Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 42618 depositata il 19 ottobre 2023
la bancarotta “riparata” si configura, determinando l’insussistenza dell’elemento materiale del reato, quando la sottrazione dei beni venga annullata da un’attività di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell’impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, così annullando il pregiudizio per i creditori o anche solo la potenzialità di un danno
RITENUTO IN FATTO
1. La pronunzia impugnata è stata deliberata l’11 luglio 2022 dalla Corte di appello di Milano, che ha confermato la condanna inflitta ad S.A. dal Tribunale di Pavia per i reati di bancarotta fraudolenta distrattiva e bancarotta di operazioni dolose in relazione alla società F. s.a.s., già F. s.r.l., dichiarata fallita dal Tribunale di Vigevano l’11 aprile 2012.
In particolare, all’esito dei due gradi di merito, S.A. è stato riconosciuto colpevole delle seguenti condotte (riportate secondo lo schema delle imputazioni).
(capo 2)
– reato di cui agli artt. 110 cod. pen., 216 n. 1, 223 e 219 comma 2 legge fall. perché, quale membro del consiglio di amministrazione di F. s.r.l. fino al 28 maggio 2010 e poi quale socio accomandatario ed amministratore di fatto di F. s.a.s. – società dichiarata fallita dal Tribunale di Vigevano in data 11 aprile 2012 – distraeva i seguenti beni e le seguenti attività sociali:
1. somme conseguite illegittimamente a titolo di finanziamenti regionali (da cui l’imputazione sub 1 ex art. 640-bis cod. pen., per cui vi è stata declaratoria di prescrizione), che, transitate su c/c F. s.r.l. del Credito Artigiano, venivano indebitamente dirottate verso D.T. s.r.l., O.T. s.r.l., I.S. sa o utilizzate per pagare compensi agli amministratori della fallita;
2. la somma portata nella fattura nr. 33 emessa in data 1° ottobre 2008 per 36.000 euro da Società C.C. a.s.d., non inerente all’attività sociale;
3. la somma di 50.100 euro di cui alla rimessa bancaria nei confronti di I.S. sa, società amministrata da S.A., a parziale pagamento di fattura relativa a rapporto non esistente;
5. la somma di 159.300 euro (tra giugno 2008 e dicembre 2009), corrispondente all’importo di più fatture emesse da S.A. nei confronti della società fallita per servizi tecnici non meglio precisati e non documentati, da ritenersi pertanto inesistenti;
6. la somma di 135.900 euro (tra maggio e giugno 2010), corrispondente all’importo di più fatture emesse da Evotech s.r.l. nei confronti della società fallita per la fornitura di un macchinario “prototipatrice” non meglio precisato, macchinario peraltro non rinvenuto e da ritenersi pertanto inesistente;
8. la somma di 112.000 euro monetizzata in contanti e derivante dal cambio di due a/b F. s.r.l. del Credito Artigiano emessi nei confronti di D.T. s.r.l. e D. s.r.l., cambio effettuato mediante un’operazione extraconto il 27 novembre 2009;
9. somme prelevate in più riprese dai cc/cc bancari o per cassa a titolo di compensi amministratori.
(capo4)
– reato di cui agli artt. 110 cod. pen. e 223 co.2 n.2 legge fall. perché, nella qualità di cui al capo 2, dissimulando il dissesto e lo stato di insolvenza di F. s.r.l., presentava allo sconto diverse fatture per operazioni inesistenti emesse da F. nei confronti di B. s.p.a., N.D. s.r.l., E.T.I. s.r.l., S.M. s.r.l., MS s.r.l., v / P.E. s.r.l., D. s.a.s., Off. Mecc. G.C. s.p.a., aumentando il debito bancario della F. sino all’importo di 604.842,84 euro e cagionando, così, il fallimento della società.
E’ opportuno chiarire che l’imputazione dichiarata prescritta in primo grado di cui al capo 1 – ex art 640-bis cod. pen. – riguardava l’ottenimento di due finanziamenti regionali da parte della F. s.r.l. in relazione ai quali, in sede di rendicontazione dei costi, erano state presentate fatture relative ad operazioni inesistenti riguardanti società riferibili, più o meno direttamente, a S.A. e che l’attività istruttoria (escussione testi e perizia contabile) aveva confermato essere quasi del tutto false (cfr. sentenza di primo grado, pagg. 2-9).
2. Avverso detta sentenza ricorre l’imputato a mezzo del difensore di fiducia Avv. M.J..
2.1. Il primo motivo di ricorso lamenta violazione di legge e mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione con riferimento alla mancata assunzione della testimonianza dell’Ing. C.M. (il funzionario incaricato dalla Regione di verificare gli investimenti per cui erano stati erogati i finanziamenti regionali che si assumono indebitamente ottenuti, n.d.e.) e/o all’acquisizione della sua relazione ex art. 603 cod. proc. pen.
In disparte la circostanza che la Corte di appello ha taciuto sull’istanza di acquisizione della relazione dell’Ing. C.M. – mentre si è pronunziata solo sulla richiesta di audizione del predetto ex art. 603 cod. proc. pen. – la motivazione dell’ordinanza resa all’udienza del 4 marzo 2021 si risolverebbe in una semplice formula di stile. Lamenta, poi, il ricorrente che, come sottolineato dal CTP, alcuni dei file estratti dalla memoria dell’hard disk della società depongono per l’esistenza dei rapporti commerciali tra F. e società clienti ovvero tra F. e le società che avevano collaborato ai progetti regionali, ma non sono stati ritenuti esaustivi dal perito Gorgoni (perito contabile nominato dal Tribunale, n.d.e.). Il ricorrente prosegue osservando che tutta la documentazione della società era stata sequestrata dalla Guardia di Finanza in sede di verifica fiscale, ivi compresi i progetti F. in esecuzione dei due finanziamenti regionali, nonché tutta la documentazione concernente l’attività svolta da S.A. e oggetto delle fatture contestate; e che la relazione dell’Ing. C.M. – di cui non vi è più traccia – compendiava le attività da quest’ultimo svolte recandosi più volte preso gli uffici della F. e prendendo visione di quanto contenuto negli hard disk.
2.2. Il secondo motivo di ricorso deduce vizio di motivazione quanto ai fatti di cui al capo 2 dell’imputazione, cui si riferisce partitamente.
2.2.1. Quanto al «capo B1 dell’atto di appello» (che si riferisce al punto 1 dell’imputazione sub B, n.d.e.), il ricorrente ricorda che aveva già denunziato che questa alinea descrivesse comportamenti generici, in parte già contemplati nei punti 3, 8 e 9, e in parte già ritenuti insussistenti sulla base dell’elaborato peritale.
