Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 42520 depositata il 16 ottobre 2019
reati fiscali – fatture false
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Treste con sentenza del 6 marzo 2018 riformava parzialmente la sentenza del tribunale di Pordenone del 4 novembre 2016. In particolare dichiarava non doversi procedere, per essersi i reati estinti per intervenuta prescrizione, nei confronti di CS, in relazione al reato di cui all’art. 2 del Dlgs 74/2000 (capo 3) limitatamente all’anno di imposta 2008 ed ai delitti di cui agli artt. 2 Dlgs 74/2000 ( capo 4) 3 Dlgs 74/2000 ( capo 5) nonchè 11 Dlgs 74/2000 (capo 6), per quest’ultimo limitatamente agli apporti effettuati nel “Fondo Argentovivo” in data 7 aprile 2010. Nei confronti di DR dichiarava non doversi procedere per essersi i reati estinti per intervenuta prescrizione in ordine ai reati ascrittile ex art. 2 Dlgs 74/2000 (capo 1 e 2 ) limitatamente all’anno di imposta 2008 e con riferimento ai delitti ex art. 3 Dlgs 74/2000 (capo 5) e 11 Dlgs 74/2000 ( capo 3) limitatamente agli apporti effettuati nel “Fondo Argentovivo” in data 7 aprile 2010. Conseguentemente, rideterminava la pena in anni due e mesi due di reclusione nei confronti di CS e in anni uno, mesi tre e giorni quindici di reclusione nei confronti di DR.
2. Contro la citata sentenza della Corte di Appello di Trieste hanno proposto ricorso, mediante il proprio difensore, CS e DR, con tre motivi comuni che vengono di seguito illustrati in forma sintetica ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
3. Con il primo motivo hanno dedotto i vizi di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen. in ordine agli artt. 192 c.p.p. e 42 e 43 cod. pen. oltre che 2 e 8 del Dlgs 74/2000. La Corte di appello non avrebbe condiviso l’assunto difensivo circa l’insussistenza dell’elemento soggettivo del dolo specifico in capo agli imputati con riguardo ai fatti relativi alla emissione di fatture da parte di società e tra società del “gruppo” gestito in particolare dal CS, con motivazione contraddittoria ed illogica, anche alla luce del dato per cui il “gruppo CS” non aveva ottenuto vantaggi di imposta.
In tale ottica, doveva essere assolta innanzitutto la DR, siccome estranea alla gestione delle imprese e in assenza di un accertamento della sua partecipazione al “disegno” imputato al CS. Al contrario, la Corte d’Appello avrebbe rinvenuto il dolo specifico a suo carico dalla consapevolezza da parte di costei del “modus operandi” del CS che, come tale, l’avrebbe resa certamente partecipe anche della finalità evasiva, oltre che in ragione del fatto per cui ella aveva comunque aderito a fatti tipici posti in essere dal CS nel perseguire la finalità evasiva. Decisione tuttavia viziata dalla mancanza di prova di quanto supposto dalla corte e della adesione specifica della ricorrente a qualsivoglia condotta del CS, così come della assenza di qualsiasi illustrazione degli elementi da cui desumere tali considerazioni. Riducendosi l’argomentare della Corte a supposizioni di cui non esplicita l’iter logico sotteso e cui non soccorre la confutazione dell’argomento delle fatture “infragruppo” – comprese quelle amministrate formalmente dalla DR – in quanto non fornisce risposte circa la riconducibilità di tali operazioni “alla volontà diretta o al dolo generico della ricorrente”
La Corte piuttosto, a fronte del rilievo difensivo per cui gli imputati sarebbero stati animati esclusivamente dall’intento di accrescere i costi per aumentare le rimesse provenienti dalle società di leasing, da una parte non avrebbe indicato le ragioni per cui dovesse considerarsi concorrente con lo scopo sopra citato anche quello di abbattere i costi per pagare minori imposte, dall’altra avrebbe sul punto, piuttosto, indugiato su una mera supposizione, attraverso discorsi ipotetici privi di riferimenti probatori concreti e fondati sul fatto notorio per cui il debito fiscale che sorge dal reddito imponibile a carico di singole società fittiziamente interposte non verrebbe normalmente soddisfatto, essendo destinate, queste società create fittiziamente, a non adempiere ai debiti fiscali che sorgano a loro carico. Così che solo alcune società, ovvero l’unico gestore CS, usufrurebbe dei “risparmi fiscali” pagando minori imposte per effetto di fittizie interposizioni. Circostanza peraltro contraddetta dal fatto che, mentre nei casi tipici di società cartiere, esse sono estranee all’imprenditore che le utilizza, altrimenti gli utilizatori sarebbero immediatamente individuati, nel caso concreto le società sono tutte apertamente riconducibili al medesimo gruppo imprenditoriale. Ricorre in tal modo anche un errore di diritto, atteso che la corte non avrebbe accertato, in concreto, la sussistenza del riferito scopo concorrente – con quello di ottenere maggiori finanziamenti dalle società di leasing – dell’evasione. Tanto più in ragione della prova, incontestata, della mancanza di un risparmio di imposta.
