Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 40461 depositata il 5 ottobre 2023
la falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio configura il reato previsto dall’art. 374 bis cod. pen.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Trieste confermava il giudizio espresso dal Tribunale del medesimo capoluogo, che, in data 9 luglio 2021, aveva condannato l’imputato alle sanzioni ritenute di giustizia, in riferimento ai contestati reati di truffa ai danni dello Stato e false attestazioni indirizzate all’autorità giudiziaria circa le condizioni di adempimento della obbligazione di lavoro svolta in determinati orari. Le sanzioni irrogate in relazione a ciascuno dei reati, non avvinti dalla continuazione, erano state misurate all’esito del riconoscimento delle due circostanze attenuanti riconosciute in regime di prevalenza. In primo grado erano, inoltre, già stati riconosciuti i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario rilasciato a richiesta dei privati.
1.2. Il giudizio di primo grado aveva accertato la penale responsabilità dell’imputato -oggi ricorrente- per avere, nella qualità rivestita nell’organico della Soprintendenza archeologica del Friuli Venezia Giulia, con artifizi e raggiri consistiti nel far rilevare elettronicamente orari di entrata e di uscita dal luogo di lavoro differenti da quelli registrati dagli apparecchi di video sorveglianza installati dalla polizia giudiziaria nei locali di ingresso dello stabile che ospita la Soprintendenza territoriale, lasciato il posto di lavoro nei giorni e nelle ore analiticamente indicate in imputazione, pur risultando la sua presenza regolarmente registrata dal cartellino marcatempo assegnato, così procurandosi, in danno dell’amministrazione, l’ingiusto profitto della retribuzione (o trattamento giuridico equipollente) indebitamente percepita in relazione a prestazioni orarie non svolte. Tanto aveva accertato il Tribunale alla luce delle prove dichiarative assunte e dei documenti scrutinati. Concorreva il delitto di cui all’art. 374 bis cod. pen., atteso che l’imputato, in allegato alla memoria prodotta al Pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari, aveva depositato documenti con contenuto non rispondente al vero, attraverso i quali intendeva dimostrare la legittimità dei riscontrati allontanamenti dal posto di lavoro. Documenti questi inizialmente prodotti nella competente sede amministrativa al fine di giustificare le medesime assenze.
2. Avverso la sentenza emessa in grado di appello ha proposto ricorso l’imputato, con atto sottoscritto dal proprio difensore, deducendo i motivi in appresso sintetizzati, ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:
2.1 Violazione della legge penale sostanziale e vizi esiziali di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza e piena offensività del reato di truffa contestato. Si fa in particolare rilevare che la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto del difetto di profitto e di corrispondente danno nelle condotte contestate, tanto in ragione dei crediti orari maturati, quanto per le compensazioni interne già operate, quanto altresì in ragione della funzione vicaria (del dirigente) in concreto rivestita dall’imputato, che non sarebbe, quindi, stato tenuto ad alcuna segnalazione degli orari di entrata ed uscita dal luogo di lavoro. La difesa richiama in proposito la sentenza emessa da questa stessa Sezione della Corte (n. 14975/2018); medesimi vizi il ricorrente denunzia in relazione alla omessa motivazione della Corte in ordine alla ravvisata assenza di qualsivoglia forma di danno o disservizio organizzativo, come dimostrato dalle dichiarazioni rese in dibattimento dai testi escussi e dalla documentazione prodotta;
2.2 si deduce ancora violazione di legge processuale e vizio esiziale di motivazione per avere la Corte di merito ritenuto integrati gli estremi della norma incriminatrice contestata al capo 4 (art. 374 bis cod. pen.), pur difettando la dimostrazione della condotta tipica (richiama sul punto sentenza della sesta Sezione della Corte, n. 9063 del 23/11/2012, dep. 2013), non avendo l’imputato prodotto i documenti giustificativi, ritenuti non veridici, direttamente innanzi alla autorità giudiziaria, né avendo questi agito con volontà di trarre in inganno l’autorità giudiziaria in ordine alla integrazione di elementi costitutivi del reato.