2.2.2. Con riguardo – di nuovo – al «capo B1 dell’atto di appello» (doglianza di cui a pag. 9 del ricorso), nel ricorso si legge che la motivazione sarebbe meramente apparente in quanto, «a fronte di specifiche doglianze» la Corte di merito si limita a sottolineare la condivisibilità delle conclusioni della sentenza di primo grado.
2.2.3. Con riferimento al «capo B.3) dell’atto di appello» (che si riferisce al punto 3 dell’imputazione sub B, n.d.e.), la sentenza impugnata sarebbe contraddittoria e illogica. Diversamente da quanto sostenuto nella decisione avversata (di cui viene riportato un passaggio), la documentazione allegata alla CTP dimostrerebbe che I. era intervenuta nel 2009 come partner nel progetto SSIO e che la medesima società stava predisponendo disegni e descrizioni sui moduli di deposito. Sempre la I., dopo il fallimento della F., ha completato e sviluppato la tecnologia, che voleva già acquistare dalla fallita all’indomani della revoca dei finanziamenti da parte della Regione Lombardia. L’incarico svolto da I. – prosegue il ricorso, sempre fondando sulla documentazione allegata alla CTP – era diverso da quello svolto da !mesa, al contrario di quanto sostenuto dal Tribunale, che aveva altresì ignorato che buona parte della documentazione ritrovata sugli hard disk non è più visionabile a causa delle procedure scorrette seguite dalla Polizia Giudiziaria nella fase di estrazione delle copie. Tanto più che la fattura della I. era stata oggetto della relazione dell’Ing. C.M., non acquisita.
2.2.4. Con riguardo al «capo B.4 dell’atto di appello» (che si riferisce al punto 4 dell’imputazione sub B, n.d.e.) il ricorrente, dopo aver riportato, anche in questo caso, un passaggio della sentenza impugnata, circa la fittizietà delle fatture emesse dalla ditta individuale S.A., assume che proprio le caratteristiche dei file rinvenuti dal perito Giorgi dimostrerebbe che, tra quelli danneggiati dalla polizia giudiziaria, ve ne erano di relativi all’attività di progettazione del sito web da parte della ditta individuale. Se è vero che non vi è prova documentale dell’attività svolta – si legge ancora nel ricorso – è anche vero che non vi è prova del contrario e che la perizia informatica ha evidenziato che dette prove erano andate perse per l’attività della Guardia di Finanza sul compendio informatico. Il ricorrente prosegue contestando l’affermazione della Corte distrettuale secondo cui, qualora l’attività svolta per la fallita da parte della ditta S.A. fosse stata vera, l’imputato ne avrebbe avuto documentazione, perché si trattava di attività svolta per conto della F. sui computer di quest’ultima. Il tema, valorizzato dalla Corte di appello, secondo cui la fittizietà dell’operazione sarebbe stata dimostrata anche dalla circostanza che vi erano due fatture, con identico numero, ma con date ed importi diversi, sarebbe frutto di un errore, sia perché le due fatture avevano lo stesso importo, sia perché la divergenza nel giorno di emissione sarebbe frutto di un mero errore di ristampa. Del resto, tale fattura era stata rendicontata solo per 5000 euro alla Regione Lombardia. Per non parlare – prosegue il ricorso – delle attività che S.A. – benché, per un periodo, titolare di cariche sociali nella F. – ha svolto per detta società quale consulente nello sviluppo ed implementazione dei vari progetti e nella configurazione delle macchine, dei server e degli hardware della fallita,
2.2.5. Con riguardo al «capo 8.5) dell’atto di appello», la sentenza impugnata avrebbe riprodotto quanto asserito dal Tribunale
2.2.6. Quanto al «capo 8.6) dell’atto di appello», la sentenza impugnata non avrebbe risposto alla doglianza.
2.2.7. Quanto al «capo 8. 7) dell’atto di appello» (che si riferisce al punto 9 dell’imputazione sub B, n.d.e.), la sentenza impugnata – di cui pure viene riportato un tratto – sarebbe illogica, contraddittoria e deficitaria perché, in primo luogo, non avrebbe risposto alla doglianza dell’appello secondo cui non si era argomentato sugli anni 2008 e 2010. E poi avrebbe erroneamente riportato che, nell’anno 2009, S.A. e la moglie avevano percepito 240.000 euro di compenso, mentre la somma effettivamente percepita era di 140.000 euro. Inoltre la Corte di appello, nel ribadire la correttezza della sentenza di primo grado, rimanda alle conclusioni del Collegio sindacale, che tuttavia erano state ridimensionate dal perito. Sarebbe errata – prosegue il ricorso – la conclusione della Corte di appello secondo cui i prelievi degli amministratori avrebbero ecceduto quanto stabilito nelle delibere assembleari. Assume il ricorrente, per contrastare altro passaggio della sentenza impugnata, che, al momento della percezione dei compensi “incriminati”, la società non si trovava in uno stato di dissesto (al contrario, determinato da una serie di avvenimenti del 2011) e che i compensi erano congrui, la loro percezione era cessata a partire da giugno 2010 e che, comunque, sulla loro congruità non era stato svolto alcun accertamento giudiziale.
Il ricorso si dirige, poi, a contestare la conclusione della Corte di appello circa l’assenza degli estremi della bancarotta riparata, dubitando della correttezza della conclusione della decisione avversata secondo cui la reintegrazione del patrimonio sociale non era stata integrale.
2.3. Il terzo motivo di ricorso denunzia mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione quanto al giudizio di penale responsabilità in ordine al capo 4. Sostiene il ricorrente che la Corte di appello avrebbe trascurato tutte le mail allegate alla CTP e rinvenute negli Hard Disk sequestrati, che dimostrerebbero l’esistenza di rapporti commerciali con le società a favore delle quali erano state emesse le fatture portate allo sconto ovvero, comunque, la correttezza delle operazioni. Allo stesso modo, la decisione avversata tace sulla comunicazione del 13 maggio 2019 di Intesa San Paolo da cui si evince che la quasi totalità dell’anticipazione è stata regolarmente estinta per pagamento da parte delle società debitrici. Quanto alle altre società debitrici, le loro posizioni erano state regolarmente coperte, almeno in parte, da un bonifico di 150.000 euro del garante Eurofidi, sicché residuerebbe solo uno scoperto di 80.000 euro.