La corte avrebbe altresì travisato la prova proveniente dal teste V., che non avrebbe mai riferito con riguardo alle varie fatture infragruppo, emesse per gonfiare i costi, che le stesse seppur quietanzate non erano mai state pagate, cosicchè si ottenevano vantaggi immediati quali i maggior costi deducibili, con incidenza vantaggiosa sulle imposte dovute. Lo stesso avrebbe al contrario evidenziato la finalità di aumentare i costi per ricavare maggiori finanziamenti dalle società di leasing. I ricorrenti aggiungono che i giudici avrebbero anche travisato la prova in ordine al carattere fittizio delle fatture e in particolare alla compatibilità delle fatture con le opere realizzate, riportando uno stralcio di una testimonianza resa con riguardo ad una fattura n. 62 del 2008 con cui il teste confessa l’impossibilità di potersi pronunziare sul punto, così sottolineando la violazione dell’art. 2 del Dlgs 74/200 e degli artt. 42 e 43 cod. pen. I giudici avrebbero trascurato invece l’unica perizia, di parte, prodotta su tale tema della difesa.
Con riferimento poi ai reati di cui al capo 3) a carico del CS e al capo 1) a carico della DR e alle fatture emesse dalla ditta E.P. nei confronti delle società del “gruppo”, la corte di appello non avrebbe proceduto ad un esame complessivo degli indizi disponibili, omettendo di considerare gli elementi idonei a supportare la tesi alternativa difensiva e peraltro non raffrontandoli con le prove addotte dalla difesa. A tale ultimo proposito, i ricorrenti oltre a richiamare contrapposte ragioni di valutazione di singoli indizi hanno fatto riferimento altresì alla circostanza per cui molti versamenti da parte del CS sarebbero stati cronologicamente antecedenti ai prelievi del M. presso la medesima filiale, così da escludersi che le somme interessate fossero provenienti dai prelievi del M.. Circostanza quest’ultima che la corte avrebbe cercato di superare adducendo uno sfasamento degli orari dei terminali, di cui tuttavia non vi sarebbe prova.
Nella medesima ottica, i ricorrenti richiamano una consulenza di parte, dell’ing. Me., che sarebbe stata trascurata senza disporre di perizia contrapposta e pur a fronte dell’incapacità della p.g. di stabilire se i lavori indicati nella fattura 62 del 2008, già citata, fossero stati realizzati realmente oppure no. La corte inoltre, illogicamente avrebbe confutato i contenuti della perizia sulla base della carenza di indicazioni in realtà non richiedibili al perito, il quale solo poteva riferire, come ha fatto, della esistenza di opere e della relativa congruità e indicazione in fatture della E.P..
La mancata, corretta valutazione degli indizi – anche a fronte di elementi validi rappresentati dalla difesa e non adeguatamente valutati – avrebbe dato luogo ai vizi dedotti, anche di motivazione.
Con riferimento poi al capo 3) riguardante fatture 29 – 39/2008, oggetto di rilevata estinzione del reato per prescrizione e in rapporto al quale è stata emessa condanna al risarcimento del danno in favore dell’Agenzia delle Entrate, costituitasi parte civile, la corte innanzitutto avrebbe errato nel ritenere che su tale capo non sarebbero stati formulati gravami, essendosi fatto richiamo per i capi di imputazione alle critiche svolte in premessa e formulate articolatamente per il capo 3 relativo al CS. Inoltre, alla luce di quanto esposto in precedenza la corte sarebbe nuovamente incorsa nell’errore di rinvenire la sussistenza del dolo di evasione senza tenere conto della assenza di qualsiasi beneficio fiscale da parte del “gruppo” CS e, quanto agli elementi indiziari valorizzati dalla corte per rilevare la sussistenza del reato, seppur prescritto, i ricorrenti rimandano ad “argomentazioni già spese”. Quanto alla fattura 25/09, la corte, aderendo all’assunto dello sfasamento d’orario dei terminali bancari (mai provato), laddove invece essi devono essere cronologicamente allineati, avrebbe sottratto valenza probatoria ad un dato obiettivo, quale quello per cui in tale caso il versamento di denaro sul conto della società da parte del CS era antecedente al cambio di assegno da parte del M., oltre a trascurare la circostanza per cui il CS ben poteva versare proventi di proprie attività su conti bancari. Quanto alle fatture 7 (Filescos) 57 e 60 (E.P.) /2008, per le quali i capi di imputazione di riferimento sono stati oggetto di rilevata estinzione dei reati per prescrizione, ma è stata comunque pronunziata sentenza di condanna al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, i ricorrenti richiamano le medesime critiche “già spese con riferimento alla disamina degli indizi” – sul rileivo per cui l’intero procedimento si basa sui medesimi indizi – ed hanno evidenziato come la corte di appello, con riferimento alle citate fatture 57 e 60 non si sia basata su dati obiettivi ma su una mera “percezione”, escludendo il pregio probatorio della consulenza della difesa, seppure in assenza di dati ad essa specificamente contrapposti.
4. Con il secondo motivo hanno dedotto i vizi di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen. in ordine agli artt. 11 Dlgs 74/2000, 192 c.p.p. e 42 e 43 cod. pen. oltre che 8 L. 3818/1886 e 2117 cod. civ.
La Corte di appello, con riferimento ai capi di imputazione nn. 3) e 4) a carico della DR e 6) a carico del CS, non avrebbe compiuto alcun accertamento nè sulle modalità esecutive, nè sulla tipologia del fondo previdenziale speciale “Argentovivo” per accertare se esso era idoneo allo scopo represso dalla norma incriminatrice, nè sul fine perseguito dai ricorrenti; valutazioni necessarie ove si tenga conto del fatto che la creazione di un fondo previdenziale, analogamente a quella di un fondo patrimoniale, integra un’operazione legittima, cosicchè ai fini in esame è necessario accertare che nell’operazione posta in essere sussistano gli elementi costitutivi del reato. In tale ottica hanno evidenziato come il fondo “Argentovivo” sia un fondo previdenziale speciale, in cui il perseguimento della tutela previdenziale dei “partecipanti” (quali nel caso di specie i ricorrenti) avviene vincolando beni e valori in uno specifico patrimonio separato e segregato, integrante il fondo. Che non costituisce un “Trust”, con il quale si determina il trasferimento dei beni costituiti in trust in favore del trustee, atteso che la destinazione dei beni, secondo un programma familiare approvato non muta il regime di appartenenza dei medesimi, ma ne modifica solo la disciplina giuridica relativa alla utilizzazione, essendo il fondo destinato alla scopo per il quale il vincolo è costituito. Con la compagnia istitutrice del Fondo che risulta detentrice del potere amministrativo – gestorio del medesimo. Il Fondo in parola è, dunque, generato da attività negoziale preordinata all’organizzazione del patrimonio del soggetto, destinato ad una finalità di previdenza – assistenza familiare, cui la legge obbliga i suoi membri a provvedere.
