CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 41985 depositata il 7 novembre 2022
Rapporto di lavoro – Restituzione al datore di parte dello stipendio – Minaccia di licenziamento – Reato di estorsione – Responsabilità dell’intermediario
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 15/12/2020 la Corte di Appello di Caltanissetta confermava la pronuncia del Gup del Tribunale di quella stessa città, emessa con rito abbreviato il 14/03/2017, con la quale T.M e P.M. erano stati condannati alla pena di giustizia perché ritenuti responsabili, in concorso tra loro, del reato di estorsione in danno di B.D.M.A. per averla costretta, in qualità di datori di lavoro, a restituire parte dello stipendio percepito mensilmente come dipendente, con la minaccia del licenziamento.
2. Avverso la pronuncia di secondo grado hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati, tramite i rispettivi difensori di fiducia.
2.1 Nell’interesse di T.M. sono stati articolati due motivi.
2.1.1 Con il primo è stata eccepita la violazione di legge (artt. 43, comma primo, 110 e 629 cod. pen.) e l’omessa motivazione su un punto decisivo per la configurabilità dell’elemento soggettivo del concorso di persone nel reato, atteso che dagli atti acquisiti al processo non era emersa la prova della conoscenza della minaccia ad opera del P., datore di lavoro, responsabile delle minacce, secondo quanto dichiarato nella denuncia dalla persona offesa che aveva altresì escluso il protagonismo della T., intervenuta solo per prelevare in un’occasione la somma di denaro su richiesta del coimputato, senza conoscerne la causale. Tale circostanza aveva determinato il rigetto della misura cautelare richiesta dalla Procura per carenza dei gravi indizi di colpevolezza; sulla base degli stessi elementi probatori, i giudici di merito avevano invece condannato, senza analizzare, la corte territoriale, lo specifico motivo di appello sulla carenza di elementi per ritenere sussistente la rappresentazione e la volizione del fatto tipico nonché la consapevolezza di cooperare con altri nella realizzazione del reato.
2.1.2 Con il secondo motivo la violazione delle medesime disposizioni di legge ed il vizio di motivazione, ritenuta contraddittoria, sono stati riferiti al travisamento della prova dichiarativa, posto che gli accertamenti in fatto a base del giudizio di responsabilità (la posizione di rilievo nelle aziende riferibili al P., la reiterata ricezione di parte dello stipendio della dipendente, le modalità accorte e riservate della consegna del danaro in occasione dell’arresto) contrastavano con il narrato della B., del P., dei testi R. e S. oltre che dell’imputata stessa.
2.2 Nell’interesse di P.M. sono stati articolati tre motivi di ricorso, eccependosi:
– la violazione di legge (art. 629 cod. pen.) e il travisamento della prova circa il diritto della B. a trattenere la somma restituita, posto che dall’esatto calcolo della retribuzione si evinceva che aveva percepito quanto a lei dovuto;
– la violazione di legge (artt. 56, 110 e 629 cod. pen.) ed il travisamento della prova in ordine alla mancata configurazione del tentativo, posto che – dovendosi escludere la partecipazione al reato della T., non consapevole che all’interno della busta ricevuta vi fosse una parte di retribuzione – il possesso del bene non era mai stato conseguito dall’unico autore dell’azione estorsiva;
– violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al diniego dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen. ed alla determinazione del trattamento sanzionatorio, in considerazione dell’ingiustificato aumento per la continuazione, in realtà mai contestata.
Considerato in diritto
1. Entrambi i ricorsi sono inammissibili perché incentrati su profili in fatto, estranei al giudizio di legittimità.
2. Deve ribadirsi, innanzitutto, che in tema di sindacato del vizio della motivazione ex art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e) nell’apprezzamento delle fonti di prova, il compito del giudice di legittimità non è di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, ma di stabilire se questi ultimi:
a) abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione; b) abbiano fornito una corretta interpretazione di essi; c) abbiano dato esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti; d) abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre.