2.3 Con il terzo motivo di ricorso si deduce ancora violazione della legge penale sostanziale e vizio di motivazione per la ritenuta illegittimità della motivazione che ha negato la sussistenza del vincolo della continuazione tra i reati riconosciuti in sentenza, uno dei quali certamente commesso al fine di neutralizzare la portata dell’altro e dunque unito da vincolo funzionale rilevante ai fini della continuazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Inammissibili, ai sensi degli 581, 591 e 606, comma 3, cod. proc. pen., per assoluta genericità, difetto di specifico confronto con le motivazioni diffuse e puntuali della Corte territoriale in punto di qualificazione penalistica del fatto illecito, si presentano i primi due motivi di ricorso; il secondo presenta anche aspetti di assoluta novità rispetto a quanto dedotto con i motivi di gravame in tema di difetto di tipicità della condotta. Manifestamente infondato il terzo, che neppure si confronta con le argomentazioni spese dalla Corte di merito.
1.1 Dalla lettura del testo della sentenza impugnata si evince che la Corte territoriale ha fondato la decisione, per il reato di cui all’art. 640 cod. (come aggravato), tenendo in debito conto le doglianze di merito sviluppate con i motivi di gravame. Ha inoltre espressamente motivato circa la consistenza e l’univocità delle evidenze che hanno condotto ad affermare la responsabilità penale rispetto all’ipotesi descritta in imputazione, sulla base di un mosaico di elementi indizianti coagulati intorno alla definizione del raggiro (fasulla registrazione della presenza) volto ad indurre l’amministrazione in errore nel calcolare le ore di presenza retribuita del dipendente in ufficio. Il dato univoco raccolto manifesta, infatti, discordanza tra registrazione della presenza e assenza di fatto, non previamente giustificata o altrimenti giustificabile (la documentazione prodotta, mai protocollata o archiviata dall’ufficio è stata motivatamente ritenuta non veridica), che va qualificata penalmente nei sensi della fattispecie contestata al ricorrente (Sez. 2, n. 3262, del 30/11/2018, Rv. 274895; Sez. 2, n. 34773, del 17/6/2016, Rv. 267855, che richiama un orientamento storicizzato, sin da Sez. 2, n. 6512, del 12/2/1985, Rv. 169953). Il primo motivo di ricorso si risolve, pertanto, nella mera riproposizione delle argomentazioni già prospettate al giudice della revisione nel merito e da questi motivatamente respinte, senza svolgere alcun ragionato confronto con le specifiche argomentazioni spese in motivazione; senza cioè indicare le ragioni delle pretese illogicità o della ridotta valenza dimostrativa degli elementi a carico, e ciò a fronte di puntuali argomentazioni contenute nella decisione impugnata, con cui il ricorrente rifiuta di confrontarsi. Questa Corte ha già in più occasioni avuto modo di evidenziare che i motivi di ricorso per cassazione sono inammissibili «non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato» (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568), e che le ragioni di tale necessaria correlazione tra la decisione censurata e l’atto di impugnazione risiedono nel fatto che quest’ultimo «non può ignorare le ragioni del provvedimento censurato» (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425).
