Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 40256 depositata il 2 ottobre 2019
Lavoro – Sicurezza sul lavoro – Rapporto di lavoro – Infortunio sul lavoro – Caduta del lavoratore – Responsabilità del legale rappresentante dell’azienda
FATTO
1. La Corte di appello di Firenze il 20 settembre 2018 ha integralmente confermato la sentenza, appellata dall’imputato, con cui l’8 gennaio 2015 il Tribunale di Firenze, all’esito del giudizio ordinario, ha riconosciuto C.V. responsabile del reato di lesioni colpose gravi con violazione della disciplina antinfortunistica, fatto commesso il 31 ottobre 2011, condannando l’imputato alla pena di giustizia, oltre al risarcimento dei danni alla parte civile.
2. Il fatto, in estrema sintesi, come ricostruito dai giudici di merito.
2.1. G.M., dipendente della s.r.l. S.I.P.A.L., con mansioni di capo ricevimento presso la reception dell’albergo “A.” in Firenze, avendo ricevuto più telefonate con le quali l’amministratore del condominio confinante con l’immobile dell’albergo chiedeva che si controllassero le soffitte e che si provvedesse a chiudere un varco che sembrava esistere nel muro di confine tra i due palazzi e che creava problemi ai condomini, per il pericolo di intrusioni, il 31 ottobre 2011 decise di salire in soffitta per effettuare una sommaria verifica e per poter così fornire alla società che gestiva l’albergo notizie circa la effettiva natura del problema che le era stato reiteratamente segnalato.
Era sua intenzione salire insieme al manutentore ma, essendo questi impegnato a stuccare il bagno di una camera, iniziò da sola, entrando dapprima in una soffitta, utilizzata come deposito di materiale, per poi, salendo un gradino molto alto e spingendo una porticina in metallo non chiusa, spostarsi in un’altra adiacente porzione del sottotetto, ove, in effetti, vi era la segnalata apertura: sennonché, non essendo il pavimento di tale seconda parte di sottotetto in alcun modo portante, essendo costituito da un semplice controsoffitto non calpestabile realizzato in materiale molto leggero – in pratica pannelli quadrati che inglobavano le plafoniere destinate ad illuminare il piano sottostante – la rottura della superficie ove stava camminando determinava il precipitare della donna da circa quattro metri, con lesioni causative di malattia protrattasi per 145 giorni.
2.2. C.V., legale rappresentante della s.r.l. S.I.P.A.L., è stato ritenuto responsabile del contestato reato di lesioni colpose, con violazione della disciplina antinfortunistica (artt. 17, 28, 36 e 63 del d. lgs. 9 aprile 2008, n. 81), per non avere reso sicuro il transito nell’ambiente di lavoro, in particolare nel locale destinato a soffitta, e per non avere valutato i rischi per la sicurezza durante l’attività lavorativa, in particolare il rischio di cadute.
3. Ricorre per la cassazione della sentenza l’imputato, tramite difensori di fiducia, affidandosi – quanto all’originaria impugnazione – ad un unico, complessivo, motivo (lett. A), con il quale denunzia promiscuamente violazione di legge (art. 590 cod. pen.) e difetto di motivazione.
3.1. In particolare, censura erronea applicazione della norma che incrimina le lesioni colpose, per non avere i giudici di merito tenuto conto né della abnormità della condotta dell’imputata né della estraneità del luogo ove si è verificato l’infortunio alla nozione di “ambiente di lavoro” in senso vero e proprio.
G.M. avrebbe posto in essere una condotta abnorme, imprevedibile e non richiesta rispetto alle sue mansioni, in quanto – opina il ricorrente – ove la stessa avesse ricoperto un incarico di responsabilità, allora avrebbe dovuto conoscere i locali e non entrarvi, poiché non si trattava – si assume – di un luogo di lavoro, ovvero, in alternativa, ove non avesse avuto un ruolo di responsabilità, si sarebbe dovuta astenere dall’entrarvi ed avvertire la proprietà.
La donna, inoltre, avendo avuto intenzione, come si legge in sentenza, di effettuare una verifica solo sommaria, ne avrebbe fatta, invece, una approfondita, essendosi spinta oltre il pertugio, da cui già si vedevano i buchi al confine con l’altro immobile, senza nemmeno attendere l’arrivo del manutentore, cui, comunque, a sua volta sarebbe stato precluso entrare, non trattandosi di luogo di lavoro. La contraddittorietà della sentenza consisterebbe, dunque, in ciò: nel chiamare verifica sommaria quella che la G.M. aveva svolto come verifica approfondita; e nel riconoscere, anche implicitamente, la decisività del ruolo del manutentore, non atteso dalla G.M., la quale non possedeva le competenze tecniche per percepire la natura del problema che le era stato presentato.