3. Il 4 agosto 2023, l’Avv. S.G. ha depositato motivi nuovi nell’interesse dell’imputato.
3.1. Il primo motivo nuovo lamenta violazione degli artt. 244, co. 2, 247, co. 1-bis, 254-bis, comma 1, 259, co. 2, e 260, co. 2, 354, 359 cod. proc. pen. e censura, in particolare, l’utilizzo, ai fini di prova, in quanto confluiti nella perizia Gorgoni, degli hard disk in sequestro (pp. 20-22 della sentenza impugnata) nonostante la violazione della normativa e delle best practices in punto di acquisizione e conservazione di dati informatici da parte della Guardia di Finanza che attuò la verifica fiscale della società.
Il ricorso assume che il tema fosse già stato trattato nell’atto di appello e nel ricorso principale e che il perito G.i lo avesse anch’egli affrontato durante la sua deposizione del 4 marzo 2021, sia quanto al mancato rispetto, da parte della Guardia di Finanza, delle best practises in materia di copia forense, sia quanto all’illeggibilità di alcuni file, donde aveva fondato la sua analisi solo sui file leggibili. Quanto affermato da G. sarebbe confermato dalla relazione redatta dal consulente tecnico forense, dott. M.G., che aveva evidenziato plurime anomalie che interessano i file rinvenuti nei supporti, anomalie che il ricorso elenca e che anche la Corte di appello avrebbe rilevato, pur senza trarne le dovute conseguenze in termini di inutilizzabilità dei dati.
Il ricorso, quindi, indugia, sulla ricostruzione normativa del tema.
Una specifica disciplina in materia di evidenza digitale è stata introdotta nel nostro ordinamento dalla legge n. 48 del 2008 (legge di ratifica e di esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica firmata a Budapest il 23 novembre 2001), la quale ha interpolato una serie di previsioni del codice di procedura penale al fine di assicurare particolari garanzie nel caso in cui oggetto di perquisizione/ispezione e sequestro siano documenti informatici. Per quanto qui di interesse, vengono in evidenza, in particolare, le disposizioni di cui agli artt. 244, co. 2, 247, comma 1-bis, 254-bis, comma 1, 259, co. 2, 260, comma 2 e 354 cod. proc. pen., che stabiliscono che vadano adottate procedure di estrazione dei dati che assicurino la rispondenza delle copie ai dati originali. La giurisprudenza e le circolari interne ad organi di polizia giudiziaria indicano come strumento privilegiato per ottenere questo risultato la c.d. bitstream image, o copia forense, la quale consente di acquisire una copia perfetta del contenuto del supporto informatico oggetto di analisi, ossia una copia-clone che assicuri la perfetta rispondenza tra quanto trovato e quanto acquisito. Niente di quanto sopra – sostiene il ricorso – si è realizzato nel caso concreto: le norme e le best practices in materia sono state disattese e ciò ha reso possibili le numerose anomalie individuate dal consulente G. nella sua analisi e citate anche dalla sentenza impugnata. Prosegue il ricorrente sostenendo che i difetti genetici relativi all’acquisizione hanno, da una parte, evidentemente danneggiato molti dei dati acquisiti e, dall’altra, reso possibili (anche solo astrattamente) successive manipolazioni degli stessi, senza che sia più possibile verificare l’identità tra i file originariamente appresi e quelli esaminati da Gorgoni, in assenza di quella fotografia bit per bit che invece sarebbe stata necessaria e della successiva catena di custodia.
Quanto alla necessaria “prova di resistenza”, il ricorso sottolinea che la sentenza impugnata è fondata quasi esclusivamente sulla perizia Gorgoni e che quest’ultima è basata, a sua volta, sul materiale informatico, di cui la perizia stessa riconosce i limiti per le anomalie di natura tecnica sopra illustrate.
Le doglianze sopra esposte – prosegue il ricorso – oltre a rappresentare motivo di ricorso indipendente e autonomo, sono portate ad ulteriore sostegno del primo motivo di ricorso, quanto alla necessità di escutere il teste C.M..
3.2. Il secondo motivo nuovo lamenta violazione dell’art. 27 Cost. perché la sentenza impugnata non solo svaluta le osservazioni della difesa in merito alla irrituale acquisizione dei file contenuti negli hard disk, ma, alle pagg. 21 e 22 della decisione avversata, addossa a S.A. le conseguenze della illegittima assunzione della prova quando sostiene che l’imputato era in condizione di produrre documentazione che doveva essere nella sua disponibilità. Tale affermazione andava bilanciata con le particolarità della vicenda concreta, caratterizzata da una grande complessità tecnica dei fatti contestati e dalla distanza temporale che ormai intercorre tra questi ultimi e l’odierno procedimento.
3.3. Il terzo motivo nuovo lamenta contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione laddove la sentenza impugnata stabilisce che non vi sia stata bancarotta riparata per la differenza di 30.000 euro tra le somme fuoriuscite dalla F. e quelle rientrate con gli aumenti di capitale.
Tale conclusione – si legge nel ricorso – sconta un vizio di fondo, perché presuppone che tali somme siano state incamerate per operazioni inesistenti e che, dunque, il loro dirottamento verso altre società sia illecito. Ma ciò non è, perché tali somme erano destinate al rimborso dei costi relativi alla creazione, da parte di S.A., di un sito internet di F.. E, in base alla normativa di Regione Lombardia, le erogazioni di cui si discute sono state effettuate necessariamente a valle di un accertamento, da parte della Regione, dell’operazione descritta in fattura. Il ricorso riporta la normativa di settore – che prevede dei controlli a campione – controlli che, nel caso di specie, furono svolti con esito positivo dal dott. C.M. e che erano particolarmente facili, visto che si trattava della creazione del sito internet della società.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è, nel suo complesso, infondato e va, pertanto, respinto.
1. Il primo motivo del ricorso redatto dall’Avv. M. – incentrato sul tema del contributo, scritto e orale, dell’Ing. C.M., il tecnico incaricato dalla Regione Lombardia di verificare la destinazione delle somme oggetto di finanziamento – è redatto in maniera, per più aspetti, non particolarmente lineare quanto alle ragioni della censura, il che costituisce un primo indicatore che milita nel senso dell’inammissibilità della doglianza.