3. Dall’affermazione di questi principi, ormai costanti nel panorama giurisprudenziale, discendono i seguenti corollari:
– in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (da ultimo, Cass. sez. 6, sent. n. 5465 del 04/11/2020 – dep. 11/02/2021 – Rv. 280601);
– il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione, nel caso di cosiddetta “doppia conforme” (situazione processuale comune ai ricorrenti), sia nell’ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Cass. sez. 4, sent. n. 35963 del 03/12/2020 – dep. 16/12/2020 – Rv. 280155);
– rispetto alla frequente eccezione dei ricorrenti “di mancanza e manifesta infondatezza della motivazione” ovvero della sua contraddittorietà, sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (in termini, Cass. sez. 2, sent. n. 9106 del 12/02/2021 – 05/03/2021 – Rv. 280747), in considerazione altresì che in tema di giudizio di appello, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione ogni argomentazione proposta dalle parti, essendo sufficiente che egli indichi le ragioni che sorreggono la decisione adottata, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo;
– in presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità, va ritenuta altresì l’ammissibilità della motivazione della sentenza d’appello per relationem a quella della decisione impugnata, in quanto in tal caso, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (Cass. Sez. 3, n. 13926 del 10/12/2011-dep. 12/04/2012 – rv. 252615).
2. Ciò premesso, entrambi i ricorsi sono incentrati sul travisamento delle prove dichiarative, in relazione ai profili della partecipazione al reato della T. ed alla conseguente qualificazione della condotta del P. rispetto al tentativo nonché alla configurabilità dell’estorsione, con specifico riferimento al diritto della persona offesa di trattenere le somme restituite.
3. Va rilevato a riguardo che la Corte di appello per riscontrare le critiche contenute nell’atto d’impugnazione ha richiamato gli stessi dati probatori esaminati dal primo giudice; inoltre, l’analisi delle risultanze istruttorie non risulta inficiata da vizi logici macroscopici o di manifesta evidenza, prospettiva sostanzialmente estranea alla stessa prospettazione di parte, incentrata su diversi (e, in realtà, poco plausibili) parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti.
4. Con argomentazioni plausibili, infatti, la sentenza impugnata, richiamati gli elementi in fatto, ha valutato, in considerazione anche della documentazione acquisita agli atti:
– il ruolo di rilievo della T. nella gestione delle società del P. (in virtù del rapporto di fiducia era diventata nel tempo da dipendente socio accomandatario), con un diretto coinvolgimento nelle dinamiche aziendali, situazione che mal si concilia con l’eccepita veste solo formale e la estraneità alla consolidata prassi di restituzione al datore di lavoro di parte delle retribuzioni versate alle dipendenti;
– l’arresto in flagranza della T. dopo aver ricevuto in contanti, con accorgimenti volti a tutelare il riserbo dell’operazione, una somma di denaro dalla B., pari a quella richiesta dal P., sì che risulta giustificata l’intermediazione fra estorsore e vittima;
– le tesi difensive, ritenute inconsistenti, circa una diversa causale della consegna di denaro, l’inesattezza dei conteggi sull’ammontare effettivo delle retribuzioni e le riscontrate incongruenze delle dichiarazioni delle persone offesa, alla luce anche della testimonianza di altre due dipendenti, soggette allo stesso trattamento economico (pagine da 13 a 15 della sentenza di primo grado).
5. Reiterative risultano anche le censure sulla qualificazione giuridica della condotta e sul trattamento sanzionatorio.
Accertata la natura concorsuale dell’azione criminosa, rileva ai fini della esclusione del tentativo che il denaro estorto sia stato consegnato dalla vittima all’estorsore o a persona da lui incaricata, consapevole del ruolo di intermediario, anche se si sia predisposto l’intervento della polizia con immediato arresto del reo e restituzione della cosa estorta.
5.1 La motivazione si sottrae a censure anche con riferimento alla determinazione della pena, proporzionata alla gravità dei fatti, al rito prescelto, al comportamento processuale ed al riconoscimento delle attenuanti generiche (pag. 9 della sentenza di appello); l’attenuante ex art. 62 n. 4 cod. pen. è stata negata con corretta valutazione a tal fine degli effetti dannosi connessi alla lesione della persona destinataria delle minacce, sulla base dell’orientamento giurisprudenziale riportato in sentenza.
Per quanto attiene alla “contestata continuazione” (in motivazione, pag. 17 della sentenza di primo grado), trattasi di un evidente refuso che non ha inciso nella determinazione della pena, posto che nessun aumento risulta a tal fine disposto nella specifica determinazione del trattamento sanzionatorio (“pb anni cinque di reclusione ed euro 1.200,00 di multa – art. 62 bis c.p. anni tre e mesi 4 di reclusione – art. 442 c.p.p.” – pag. 18), per cui nulla doveva stabilire a riguardo il secondo giudice che ha condiviso sul punto la valutazione del tribunale, coerente con i parametri dell’art.133 cod. pen.
6. L’inammissibilità dei ricorsi determina, a norma dell’articolo 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento a favore della Cassa delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma ritenuta equa di € 3.000,00 a titolo di sanzione pecuniaria.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
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