Quanto alla tempistica della costituzione del fondo, si tratta di dati acquisiti al processo e la domanda di istituzionalizzazione del fondo risalirebbe al 13 marzo 2010, per essere poi approvata il 15 marzo del medesimo anno. Pertanto non è revocabile in dubbio la risalenza della costituzione del Fondo in epoca antecedente all’inizio dell’attività di accertamento della Guardia di Finanza, così come il dato per cui i ricorrenti sin dal settembre del 2009, periodo non sospetto, avevano manifestato la volontà di provvedere alla istituzione del fondo. Circostanze che escludono ogni sospetto sulle reali ragioni della costituzione del fondo e sui suoi scopi di esecuzione di un programma previdenziale familiare; come tale valevole anche per la DR, senza che la circostanza per cui i suoi beni non potessero essere aggrediti dalle pretese della ex moglie del CS possa sminuire tale obiettiva comune finalità dei ricorrenti, diretta anche a fronteggiare le pretese del predetto ex coniuge del CS.
In ordine alfine, agli atti di conferimento di beni al Fondo, la corte di appello ne avrebbe rilevato il carattere fraudoento omettendo i dati probatori emersi a sostegno della assenza di un dolo di occultamento, atteso che essi dimostrerebbero come il Fondo avesse ben diverse finalità e di altro genere erano gli scopi dei disponenti. La corte avrebbe dedotto il carattere fraudolento dei conferimenti dalla mera circostanza dell’essere stati realizzati successivamente agli accertamenti della GDF, così omettendo di verificare e non solo “desumere” l’esistenza di tale pretesa connotazione a fronte e nonostante le predette caratteristiche del Fondo. Avrebbe altresì omesso di illustrare l’idoneità dell’attività a rendere in tutto o in parte inefficace il soddisfacimento dell’obbligazione tributaria nonché la finalità ritenuta perseguita dai ricorrenti. Tanto anche alla luce dell’indirizzo giurisprudenziae di legittimità dettato in tema di riscossione coattiva delle imposte, per cui l’iscrizione ipotecaria è ammissibile anche su beni facenti parte di un fondo patrimoniale alle condizioni di cui all’art. 170 c.c., cosicché è legittima solo se l’obbligazione tributaria sia strumentale ai bisogni della famiglia o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità a tali bisogni, con onere del debitore di dimostrare le circostanze funzionali ad avvalersi dell’impignorabilità. Laddove le stesse non possono ritenersi dimostrate nè escluse per il solo fatto che vengano in rilievo debiti sorti nell’esercizio di impresa.
Inoltre, con riferimento ai beni trasferiti al Fondo da due società riferibili ai ricorrenti, acquistati mediante finanziamenti dei medesimi, si trattava di un’operazione di trasparenza idonea a rivelare l’effettiva titolarità dei beni da parte degli imputati e realizzata senza alterare l’equilibrio patrimoniale delle società medesime e quindi, in sostanza, rivelatrice dell’assenza di un’operazione fraudolenta atta a celare i beni dei ricorrenti al Fisco. Tanto anche in considerazione del potere in capo alla Compagnia che gestisce il Fondo, di pagare i creditori.
Cosicchè la Corte di Appello avrebbe sostenuto – senza alcun dato di riferimento in tal senso – che non vi sarebbe stata certezza del pagamento dei crediti vantati dal Fisco, così peraltro violando il principio di cui al brocardo “in dubio pro reo”.
Conseguirebbe altresì la necessità di una revoca della confisca disposta, per l’assenza di attività fraudolenta ed attesa l’impermeabilità del Fondo e dei correlati apporti alla sequestrabilità e confiscabilità.
5. Con il terzo motivo hanno dedotto i vizi di violazione di legge e di motivazione carente, illogica e contraddittoria, con riferimento alla confisca diretta e per equivalente.
La corte sarebbe incorsa in un errore di diritto nella parte in cui ha disposto, riguardo al capo 6), la confisca per equivalente nei confronti del CS anche del 50% dell’immobile di Gorizia e senza indicazione del profitto derivante dall’illecito. Inoltre avrebbe disposto la confisca per equivalente dei beni del Fondo previdenziale rendendoli poi oggetto anche di confisca diretta oltre poi ad avere disposto la confisca per equivalente nei confronti della DC per il capo 6), di cui invece costei non risponde.
Disponendo altresì la confisca diretta di tutte le somme presenti nei conti correnti degli imputati e delle società senza accertamenti e motivazione sulla circostanza che si tratti di profitto del reato, la corte avrebbe illegittimamente esteso il perimetro della misura. Ribadiscono infine la richiesta di revoca, in ogni caso, della confisca dei beni del Fondo Argentovivo, siccome in contrasto con la normativa disciplinante il fondo medesimo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. E’ opportuno preliminarmente osservare, per meglio analizzare i motivi di impugnazione, che ricorre un’ipotesi cd. di “doppia conforme”, in presenza della quale «le sentenze di primo e di secondo grado si saldano tra loro e formano un unico complesso motivazionale, qualora i giudici di appello abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai fondamentali passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando í motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione impugnata» (cfr. Sez.3, n.13926 del 01/12/2011 Rv.252615 Valeri; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 Argentieri).