Ad ogni buon conto, quello che appare sufficientemente chiaro è che il ricorrente si duole della mancata escussione dell’Ing. C.M. e della mancata acquisizione della sua relazione ex art. 603 cod. proc. pen., ma senza evidenziare quale sarebbe stato il rilievo di entrambe nell’economia della decisione, il che costituisce una insuperabile mancanza, che nuoce alla specificità della censura; a maggior ragione se si pensa che il predetto aveva redatto, appunto, una relazione in cui, secondo quanto affermato dal ricorrente, erano sintetizzati gli esiti delle sue verifiche.
Quanto, in particolare, alla relazione, ancorché la Corte distrettuale non abbia specificamente motivato circa le ragioni della sua mancata acquisizione, il ricorrente non chiarisce quale ne sarebbe stato il rilievo rispetto all’esito del processo né – più a monte – spiega se l’abbia mai vista perché confluita almeno nel fascicolo del pubblico ministero ovvero se ne conosca, comunque, il preciso contenuto e non già solo l’argomento. D’altra parte – osserva il Collegio – delle due l’una: o il ricorrente ne conosceva il contenuto e allora il motivo di ricorso è generico perché non lo illustra, né ne chiarisce la portata confutatoria rispetto alla motivazione avversata; o non l’ha mai vista, e allora la sua richiesta è esplorativa e, ancora una volta, generica. E’ opinione del Collegio, infatti, che il rilievo del contributo di C.M. – scritto o orale – non possa discendere dalla sola circostanza che questi abbia visionato gli hard disk della F., senza che si comprenda se la lettura dello scritto o l’esame del teste avrebbero apportato elementi di conoscenza in grado di incidere sull’esito del processo e di scardinare la tesi accusatoria – recepita dai Giudici di merito – secondo cui le attività oggetto dei finanziamenti regionali non vi erano mai state.
Questo deficit si risolve in un ricorso non solo inammissibile per genericità, ma anche manifestamente infondato laddove la giurisprudenza di questa Corte insegna che, in ragione della sua natura eccezionale, alla rinnovazione in appello dell’istruttoria dibattimentale può farsi ricorso, in deroga alla presunzione di completezza dell’istruttoria espletata in primo grado, esclusivamente qualora il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, indispensabile la integrazione, nel senso che non è altrimenti in grado di decidere sulla base del solo materiale già a sua disposizione (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266820). Ne consegue che in cassazione può essere censurata la mancata rinnovazione in appello dell’istruttoria dibattimentale laddove si dimostri l’oggettiva necessità dell’incombente istruttorio e, di conseguenza, l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, che sarebbero state presumibilmente evitate se si fosse provveduto all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello (Sez. 5, n. 32379 del 12/04/2018, Impellizzeri, Rv. 273577; Sez. 6, n. 1256 del 28/11/2013, dep. 2014, Cazzetto, Rv. 258236).
Rileva, infine, la Corte che il riferimento – che pure si legge nel ricorso – alla relazione del consulente tecnico della difesa per stabilire quale fosse il contenuto dei file non recuperati è meramente assertivo.
2. Il secondo motivo di ricorso richiede risposte differenziate in ragione della segmentazione delle doglianze, a loro volta calibrata sulla suddivisione – in quelli che chiameremo “sotto-capi” – che si legge nel capo di imputazione.
2.1. Quanto al «capo 81 dell’atto di appello» (che si riferisce al punto 1 dell’imputazione sub B), il ricorrente sembra dolersi di essere stato condannato due volte per gli stessi fatti, in quanto l’alinea oggetto della censura richiama condotte contemplate nei successivi sottocapi.
Ebbene, benché il Collegio debba rilevare che la risposta della Corte territoriale sul punto è piuttosto vaga, deve nondimeno segnalare che anche il motivo di ricorso lo è, nella misura in cui non lascia comprendere di cosa esattamente ci si dolga. Se anche il punto n. 1 del capo 2) sembra effettivamente una premessa a quello che è descritto dopo, non vi è prova che il Tribunale abbia considerato due volte la stessa condotta, tenuto conto che, a pag. 10, ha scritto, con riferimento al sottocapo 1, che «con riferimento a tali condotte non vi è documentazione giustificativa e sono trasferimenti in denaro verso la ditta individuale S.A. e N.», per poi ritornare successivamente ai trasferimenti ingiustificati a favore delle due realtà imprenditoriali suddette.
D’altronde il dedotto bis in idem non è dimostrabile neanche riguardando il calcolo della pena, considerato che l’imputato risponde di condotte plurime all’interno della medesima contestazione bancarottiera di cui al capo 2 – con conseguente determinazione omnibus della pena per l’intero complesso delle distrazioni – ed è stato condannato al minimo della pena di tre anni di reclusione, una volta concesse le circostanze attenuanti generiche in regime di equivalenza con l’aggravante dei più fatti di bancarotta (ritenuta in ragione della condanna anche per il reato di cui al capo 4).
2.2. Il segmento di doglianza riportato a pag. 9 del ricorso e, ancora una volta, relativo al «capo 81 dell’atto di appello» è completamente generico, limitandosi a denunziare motivazione apparente in quanto, «a fronte di specifiche doglianze» la Corte di merito avrebbe solo sottolineato la condivisibilità delle conclusioni della sentenza di primo grado, senza spiegare però il ricorrente quale o quali sarebbero le doglianze pretermesse.
2.3. Il terzo segmento del motivo di ricorso in esame si riferisce al punto 3 dell’imputazione sub B – vale a dire alla distrazione a favore di I. s.r.l., società amministrata da S.A. – ed è portatore di una doglianza non ammissibile perché versata in fatto. Occorre, a questo proposito, ricordare che, nel giudizio di legittimità, non è consentito invocare una valutazione o rivalutazione degli elementi probatori al fine di trarne proprie conclusioni in contrasto con quelle del giudice del merito, chiedendo alla Corte di legittimità un giudizio di fatto che non le compete. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 22242 del 27/01/2011, Scibé, Rv. 249651, in motivazione; Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260). Più di recente si è sostenuto che, nel giudizio di cassazione, sono precluse al Giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020 Ud., dep. 2021, F.; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; pronunzie che trovano precedenti conformi in Sez. 5, n. 12634 del 22/03/2006, Cugliari, Rv. 233780; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507).
2.4. Il quarto snodo del motivo di ricorso in esame concerne la distrazione a favore della ditta individuale S.A., di cui al punto 5 del capo 2 di imputazione.