Essendo G.M. addetta alla gestione delle prenotazioni, all’organizzazione della pulizia delle camere ed alla segnalazione dei guasti per la manutenzione ordinaria e straordinaria, la stessa si sarebbe dovuta limitare solo a segnalare il riferito problema a L.DV. che, in effetti, era direttore, non essendo la verifica né urgente né rientrante nelle sue mansioni.
Dalle dichiarazioni della vittima e di altro dipendente, il teste L., e delle valutazioni del consulente della difesa J., che in – limitata – parte per stralcio si riferiscono, secondo il ricorrente si desumerebbe che l’ambiente in questione non era un ambiente definibile “di lavoro”.
3.2. Con due ulteriori “motivi aggiunti” ex art. 585 cod. proc. pen. depositati il 10 aprile 2019 il ricorrente lamenta carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo della sentenza:
sia quanto alla deposizione del teste L.DV., che avrebbe riferito a proposito di aspetti fondamentali favorevoli alla difesa e che sarebbero stati trascurati dai giudici di merito (e cioè che un referente per ogni necessità c’era, ed era il dr. C.V., che altra testimone aveva detto a L.DV. di avere avvisato G.M. di non entrare nel locale in questione e che L.DV. non sapeva nemmeno dell’esistenza di tale locale e che, se avesse ricevuto le telefonate avute dalla p.o., avrebbe avvisato la proprietà) (lett. B);
sia quanto alla natura dell’ambiente come lavorativo, tale essendo stato giudicato solo perché vi era, da tempo immemore, un letto, in contrasto con le valutazioni del consulente tecnico della difesa, geometra J. (lett. C).
Non senza considerare che «E’ evidente, come già sostenuto da questa difesa nell’atto di appello, che non è certo normale camminare su un controsoffitto costituito da lampade» (così “motivi aggiunti”, terzultima pagina).
Si chiede, in definitiva, l’annullamento della sentenza impugnata.
DIRITTO
l. Il ricorso non può trovare accoglimento, siccome infondato.
1.1. Il motivo contenuto nell’impugnazione originaria (lett. A) è meramente reiterativo di due temi già posti con l’impugnazione di merito (v. atto di appello e sintesi svolta alla p. 2 della sentenza impugnata) ed adeguatamente affrontati e risolti dai giudici di merito, e cioè: 1) la pretesa estraneità del luogo ove si è verificato l’infortunio all’ “ambiente di lavoro” in senso vero e proprio di G.M.; 2) e l’asserita abnormità della condotta della stessa.
Infatti (alle pp. 3-5 della sentenza di secondo grado) si è logicamente osservato:
sia che l’ambiente in cui la donna si è avventurata, adiacente e comunicante con un vano adibito a deposito dell’albergo stesso, era da considerarsi a tutti gli effetti “ambiente di lavoro”, la cui estrema pericolosità non era stata né portata a conoscenza dei dipendenti né in alcun modo segnalata e che il cancelletto attraversato dalla donna era aperto;
sia che non può dirsi abnorme, cioè estranea alle mansioni di lavoro e del tutto avulsa dalle stesse, la condotta consistita nel recarsi a verificare se vi fosse o meno un foro di comunicazione delle soffitte con l’immobile adiacente, che aveva procurato le reiterate telefonate dell’amministratore del condominio interessato, da parte di colei che, come capo ricevimento in un albergo di medio-piccole dimensioni, privo della figura del direttore, quantomeno in loco, era fisiologicamente destinataria anche della lamentele provenienti da terzi, rispetto alle quali era tenuta a riferire compiutamente al responsabile della società che gestiva l’albergo.
1.2. Il secondo ed il terzo motivo, indicati come lett. B) e C) nei motivi aggiunti sono entrambi costruiti in fatto: il primo dei due essenzialmente valorizzando parte della deposizione del teste L.DV., il cui contributo conoscitivo e la cui opinione (riconducibili, in sintesi, a: “io non conoscevo quell’ambiente ma in quella situazione mi sarei comportato diversamente dalla vittima”) sarebbe stato ingiustamente trascurato dai giudici di merito; e l’ulteriore contestando l’accertamento in punto di fatto svolto da parte della Corte di appello circa la significatività degli indici materiali da cui è stata tratta la natura di luogo di lavoro della superficie ove si è verificato l’infortunio ed inoltre il non essersi attenuta al parere – ovviamente non vincolante per i decidenti – esposto dal consulente di parte geometra J.. Motivi, inoltre, meramente “antitetici” ed “oppositivi” rispetto alla ricostruzione svolta, con congrua e non illogica motivazione, dai giudici di merito, di cui si è detto.
2. Consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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