2.1. Deve altresì aggiungersi che «in tema di integrazione delle motivazioni tra le conformi sentenze di primo e di secondo grado, se l’appellante si limita alla riproposizione di questioni di fatto o di diritto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure prospetta critiche generiche, superflue o palesemente infondate, il giudice dell’impugnazione ben può motivare per relationem; quando invece sono formulate censure o contestazioni specifiche, introduttive di rilievi non sviluppati nel giudizio anteriore o contenenti argomenti che pongano in discussione le valutazioni in esso compiute, è affetta da vizio di motivazione la decisione di appello che si limita a respingere con formule di stile o in base ad assunti meramente assertivi o distonici dalle risultanze istruttorie le deduzioni proposte“(cfr. Sez.6, n. 28411 del 13/11/2012 Rv. 256435 Santapaola e altri).
2.2. Di rilievo, in tema di valutazione delle censure proposte in presenza di una cd. “doppia conforme”, è anche il principio per cui «in tema di ricorso in cassazione ai sensi dell’art. 606, comma primo lett. e), la denunzia di minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l’esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione“.(cfr. Sez. 2, n. 9242 del 08/02/2013 Rv. 254988 Reggio.; Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017 Rv. 271227 M e altri).
2.3. D’altra parte, è stato da tempo chiarito che il controllo del giudice di legittimità si dispiega, pur a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi atti del processo e di una correlata pluralità di motivi di ricorso, in una valutazione necessariamente unitaria e globale, che attiene alla reale “esistenza” della motivazione ed alla “resistenza” logica del ragionamento del giudice di merito, essendo preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (cfr., Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, Rv. 234148; più recentemente conforme anche Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482); quando il giudice di merito abbia esposto le motivazioni della propria decisione in coerenza con i dati risultanti dal processo non è ammessa una diversa ricostruzione in fatto della vicenda oggetto del giudizio da parte dei giudici di legittimità, che non possono sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito o seguire possibili interpretazioni e ricostruzioni alternative dei fatti, suggerite dai ricorrenti, in quanto il compito del Collegio di legittimità è quello di stabilire se i giudici di merito abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre.
2.4. Occorre infatti ricordare l’orientamento costante e consolidato di questa Corte (ex plurimis, Sez. Un. n. 47289 del 24/09/2003, Rv. 226074, Petrella; Sez. 6, n. 18491 del 24/02/2010, Nuzzo Piscitelli e altri, Rv. 246916; Sez. 2, n. 29480 del 07/02/2017, Cammarata e altro), secondo il quale il sindacato sulla motivazione della sentenza del giudice di merito demandato alla Corte di cassazione non può concernere né la ricostruzione del fatto, né il relativo apprezzamento probatorio, ma deve limitarsi al riscontro dell’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di una rinnovata verifica della sua rispondenza alle acquisizioni processuali, in quanto la funzione del controllo di legittimità sulla motivazione della sentenza non è quella di sindacare l’intrinseca attendibilità dei risultati dell’interpretazione delle prove e di attingere il merito dell’analisi ricostruttiva dei fatti, ma soltanto di verificare che gli elementi posti a base della decisione siano stati valutati seguendo le regole della logica e secondo linee argomentative adeguate, che rendano giustificate sul piano della consequenzialità le conclusioni tratte (in tal senso, sin da Sez. 6, n. 10951 del 15/03/2006, Casula, RV. 233711) e non risulti logicamente incompatibile con altri atti del processo, dotati di una autonoma forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante, così da vanificare o inficiare radicalmente sotto il profilo logico la motivazione (vedi Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011 Pmt in proc. Longo, Rv. 251516, ove è stato precisato che gli atti del processo invocati dal ricorrente a sostegno del dedotto vizio di motivazione non devono semplicemente porsi in contrasto con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante, ma devono essere autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione risulti in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante, determinando al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione; Sez.6, n. 45036 del 02/12/2010 Damiano, Rv. 249035). Pertanto, nonostante la modifica apportata all’art. 606, c. 1, lett. e), c.p.p. dalla legge n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (da ultimo, Sez.3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217).