La doglianza riprende argomentazioni già portate all’attenzione della Corte di appello che, dal canto suo, ha logicamente argomentato circa la dimostrazione dell’inesistenza dell’operazione sottostante le fatture in cui erano coinvolte, da una parte, la società amministrata da S.A. e, dall’altra, la ditta individuale al medesimo intestata. Partendo da quest’ultimo dato, certamente suggestivo, tali indicatori sono stati ravvisati, da una parte, nella mancata dimostrazione dell’attività svolta dall’imputato a beneficio della società e, dall’altra, nell’anomalia che caratterizzava due fatture emesse dalla ditta individuale, recanti lo stesso numero, ma date e importi diversi. E, all’obiezione difensiva secondo cui la documentazione era stata distrutta dalla Guardia di Finanza, la Corte di merito ha replicato che tale impostazione era congetturale in quanto presupponeva che proprio tra file danneggiati fosse rinvenibile la documentazione comprovante l’effettività delle attività svolte dalla ditta del ricorrente a beneficio della società, evidenziando come, tra quelli estratti dal perito informatico Giorgi, non vi fosse nulla. E segnalando, infine, come indicativa della non effettività dell’attività svolta per conto della fallita la circostanza che S.A. – benché fosse direttamente coinvolto quale controparte – non avesse prodotto documentazione a supporto della sua tesi.
Ebbene, tale motivazione è del tutto logica e il ricorso non coglie nel segno.
In primo luogo, la deduzione di un travisamento della prova quanto alle fatture non è idoneamente supportata, giacché la visione della relazione peritale richiamata sia nel ricorso che dalla Corte territoriale non consente di comprendere, con la dovuta nettezza, se le fatture avessero effettivamente il medesimo importo. Fermo restando che, quand’anche tale circostanza fosse vera, resta l’anomalia che le fatture recavano il medesimo numero e date diverse, anomalia che spiegare con un errore di ristampa pare semplicistico e assertivo. D’altronde – ci si deve domandare – quale sarebbe la decisività del ridetto, eventuale errore percettivo da parte della Corte territoriale, considerato che il diverso importo delle due fatture – si ribadisce, aventi stesso numero e date diverse – era solo uno degli indici di anomalia dell’operazione, che hanno indotto i Giudici di merito a ritenerla fasulla. A questo riguardo, occorre ricordare che il travisamento della prova si configura quando il Giudice utilizzi un’informazione inesistente o ometta la valutazione di una prova e sempre che il dato probatorio, travisato od omesso, abbia il carattere della decisività nella motivazione; si ricorda altresì che tale vizio, intanto può essere dedotto, in quanto siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le prove che si pretende essere state travisate e sempre che il ricorrente non le abbia solo parzialmente considerate a sostegno delle sue ragioni e non ne abbia adottato una lettura atomistica, scevra da un inquadramento di insieme (Sez. 2, n. 20677 del 11/04/2017, Schioppo, Rv. 270071; Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, Bregamotti, Rv. 265053; Sez. 2, n. 26725 del 01/03/2013, Natale e altri, Rv. 256723; Sez. 5, n. 11910 del 22/01/2010, Casucci, Rv. 246552).
In ordine alla censura concernente l’argomentazione della Corte distrettuale secondo cui, se l’operazione fosse stata reale, S.A., quale parte di essa, avrebbe avuto tutta la possibilità di documentarla, essa è infondata giacché non si tratta di un’inversione dell’onere della prova, ma del rilievo – del tutto razionale – dell’anomalia dell’assenza di qualsivoglia supporto documentale di un’attività proprio in capo a chi l’aveva, in tesi, espletata.
2.5. Le doglianze concernenti il «capo 8.5)» e il «capo 8.6)» dell’atto di appello sono completamente generiche.
2.6. In ordine al sottocapo 9, S.A. è stato condannato per compensi direttamente percepiti e per quelli nel contempo elargiti alla moglie e formalmente giustificati come retribuzioni per l’attività amministrativa svolta nell’anno 2009 per conto della F. s.r.l.
Su questo aspetto pare che, effettivamente, la Corte di appello abbia dato luogo ad un travisamento, ritenendo che la somma percepita fosse di 240.000 invece che di 140.000 euro; tuttavia tale travisamento non è decisivo, a fronte dell’argomentazione già resa dal Tribunale (che aveva invece correttamente individuato l’importo) circa la non congruità dei compensi erogati, argomentazione non specificamente avversata nell’appello, ripresa dalla Corte distrettuale e, di nuovo, non debitamente contestata nel ricorso per cassazione.
La sentenza di primo grado, infatti, sottolineava la non congruità delle somme erogate ad Arianna Callegari – moglie di S.A., che non aveva svolto alcuna attività – e la concomitanza tra i prelievi degli amministratori e l’erogazione dei finanziamenti regionaii, ulteriore indicatore della direzione spoliativa della condotta. L’appello, dal canto suo, faceva leva sulle delibere assembleari che avevano autorizzato la corresponsione dei compensi ed evidenziava l’attività svolta da S.A., ma in maniera tuttavia generica e, soprattutto, si riferiva solo all’imputato, tacendo circa le somme finite nelle tasche della C., di cui comunque S.A., quale amministratore effettivo della società, era responsabile.