1.2 La Corte territoriale ha indicato, come significativi ai fini del decidere, inequivocabili elementi di fatto, quali l’obbligo di registrare la presenza ad onta della funzione delegata dal dirigente, che non influisce sullo stato giuridico del dipendente, il fallimento della prova giustificativa circa le autorizzazioni (autoprodotte e prive di dati protocollari) agli allontanamenti dal luogo di lavoro riscontrati, le modalità apertamente fraudolente del fatto, la immanenza del danno per l’amministrazione nella semplice modalità di allontanamento perfezionatasi, che inibisce ogni forma di controllo, programmazione, organizzazione interna del lavoro, oltre la improponibilità di compensazioni orarie tra fatti illeciti e fatti leciti, dal che deriva che la struttura del reato è integrata prescindendo dalla, mera, aritmetica compensazione tra ore sottratte con la frode ed extra time non retribuiti, poi calcolati come riposo compensativo (in questi esatti termini, Sez. 2, n. 3262, del 30/11/2018, Rv. 274895, che si richiama anche per i precedenti conformi indicati in motivazione: la falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata anche a prescindere dal danno economico corrispondente alla retribuzione erogata per una prestazione lavorativa inferiore a quella dovuta, incidendo sull’organizzazione dell’ente, mediante la arbitraria modifica degli orari prestabiliti di presenza in ufficio, e compromettendo gravemente il rapporto fiduciario che deve legare l’ente al suo dipendente. In motivazione, la Corte ha precisato che di tali aspetti del danno il giudice deve tener conto anche al fine di valutare la sussistenza dell’attenuante di cui all’art. 62, comma primo, n. 4 cod. pen.. Negli stessi termini Sez. 2, n. 34773, del 17/6/2016, Rv. 267855; Sez. 2, n. 6512, del 12/2/1985, Rv. 169953).
1.3 Il secondo motivo, speso in tema di difetto di tipicità del fatto contestato, non risulta previamente dedotto innanzi alla Corte di merito, il che lo rende come tale inammissibile ai sensi di quanto dispone il comma 3 dell’art. 606 proc. pen.. In ogni caso, sulla tenuta costituzionale (artt. 3, 27 e 111 Cost.) della punibilità di una condotta realizzata dallo stesso soggetto destinatario del tentativo di “favoreggiamento documentale” (l’art. 374 bis cod. pen. è escluso dal catalogo di norme richiamate dall’art. 384 dello stesso codice: nemo tenetur se detegere) si è già espressa, nel 2004, la Corte costituzionale, con sentenza n. 200 del 7 aprile 2004.
Quanto invece a tipicità della condotta che ha veicolato la documentazione -solo indirettamente- all’autorità giudiziaria, deve qui ribadirsi che la condotta è tipica se, ancorchè primieramente indirizzata all’autorità amministrativa, viene poi trasmessa (in allegato alla memoria difensiva, per accreditarne contenuti) all’autorità giudiziaria al fine di essere da questa apprezzata nel momento di formazione della volontà decisionale (Sez. 6, n. 2967 del 23/09/2020, dep. 2021, Rv. 280963-01; Sez. 6, Sentenza n. 6062 del 5/11/2014, dep. 2015, Rv. 263110-01: Il delitto previsto dall’art. 374 bis cod. pen. costituisce reato di pericolo che si consuma anche a prescindere dalla presentazione della documentazione all’autorità giudiziaria, a condizione che la destinazione delle false dichiarazioni ad essere prodotte all’A.G. possa essere desunta dal giudice da ogni elemento emergente dalla situazione concreta esaminata, sia testuale che contestuale.).
1.4 Il terzo motivo, versato in tema di censura della negata continuazione tra i differenti reati commessi in tempi diversi, essendo quello di cui al capo 4 stato ideato allorquando le truffe di cui al capo 1 si erano già consumate, è manifestamente Ciò che deve essere valutato è l’atteggiamento psicologico dell’agente al momento iniziale della condotta ed è a quel momento che va ancorata (Sez. 4, n. 16066 del 17/12/2008, Di Maria, Rv. ·243632) la deliberazione unitaria che consente di ridurre ad unità fittizia le differenti fattispecie. Orbene, nella fattispecie, i reati di truffa si sono consumati del tutto autonomamente e, solo nella fase processuale conseguente, l’agente identificò l’utilità di innescare il secondo meccanismo fraudolento (da spendere nel processo), ragion per cui, se certamente la consumazione del secondo reato può dirsi funzionale rispetto alla esclusione della responsabilità per i precedenti delitti di truffa, certamente non può scorgersi l’unitario ed iniziale disegno criminoso, avviatosi prima della commissione del primo dei reati contestati.
2. Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi, per quanto sopra argomentato, profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al versamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in euro tremila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
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