3. Tanto premesso, quanto alla censura relativa alla impossibilità di desumere il dolo del reato in ordine ai capi di imputazione riguardanti fatture emesse da società o fra società “infragruppo”, sul rilievo – incontestato – della gestione unitaria da parte del CS delle società a lui facenti capo in via formale o di fatto, per la ragione per cui in tali casi non sarebbe emerso complessivamente alcun vantaggio fiscale, avendo tutte le società provveduto ai rispettivi pagamenti, dalla lettura delle due sentenze di merito emerge una articolata quanto corretta motivazione. I giudici di merito hanno messo in luce – senza alcuna contestazione difensiva sul punto – come il CS abbia fatto ricorso, nello svolgimento della sua attività imprenditoriale, a diverse società prive di autonomia, di struttura organizzativa, di mezzi strumentali e di personale, costruite come “schermi” attraverso cui si è sviluppata l’attività imprenditoriale dell’imputato, piegati ai suoi particolari interessi. Riguardo a tali società, il ruolo preponderante e assoluto del CS è emerso, secondo l’illustrazione di cui alle sentenze citate, anche attraverso l’evidenziazione di testimonianze dirette a escludere l’intervento dell”imputata DR, anche laddove la stessa risultava formalmente titolare delle società, oppure volte a descriverne una presenza mai disgiunta da quella del CS. In tale quadro, con riferimento innanzitutto ai capi riguardanti l’emissione di fatture “infragruppo”, connotate da sovrafatturazioni poi riportate dalle società appaltatrici nelle rispettive dichiarazioni fiscali, a fronte della tesi difensiva per cui in tal caso le sovrafatturazioni furono effettuate solo per “gonfiare costi” al fine di acquisire maggiori finanziamenti da società di leasing interessate alle operazioni edilizie cui attenevano le fatture medesime, si contrappongono plurime e organiche considerazioni dei giudici di merito. Innanzitutto, è corretto il rilievo per cui non rientrandosi in una fattispecie di “gruppo” in senso stretto, sul piano fiscale deve esaminarsi l’operazione nei suoi singoli passaggi e quindi farsi riferimento alla società autrice della dichiarazione fiscale redatta utilizzando le false fatture, avvantaggiatasi per un minor versamento di imposte. Si tratta di un’impostazione che, da una parte, tiene conto di come la citata tesi difensiva abbia solo il carattere di un suggestiva quanto assai lata evocazione di tematiche riguardanti fatturazioni tra società infragruppo, atteso che le operazioni tra società oggetto del giudizio sono del tutte estranee alla nozione di operazioni infra-gruppo (ex art. 73 del D.P.R. n. 633 del 1972), mancando il rapporto controllante-controllate tra le stesse, secondo quanto precisato anche nella giurisprudenza civile di legittimità (cfr., per tutte, parte motiva, Cass. civ. sez 6 – 5, ord. n. 25328 del 16/12/2015, Rv. 638010 – 01); dall’altra, è attuativa del principio per cui l’interesse protetto dalla fattispecie di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 è l’interesse dell’Erario alla percezione dei tributi dovuti, prescindendo dalla realizzazione dell’evasione stessa, cui consegue l’illiceità penale della dichiarazione fraudolenta, trattandosi di reato di pericolo o di mera condotta (ed a consumazione istantanea), avendo il legislatore inteso rafforzare in via di anticipazione la tutela del bene giuridico protetto (in tal senso SSUU Cass. Pen., SS.UU., 19 gennaio 2011, n. 1235).
3.1. Si tratta di una fattispecie che tiene conto di un sistema tributario, in tema di detraibilità dell’Iva, per cui in casi di emissione della fattura oggettivamente o anche soggettivamente inesistente viene a mancare lo stesso principale presupposto della detrazione dell’Iva, costituita dall’effettuazione di un’operazione, giacché questa (riferendosi il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 1, all’imposta relativa alle “operazioni effettuate”) deve ritenersi carente sia in caso di prestazioni inesistenti sul piano oggettivo che in quello in cui i termini soggettivi dell’operazione non coincidano con quelli della fatturazione.
3.2. Su tale principio si innesta la previsione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7, che nel nell’imporre, in caso di emissione di fatture per operazioni inesistenti, il pagamento dell’imposta nel suo intero ammontare, indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura, è con riguardo all’ipotesi considerata esplicita nel senso di rendere obbligatorio da una parte il versamento dell’imposta, dall’altra di precluderne la detrazione. La disposizione viene infatti letta nel senso che il tributo deve considerarsi “fuori conto” e la relativa obbligazione, conseguentemente “isolata” dalla massa di operazioni effettuate, “estraniata”, per ciò stesso, dal meccanismo di compensazione tra Iva “a valle” ed Iva “a monte”, che presiede alla detrazione d’imposta di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19. Tanto in quanto il versamento dell’Iva, sia in caso di prestazione insussistente che ad un soggetto che non sia la genuina controparte, aprendo la strada ad un indebito recupero dell’imposta, è evento dirompente, nell’ambito del complessivo sistema Iva, atteso che il diritto alla detrazione dell’Iva non può prescindere dalla regolarità delle scritture contabili ed in particolare della fattura, considerata documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa. In altri termini, le disposizioni del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19 e 26 legittimano la detrazione IVA – da parte del cessionario – solo in relazione ad “effettive” operazioni commerciali (beni o servizi “importati od acquistati” nell’esercizio dell’attività economica) e riconducono ad unità il sistema della rivalsa e della detrazione con la conseguenza che, in presenza di operazioni inesistenti, non si realizza l’ordinario presupposto impositivo, né la configurabilità stessa di un “pagamento a titolo di rivalsa”, né i presupposti del diritto alla detrazione di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19, comma 1 (cfr. sez. 3 non massimata, 2015, n.43393 ud. 15/07/2015)
3.3. La sueposta ricostruzione del sistema tributario e delle correlate previsioni penali evidenzia ulteriormente la fallacia delle argomentazioni difensive, le cui tesi “compensative” di somme dovute all’erario in misura tale da assicurare al medesimo in ogni caso quanto dovuto si muovono al di fuori del suespossto sistema, secondo il quale a fronte di prestazioni false indicate in fattura si rompe ogni rapporto di credito / debito con l’Erario, su cui il ragionamento difensivo comunque si fonda.
3.4. Da qui l’infondatezza manifesta della censura relativa alla inconfigurabilità del dolo specifico di evasione in ragione della prova della mancanza di un risparmio di imposta. Laddove, peraltro, questa Corte ha anche precisato che il reato di cui all’art. 2 del D.Lgs. citato sussiste anche quando ad esso si affianchi una distinta ed autonoma finalità extraevasiva (cfr. Sez.3, n. 27112 del 19/02/2015, Forlani, Rv. 264390) e va ribadito che il relativo accertamento è riservato al giudice di merito e, se adeguatamente e logicamente motivato, come in questo caso, è incensurabile in sede di legittimità.