E’ mancata, soprattutto, fin dal gravame di merito, una difesa che riguardasse la “congruità” delle somme ricevute ed elargite (altrimenti detto, l’adeguatezza rispetto all’attività prestata per conto della società); anche nel ricorso per cassazione, poi, il concetto di “congruità” è stato genericamente evocato, ma non circostanziato. Di contro è evidente che particolare attenzione la parte avrebbe dovuto porre a detto tema, giacché è questa la chiave di volta per la decisione; con la precisazione che essa serve a discriminare non già – si badi – tra l’addebito di bancarotta distrattiva e l’irrilevanza penale del fatto, ma tra la prima e la meno grave fattispecie di bancarotta preferenziale. Si è sostenuto, infatti, che «Configura il delitto di bancarotta per distrazione, e non quello di bancarotta preferenziale, la condotta del socio amministratore di una società di persone che prelevi dalle casse sociali somme asseritamente corrispondenti a crediti dal medesimo vantati per il lavoro prestato nell’interesse della società, senza l’indicazione di elementi che ne consentano un’adeguata valutazione, atteso che il rapporto di immedesimazione organica che si instaura tra amministratore e società, segnatamente di persone (oltreché di capitali, alla luce di Sez. U. Civ. n. 1545 del 2017, Rv. 642004-03), non è assimilabile né ad un contratto d’opera né ad un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato che giustifichino di per sé il credito per il lavoro prestato, dovendo invece l’eventuale sussistenza, autonoma e parallela, di un tale rapporto essere verificata in concreto attraverso l’accertamento dell’oggettivo svolgimento di attività estranee alle funzioni inerenti all’immedesimazione organica» (Sez. 5, n. 14010 del 12/02/2020, Sarasso, Rv. 279103). In motivazione, innanzitutto la Corte ha confermato la volontà di dare seguito alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui commette il reato di bancarotta per distrazione e non quello di bancarotta preferenziale il socio amministratore di una società di capitali che preleva dalle casse sociali somme asseritamente corrispondenti a crediti da lui vantati per il “lavoro” prestato nell’interesse della società, senza l’indicazione di dati ed elementi di confronto che ne consentano un’adeguata valutazione, quali, ad esempio, gli impegni orari osservati, gli emolumenti riconosciuti a precedenti amministratori o a quelli di società del medesimo settore, i risultati raggiunti ecc. (Sez. 5, n. 49509 del 19/07/2017 Rv. 271464; arg. ex Sez. 5, n. 32378 del 12/04/2018, Fagiolo, Rv. 273576). Questa conclusione è stata, poi, ulteriormente argomentata. Il precedente in discorso ha aggiunto la necessità di prendere atto dei principi affermati dalle Sez. Un. Civili con la sentenza n. 1545 del 20/01/2017, Rv. 642004, secondo cui l’attività amministrativa in senso stretto, siccome essenziale per la rappresentanza e la vita della società in virtù del rapporto di c.d. immedesimazione organica tra amministratore e impresa, non è assimilabile né ad un contratto d’opera, né tantomeno ad un rapporto di tipo subordinato o parasubordinato. Un rapporto di tal fatta può esistere, eventualmente, e svilupparsi in parallelo con quello di immedesimazione di cui si è detto, ma ciò deve essere verificato in concreto, il che rende ragione della necessità che, di fronte a prelievi per compensi degli amministratori, sia la parte che adduce questa giustificazione, in assenza di un automatismo retributivo, a dimostrare che vi sia stata un’attività che sia andata oltre la mera rappresentanza e che giustifichi un compenso e, ancora più precisamente, “quel” compenso.
Ne viene che, di fronte all’oggettività della percezione, il deficit dimostrativo circa la congruità dei compensi ridonda a carico della parte che intenda contestare la natura predatoria della sua percezione e che tale deficit, nel caso di specie, non è stato colmato dall’imputato.
2.7. Il ricorso si indirizza, poi, verso la conclusione della Corte territoriale circa l’assenza degli estremi della cd. bancarotta riparata, dubitando della correttezza della conclusione dei Giudici di appello secondo cui la reintegrazione del patrimonio sociale non era stata integrale.
Si rammenta che – come di recente ribadito da Sez. 5, n. 14932 del 28/02/2023, Mercuri, Rv. 284383 richiamando diversi arresti di questa Corte – la bancarotta “riparata” si configura, determinando l’insussistenza dell’elemento materiale del reato, quando la sottrazione dei beni venga annullata da un’attività di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell’impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, così annullando il pregiudizio per i creditori o anche solo la potenzialità di un danno (Sez. 5, n. 52077 del 04/11/2014, Lelli, Rv. 261347), sicché l’attività di segno contrario che annulli la sottrazione deve reintegrare il patrimonio dell’impresa prima della dichiarazione di fallimento, evitando che il pericolo per la garanzia dei creditori acquisisca effettiva concretezza (Sez.5, n. Sez. 5, n. 50289 del 07/07/2015, Mollica, Rv. 265903). Ai fini della configurabilità della bancarotta “riparata” non è necessaria la restituzione del singolo bene sottratto, ma un’attività di integrale reintegrazione del patrimonio anteriore alla declaratoria di fallimento (Sez.5, n.34290 del 02/10/2020, Cappelletti, non mass.). E’ onere dell’amministratore, che si è reso responsabile di atti di distrazione e sul quale grava una posizione di garanzia rispetto al patrimonio sociale, provare l’esatta corrispondenza tra i versamenti compiuti e gli atti distrattivi precedentemente perpetrati (Sez. 5, n. 57759 del 24/11/2017, Liparoti, Rv. 271922)
Ebbene, la sentenza impugnata resiste a questo versante della critica sulla scorta di due considerazioni.
2.7.1. La prima, più immediata, è che – come chiaramente affermato in sentenza – la pretesa reintegrazione non è stata, in effetti, integrale, dal momento che la somma versata era pari a 390.000 euro a fronte di capitali rientrati per 346.000 euro.
2.7.2. La seconda, più complessa, richiede che venga sviluppato e precisato un accenno argomentativo della Corte di merito, quello che ha rimarcato come le somme versate a titolo di aumento di capitale provenissero dalla stessa società depredata.
E’ così è, dal momento che, se il dato che si pretende scagionante è che quelle somme siano rientrate nella società mediante conferimenti, effettivamente non può che rimarcarsi che la provvista per i medesimi finiva per essere assicurata mediante fuoriuscite dalla stessa società. Ne consegue che non può ritenersi attività riparativa nei sensi sopra precisati quella che consenta sì di far rientrare i capitali nella società, tuttavia finanziandosi con le stesse risorse prelevate indebitamente dalla stessa e non a fini meramente e squisitamente riparativi, ma mediante un flusso in ingresso cui corrisponda un’utilità in capo a chi lo attua, utilità che possa essere fatta valere nei confronti della società stessa.
Tale utilità consiste, in primo luogo, nel vedere aumentato il valore della partecipazione posseduta, con conseguenze rilevanti rispetto al conseguimento degli utili, quantomeno in termini di aspettativa giuridicamente rilevante e benché non in termini di vero e proprio “diritto di credito”, trattandosi di aspettativa condizionata alla circostanza che il bilancio di esercizio faccia effettivamente registrare l’esistenza di utili e l’assemblea sociale ne deliberi la distribuzione ai soci, donde solo da quel momento un simile diritto può dirsi acquisito al patrimonio del socio [Sez. U, n. 22659 del 23/10/2006 (Rv. 592838)].
In secondo luogo, il conferente vede incrementarsi «un diritto potenziale o comunque in attesa di espansione», ancorché «destinato a divenire attuale solo al momento in cui si addivenga ad una liquidazione (del patrimonio della società o della singola quota del socio, al verificarsi dei presupposti dello scioglimento del rapporto societario nei soli suoi confronti) e alla condizione che, a tal momento, dal bilancio (finale o di esercizio) risulti una consistenza attiva sufficiente a giustificare l’attribuzione pro quota al socio stesso di valori proporzionali alla sua partecipazione» (Sez. U cit; in termini Sez. 1, n. 19955 del 29/09/2011, Rv. 619777).
