2000 n. 186).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di € 2.000,00 a favore della Cassa delle ammende.
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