3.5. E’ superfluo, alla luce di queste considerazioni, rilevare la piena logicità e corrispondenza a massime di esperienza del rilievo della corte di appello, formulato sempre al fine di ribadire la configurabilità del dolo dei reati, per cui la cd. “catena di fatture” presuppone la creazione di società fittizie destinate a non adempiere agli oneri fiscali insorti a loro carico, così che il sistema è solo finalizzato ad assicurare ad alcune delle società coinvolte risparmi fiscali. In tale ottica, di non poco momento è l’ulteriore rilievo della corte di merito per cui talune delle società interposte nel caso concreto abbiano al fine cessato la propria attività o siano state dichiarate fallite. Laddove, al contrario, costituisce una mera asserzione, non necessariamente verificabile in concreto, l’affermazione della difesa secondo cui le società interposte dovrebbero necessariamente essere riferibili a soggetto diverso da quello che utilizzi le false fatture, atteso che la catena documentale innescata comunque consente di individuare agevolmente l’utilizzatore.
3.6. La completezza e solidità argomentativa di tale quadro non viene scalfita dalla censura di travisamento della prova effettuata attraverso il richiamo alla testimonianza del teste V., citato dalla corte di merito per rimarcare il dato per cui, in conformità con le considerazioni da ultimo esposte, nel caso di specie era stato effettivamente accertato che le varie fatture “infragruppo”, emesse da società fittizie, anche se queietanzate non erano state mai pagate. Tale considerazione si impone anche a fronte della inammissibilità formale della censura, atteso che, da una parte, essa è stata dedotta riportando soltanto uno stralcio delle dichiarazioni del teste, seppure corrispondente alla pagina richiamata dalla corte, mentre invece allorquando vengano in rilievo dichiarazioni testimoniali è necessario procedere ad una allegazione integrale delle stesse, per consentire una valutazione completa delle medesime; dall’altra i ricorrenti non hanno indicato le ragioni per cui il dato travisato inficerebbe, compromettendola, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione come sopra illustrata (cfr. Sez. 6, n. 9923 del 05/12/2011 (dep. 14/03/2012 ) Rv. 252349 S).
3.7. Quanto alle censure relative al vizio di motivazione inerente il ritenuto dolo specifico dei reati ascritti alla DR, appaiono adeguate le motivazioni della corte di appello; innanzitutto allorquando, in uno con le considerazioni del tribunale e – nel quadro della più volte ribadita sistematicità delle operazioni societarie organizzate dal CS per finalità evasive – si rinviene l’elemento psicologico del reato valorizzando il rapporto di convivenza con il CS, il suo coinvolgimento diretto con la DR oltre che nella stipula di taluni contratti, anche in operazioni bancarie di rilievo, nel quadro peraltro della costante compresenza del CS anche allorquando risultava l’imputata titolare delle società interessate a singole operazioni ( si veda in particolare la sentenza di primo grado sia nella parte preliminare descrittiva della gestione diretta di società da parte del CS, pur a fronte della formale di tolarità della C., sia in sede di approfondimento di specifici reati attribuiti alla medesima), nonchè evidenziando il carattere sistematico e non occasionale delle vicende in cui è coinvolta; inoltre anche laddove viene richiamato, rispetto alle predette circostanze concrete, l’indirizzo giurisprudenziale per cui la finalità evasiva può essere perseguita direttamente da uno dei correi, mentre gli altri, quale nel caso di specie la DR, in considerazione alle concrete condotte di compartecipazione poste in essere, aderiscano alla realizzazione del reato con dolo generico. Alla suesposta ricostruzione si contrappone un motivo di impugnazione che non si confronta realmente e pienamente con tale ordito motivazionale, incentrandosi su una acritica ripetizione di personali considerazioni logico-fattuali, così da rendere la censura manifestamente infondata.