In altri termini, il conferimento di somme in precedenza fatte fuoriuscire dalla stessa società non è un’attività che si limita a compensare e ripianare quanto prima indebitamente sottratto, senza alcuna contropartita; essa, infatti, ha sì un’efficacia immediatamente riparativa, ma dalla quale l’autore del fatto consegue un’utilità in termini di pretese, quand’anche solo meramente potenziali, da esercitarsi proprio nei confronti della società depredata, quanto, in particolare, alla distribuzione degli utili e all’attribuzione del patrimonio sociale. E sarebbe paradossale consentire che il conseguimento di dette utilità sia “finanziato” attraverso la spoliazione della medesima società rispetto alla quale, poi, i predetti diritti potenziali possano essere esercitati.
Confermano questa esegesi alcuni, sia pur risalenti, approdi di questa Corte (Sez. 5, n. 1816 del 20/09/2011, dep. 2012, Stabiumi, Rv. 251714; Sez. 5, n. 4461 del 16/02/1994, Freato e altri, Rv. 198003), che hanno, appunto, enunciato il principio secondo cui la somma versata per aumento di capitale dagli autori della distrazione non può essere considerata come restituzione dei mezzi finanziari sottratti al patrimonio dell’impresa.
3. Il terzo motivo di ricorso – che denunzia mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione quanto al giudizio di penale responsabilità in ordine al capo 4 – è aspecifico e versato in fatto giacché la sentenza impugnata è ricca di argomenti di dettaglio circa l’inesistenza delle operazioni sottostanti le fatture portate allo sconto, nonché sull’irrilevanza scagionante della manleva da parte di Eurofidi, divenuto il nuovo creditore; su questi aspetti la Corte distrettuale ha costruito un giudizio del tutto logico circa la fraudolenza delle operazioni bancarie effettuate dall’imputato e sull’incidenza negativa sul patrimonio della società, che aveva visto aumentare conseguentemente e fortemente la sua esposizione bancaria.
Contro il ragionamento svolto, il ricorrente, come anticipato, non ha fatto altro che sviluppare alcune considerazioni in fatto, reiterando peraltro il tema dell’intervento del garante Eurofidi rispetto alle fatture non pagate ed ignorando che tale intervento aveva solo mutato la persona del soggetto creditore, ma non aveva determinato l’estinzione del debito della società fallita.
Militano nel senso dell’inammissibilità del ricorso, dunque, due principi di diritto più volte affermati da questa Corte.
In primo luogo, quello secondo cui, nel giudizio di legittimità, non è consentito invocare una valutazione o rivalutazione degli elementi probatori al fine di trarne proprie conclusioni in contrasto con quelle del giudice del merito, principio già sopra precisato.
In secondo luogo, viene in gioco il principio a lume del quale vanno ritenuti inammissibili i motivi di ricorso per cassazione non solo quando essi risultino intrinsecamente indeterminati, ma altresì allorché difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (principio ribadito da Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtellì, Rv. 268823).
il Collegio osserva, altresì, che il motivo di ricorso presenta tratti di inammissibilità fin dall’impostazione dell’argomento di censura perché – senza le dovute specificazioni – lamenta tutti i vizi di motivazione di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. A questo riguardo, il Collegio ricorda che Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020 Filardo (non massimata sul punto) ha puntualizzato che il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., ha l’onere – sanzionato a pena di aspecificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso – di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali sia manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l’impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio; i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, infatti, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione.
4. Il primo motivo del ricorso a firma dell’Avv. S. – che agita il tema dell’inutilizzabilità dei dati informatici – è inammissibile.
A queste conclusioni il Collegio è giunto attraverso diversi percorsi.
4.1. Il ricorso è, in primo luogo, inammissibile in quanto non si collega ad analoga censura ammissibile contenuta nel ricorso principale, laddove si leggono qua e là generiche lamentele circa le modalità di estrazione dei dati, ma senza la formulazione di una specifica doglianza in tal senso che indicasse – come invece, nel motivo aggiunto – quali fossero le norme violate. Il Collegio è consapevole che le censure di inutilizzabilità non trovano lo sbarramento delle preclusioni, pur tuttavia, occorre interrogarsi se quella posta sia, effettivamente, una censura di inutilizzabilità. Certamente non lo è quella che concerne i file in tesi distrutti, in quanto non vi è alcun dato sulla cui utilizzabilità cui si debba interrogare e, allora, la mancanza di un motivo ammissibile nel ricorso preclude la deduzione dell’anomalia. A questo riguardo va ribadito il principio già enunciato da questa Corte (Sez. 5, n. 8439 del 24/01/2020, L., Rv. 278387), secondo cui l’inammissibilità di un motivo del ricorso principale cui si colleghi un motivo aggiunto, idoneo, in astratto, a colmarne i difetti, travolge quest’ultimo, non potendo essere tardivamente sanato il vizio radicale dell’impugnazione originaria; e ciò vale anche nel caso in cui il ricorso non sia integralmente inammissibile perché contenente altri motivi immuni da vizi.
Quanto ai file non cancellati ma, in tesi alterati, a parte che lo stesso ricorrente si esprime in termini di mera possibilità di manipolazione, la censura è generica, sia perché non sono stati indicati i dati almeno sospettati di manipolazione, sia perché non ne è stata precisata l’incidenza sulla perizia G., che è il bersaglio immediato delle censure. A questo proposito, va, infatti, ricordato il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, Fruci, Rv. 243416) secondo cui, «in tema di ricorso per cassazione, è onere della parte che eccepisce l’inutilizzabilità di atti processuali indicare, pena l’inammissibilità del ricorso per genericità del motivo, gli atti specificamente affetti dal vizio e chiarirne altresì la incidenza sul complessivo compendio indiziario già valutato, sì da potersene inferire la decisività in riferimento al provvedimento impugnato» (in termini, Sez. 6 , n. 1219 del 12/11/2019, dep. 2020, Cocciadiferro, Rv. 278123; Sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012, Muià e altri, Rv. 254108).
4.2. Quand’anche si volesse superare questo primo sbarramento, il ricorso non potrebbe comunque avere seguito per le ragioni di seguito indicate.
Va ricordato che il ricorrente deduce la violazione di diverse norme processuali (in particolare delle disposizioni di cui agli artt. 244, co. 2, 247, co. 1-bis, 254-bis, comma 1, 259, co. 2, e 260, co. 2, 354, 359 cod. proc. pen.) e lamenta, in sostanza, che la Guardia di Finanza che attuò la verifica fiscale della F. avesse omesso di osservare le best practices in punto di acquisizione e conservazione di dati informatici.