3.8. Manifestamente infondata appare anche la censura proposta rispetto al ritenuto carattere fittizio delle fatture di cui ai capi di imputazione e comprensivi anche di quelli inerenti a reati prescritti ma oggetto di statuizioni civili, e, in particolare, alla rilevata incompatibilità delle stesse con le opere realizzate; censura formulata anche riportando uno stralcio di una testimonianza relativa ad una fattura n. 62 del 2008, con cui il teste confessa l’impossibilità di potersi pronunziare sul punto; così sottolineandosi da parte dei ricorrenti la violazione dell’art. 2 del Dlgs 74/200 e degli artt. 42 e 43 cod. pen. In realtà, il teste citato si limita a riferire di non essere personalmente in grado di stabilire se la fattura faccia riferimento alla prestazione come poi in concreto realizzata. Di contro, la ricostruzione delle incompatibilità di quanto fatturato con quanto realizzato, elaborata per vero dalla corte con riferimento a tutti i reati, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, nasce da una congrua lettura complessiva di indizi riguardanti le fatture emesse. Indizi inseriti previamente e opportunamente nel contesto della gestione, unitaria, di società fittizie strumentalizzate per propri, illeciti fini e create per lo svolgimento di attività anche sovrapponibili tra loro, oltre che nel quadro di operazioni su fatture inesistenti operate secondo modalità analoghe, così da rafforzare reciprocamente il contesto indiziario di ciascuna, ed individuati specificamente: – nella riconducibilità delle fatture a società fittizie o comunque dotate di scarsa capacità imprenditoriale ed organizzativa; – nella somiglianza grafica della redazione delle fatture; – nella rinvenibilità nelle stesse della grafia del CS;- nella coincidenza tra la filiale su cui operava il CS e quella della società “E.P.” con cui CS intesseva singolari rapporti pressocchè esclusivi; – nella contestuale presenza in tale filiale bancaria, del titolare della predetta società e del CS, con realizzazione di pressocchè quasi corrispondenti versamenti e prelievi, secondo il tipico schema della retrocesisone del pagamento di false fatture; – nella genericità dell’oggetto rappresentato in fatture; Oltre ad una serie di ulteriori antinomie, specifiche e proprie delle singole fatture e delle vicende correlate, obiettivamente sintomatiche anch’esse di una rappresentazione inadeguata delle prestazioni e quindi ragionevolmente falsa, puntualmente individuate ed illustrate. Tra queste rientra anche l’assenza di intestazione di fatture, il riferimento a operazioni già eseguite in precedenza sullo stesso cantiere, il tempo di emissione della fattura, successiva al sostanziale completamente del cantiere ma riferita a opere iniziali, la non riconducibilità dell’oggetto della prestazione al cantiere di apparente riferimento ed al soggetto emittente, la presenza in cantiere di altre diverse ditte idonee a svolgere le medesime prestazioni fatturate. A ciò si aggiunge anche la lineare confutazione di rilievi difensivi sul punto, come la rilevata assenza di reali giustificazioni, diverse dalla esigenza di commettere i reati contestati, per spiegare rapporti costanti e per ingenti somme, tra il CS e una piccola impresa come L’E.P.; il giudizio di inadeguatezza della spiegazione fornita sull’uso della stessa filiale bancaria da parte di E.P. e CS, e indicata nella esigenza del titolare di E.P. di non incontrare problemi nella movimentazione dei suoi pagamenti “in nero” agli operai: sconfessata alla luce degli “ingentissimi importi” prelevati, incompatibili con il mero pagamento dei pochi dipendenti; il rilievo circa l’irrisorietà della spiegazione della riconducibilità grafica al CS delle fatture per l’assenza di una segreteria della ditta emittente, rispetto a quella ben più pregante della funzionalità di tale circostanza proprio rispetto al realizzato disegno di ricorrere a ditte emittenti fatture false; la considerazione della irrilevanza della presenza nei cantieri anche di (pochi) dipendenti della E.P., trattandosi di circostanza che da una parte non esclude che anche solo in parte i lavori fatturati non siano stati eseguiti dalla società di riferimento (senza comunque impedire la configurazione dei reati contestati), dall’altra non supera il coacervo di indizi individuati; la plausibilità del rilievo per cui – a fronte del quadro indiziario suesposto e della ripetitività delle medesime operazioni di retrocessione dei pagamenti tra il CS e il titolare della cartiera “E.P.” – la anticipazione, in un caso, del versamento realizzato in banca dal CS rispetto al prelievo operato da E.P., possa giustificarsi con un mero sfasamento dei terminali bancari, tanto più a fronte di una differenza temporale di soli tre minuti. In considerazione di tale preciso quadro indiziario è condivisibile la critica mossa dai giudici, alla consulenza presentata dalla difesa, in termini di genericità, in quanto non riferita al singolo oggetto di ciascuna fattura – inevitabile “fuoco” dei reati contestati – bensì elaborata per linee complessive, riferite ai generali lavori riguardanti i singoli cantieri, così da poter essere inevitabilmente qualificata anche come aprossimativa e quindi sostanzialmente inadeguata nel contribuire alla ricostruzione e valutazione delle reali prestazioni svolte. In tal senso appare congrua la considerazione per cui l’insufficienza di tale consulenza deriva anche, inevitabilmente, dalla criticità dei dati di partenza esaminati e riferiti ai cantieri, in quanto costituiti da ricostruzioni dello stato di fatto originario operate unilateralmente dal CS e da illustrazioni dello stato dei lavori attualmente rinvenibile per il quale – in ragione del processo in corso – è controverso che gli stessi siano frutto dei lavori indicati in fattura. Senza che peraltro tale circostanza possa essere ragionevolmente tacciata quale conseguenza di circostanze o manchevolezze investigative non riverberabili in danno del ricorrente, atteso che, come pure congruamente rilevato, è piuttosto l’assenza dei puntuali e doverosi documenti di corredo dei lavori in esame (dalle tabelle di computo metrico alla descrizione degli stati di avanzamento, sino ai contratti di appalto e alle fatture precisamente illustrative dei lavori svolti e del soggetto destinatario delle stesse) ad incidere negativamente sulla esaustività della consulenza prodotta e sulla genuinità delle fatture esaminate. Emerge di converso che le argomentazioni mosse alle suspsoste ricostruzioni motivazionali dei giudici si traducono in una diversa e personale lettura dei fatti, insuscettibile di analisi in questa sede. Con conseguente manifesta infondatezza del motivo di impugnazione proposto.
6. Quanto al secondo motivo di impugnazione, si premette che ai fini della integrazione del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, l’alienazione è “simulata”, ossia finalizzata a creare una situazione giuridica apparente diversa da quella reale, allorquando il programma contrattuale non corrisponde deliberatamente in tutto (simulazione assoluta) o in parte (simulazione relativa) alla effettiva volontà dei contraenti; con la conseguenza che ove invece il trasferimento del bene sia effettivo, la relativa condotta non può essere considerata alla stregua di un atto simulato, ma deve essere valutata esclusivamente quale possibile “atto fraudolento”, idoneo a rappresentare una realtà non corrispondente al vero e a mettere a repentaglio o comunque ostacolare l’azione di recupero del bene da parte dell’Erario (Sez. 3, n. 3011 del 05/07/2016 (dep. 20/01/2017) Rv. 268798 – 01 Di Tullio). In particolare va precisato, quanto alla nozione di “atti fraudolenti”, rilevante ai fini del presente giudizio che, secondo un ormai consolidato indirizzo ermeneutico (cfr. Sez. 3, n. 25677 del 16/05/2012, Rv. 252996), devono ritenersi tali tutti quei comportamenti che, quand’anche formalmente leciti, siano tuttavia connotati da elementi di inganno o di artificio, dovendosi cioè ravvisare l’esistenza di uno stratagemma tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali all’esecuzione. Si è pertanto precisato che ai fini della configurabilità del reato, non è sufficiente la semplice idoneità dell’atto a ostacolare l’azione di recupero del bene da parte dell’Erario, essendo invece necessario il compimento di atti che, nell’essere diretti a questo fine, si caratterizzino per la loro natura simulatoria o fraudolenta. La necessità di individuare questo quid pluris nella condotta dell’agente è stata di recente sottolineata anche dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. sentenza n. 12213 del 21/12/2017, Rv. 272171) che, nell’ambito di una più ampia riflessione sul concetto di atti simulati o fraudolenti di cui all’art.388 cod. pen., norma il cui schema risulta richiamato dall’art. 11 del Dlgs. 74/2000, hanno affermato che sarebbe in contrasto con il principio di legalità una lettura della norma che facesse coincidere il requisito della natura fraudolenta degli atti con la loro mera idoneità alla riduzione delle garanzie del credito; per cui in quest’ottica può essere ritenuto penalmente rilevante solo un atto di disposizione del patrimonio che si caratterizzi per le modalità tipizzate dalla norma, non potendosi in definitiva far coincidere la natura simulata dell’alienazione o il carattere fraudolento degli atti con il fine di vulnerare le legittime aspettative dell’Erario (cfr. in motivazione Sez. 3, n. 29636 del 02/03/2018 Rv. 273493 – 01 Auci). Nel caso in esame, i giudici di merito hanno ricostruito una progressiva operazione, conseguente alla consapevolezza della possibilità dell’avvio di pretese erariali e fondata sulla coscienza dell’avvenuta instaurazione di un imponente e prolungato “giro di fatture fittizie”, diretta a separare artificiosamente i crediti fiscali dalla concreta possibilità di trovare soddisfacimento sui beni dei corrispondenti debitori. In tal senso si pongono lungo una linea di stretta e coerente conseguenzialità il ricorso al fondo speciale “Argentovivo” – connotato da un regime di sottrazione dei beni ai creditori salvi i casi di documentati crediti pregressi e per ragioni previdenziali ed assistenziali degli interessati al Fondo, in cui evidentemente, come rilevato, non potevano includersi quelli erariali ancora in corso di formale e giuridico consolidamento -, il conferimento ad esso di beni successivamente all’apertura delle verifiche fiscali, il mantenimento degli stessi nella disponibilità del CS e suoi parenti, attraverso il ricorso ad accorgimenti negoziali come il comodato. Laddove la considerazione difensiva per cui taluni di questi beni erano stati già artatamente trasferiti in società del “gruppo” per “schermarli” dalle pretese della ex moglie del CS, cosicchè il successivo passaggio al Fondo dei medesimi era confermativo di tale precipua finalità, lungi dall’escludere il carattere fraudolento dell’operazione alla luce dell’art. 11 cit., lo rafforza, in quanto conferma la funzione meramente strumentale del Fondo stesso rispetto ad esigenze di “schermatura” da altrui pretese di beni. Esigenze quindi lontane, come tali, dagli scopi istituzionali del predetto Fondo, inerenti piuttosto, esigenze di previdenza familiare. Si tratta di rilievi confortati ulteriormente dalla circostanza del trasferimento al Fondo anche di Beni della DR o di sue società, rispetto cui evidentemente non potevano certamente venire in rilievo preoccupazioni rispetto a pretese della ex coniuge del CS. La suesposta ricostruzione, completa e lineare, travolge le considerazioni difensive sia sul paino della ricostruzione fattuale che giuridica del reato, così da evidenziarne l’assenza di sia pur minimi fondamenti logico – giuridici e consentirne di rilevarne la manifesta infondatezza.
7. Riguardo al terzo motivo di impugnazione, deve rilevarsi preliminarmente che con l’atto di appello i ricorrenti in sede di conclusioni finali rispetto agli esposti motivi hanno richiesto la “revoca della disposta confisca (…) eventualmente anche per effetto del venir meno del debito fiscale” ed in subordine la “riduzione dell’importo oggetto di confisca” da determinarsi in relazione alla prescrizione maturata per taluni reati. Emerge quindi la manifesta infondatezza del motivo in esame: a fronte della mancata proposizione di una correlata censura in sede di appello, tale non essendo la richiamata generica istanza di revoca della confisca disposta dal primo giudice, emerge un motivo nuovo come tale inammissibile. Come noto infatti, non sono deducibili con il ricorso per cassazione questioni che non abbiano costituito oggetto di motivi di gravame, dovendosi evitare il rischio che in sede di legittimità sia annullato il provvedimento impugnato con riferimento ad un punto della decisione rispetto al quale si configura “a priori” un inevitabile difetto di motivazione per essere stato intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello (cfr. Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017 Rv.270316 – 01 Galdi).
P.Q.M.
dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila ciascuno a favore della cassa delle ammende nonchè alla rifusione delle spese processuali del grado in favore della parte civile che liquida in complessivi euro 4500,00 oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
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