Ebbene, se si deve ragionare in termini di inutilizzabilità, allora occorre verificare se vi sia stata la violazione della norme processuali agitate; ma, prima ancora, occorre verificare se la Guardia di Finanza fosse tenuta a rispettarle.
La norma di riferimento, in questo senso, è l’art. 220 d.a. cod. proc. pen., secondo cui, quando, nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti, emergano indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale devono essere compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice. Ed è proprio questo il limite della censura in esame, vale a dire quello di aver dato per scontato che la Guardia di Finanza che operò all’epoca fosse tenuta al rispetto delle norme del codice di rito ancorché si trattò di una verifica svolta il 27 marzo 2012 e benché la copia “incriminata” fu realizzata l’11 aprile 2012 (vedi consulenza informatica del pubblico ministero, allegato 3 ai motivi nuovi), a fronte di una sentenza di fallimento della F., per una singolare coincidenza, pronunziata proprio 1’11 aprile 2012.
Ne consegue che si trattò di attività svolta prima e addirittura il giorno stesso della sentenza di fallimento, il che lascia del tutto ragionevolmente ritenere che, a quell’epoca, non fossero stati raccolti elementi sufficienti, noti agli operanti, che imponessero il rispetto delle regole procedimentali in tesi pretermesse. Né è stato dimostrato che si fosse verificata un’evenienza “limite”, vale a dire che la Guardia di Finanza stesse svolgendo un’attività specifica su quelle che sono poi state individuate come attività distrattive, attività che potevano avere assunto l’attuale fisionomia con la sentenza dichiarativa di fallimento, sì da concretare agli occhi degli operanti un quadro tale da imporre, quantomeno al momento dell’estrazione della copia, il rispetto delle garanzie del codice di rito. Il ricorrente, infatti, nonostante si sia soffermato diffusamente sul tema agitato, non ha chiarito mai la tempistica dell’estrazione dei dati rispetto a quella dell’emersione degli indizi per il reato di bancarotta, né ha smentito la circostanza, pure affermata dallo stesso imputato nell’atto di appello, che si trattasse di una verifica di natura “fiscale”, attuata prima del fallimento (cfr. pag. 4) e non sorta per accertare violazioni penali.
Conforta detta conclusione la giurisprudenza di questa Corte sedimentatasi proprio a proposito del rispetto delle garanzie difensive del codice di rito nell’ambito di attività amministrative. Con riferimento all’attività di verifica fiscale della Guardia di Finanza, in particolare, si è ritenuto che il momento a partire dal quale, nel corso di tale attività, sorge l’obbligo di rispettare le garanzie del codice di procedura penale è quello nel quale è possibile attribuire rilevanza penale al fatto, emergendone tutti gli elementi costitutivi, anche se ancora non possa essere ascritto a persona determinata (Sez. 3, n. 31223 del 04/06/2019, Di Vico, Rv. 276679, fattispecie, in tema di verifica fiscale, di dichiarazioni etero accusatorie rese alla Guardia di Finanza dalla persona soggetta all’accertamento amministrativo senza l’osservanza degli artt. 63 e 64 cod. proc. pen. ritenute utilizzabili nel processo penale perché, al momento in cui erano state rese, non risultava ancora accertato il superamento della soglia di punibilità del reato tributario; in termini Sez. Un., 28/11/2004, n. 45477, Raineri, Rv 220291; Sez. 3, n. 15372 del 10/02/2010, Fiorillo, Rv. 246599; Sez. 2, 13/12/2005, n. 2601, Cacace, Rv. 233330).
Per completezza va, altresì, precisato che la conclusione non muta ipotizzando che la Guardia di Finanza che effettuò le copie informatiche stesse verificando la legittimità delle procedure di finanziamento (poi risultate oggetto del reato di cui all’art. 640-bis cod. proc. pen.); tanto perché, in disparte la circostanza che l’inutilizzabilità viene fatta valere oggi per il diverso reato di bancarotta, comunque sarebbe stato onere del ricorrente – pena la genericità del ricorso – precisare e documentare che si trattasse di un’indagine svolta nell’ambito di un procedimento penale ovvero, in caso negativo, che almeno, quando furono effettuate le copie informatiche, fossero già emersi gli indicatori quantomeno del reato oggi prescritto. E’ principio pacifico, infatti, che, quando, con il ricorso per cassazione, si lamenti, come nella specie, l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di ricorso deve allegare, a pena di inammissibilità per aspecificità, il fatto da cui trae la sanzione processuale (Sez. 3, Di vico, cit., in motivazione, in linea con Sezioni Unite Fruci, cit.).
4.3. Quanto alla ragione di censura che concerne la posizione di non imparzialità dell’ausiliario del pubblico ministero ex art. 359 cod. proc. pen. che eseguì la copia forense per conto del pubblico ministero, il dott. G.G. (siccome coinvolto in un contenzioso civile con l’imputato), essa è inedita, in quanto non era contenuta nei motivi di appello. Ne consegue l’inammissibilità del ricorso perché non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare siccome non devolute alla sua cognizione, tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio o che non sarebbe stato possibile dedurre in precedenza (cfr. l’art. 606, comma 3, cod. proc. pen. quanto alla violazione di legge; si vedano, con specifico riferimento al vizio di motivazione, Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, Galdi, Rv. 270316; Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, Bolognese, Rv. 269745; Sez. 2, n. 22362 del 19/04/2013, Di Domenica).
4.4. Infine, l’inammissibilità del motivo di ricorso sulla testimonianza C.M. travolge anche la corrispondente censura del ricorso, peraltro in sé generica.
5. Il secondo motivo aggiunto – che deduce violazione dell’art. 27 Cost., agitando una presunta inversione dell’onere della prova quanto al ragionamento svolto dalla Corte di appello in ordine alle fuoriuscite di denaro a favore della ditta individuale di S.A. – segue le sorti del corrispondente motivo principale, cui nulla aggiunge. Anzi, la denunzia di violazione dell’art. 27 cost. chiama in gioco un altro principio sancito dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza Filardo cit. (in motivazione), vale a dire che non è consentito il motivo di ricorso che deduca la violazione di norme della Costituzione perché tale inosservanza non è prevista tra i casi di ricorso dall’art. 606 cod. proc. pen., ma può soltanto costituire fondamento di questione di legittimità costituzionale, questione che, nel caso di specie, non risulta proposta.
6. L’ultimo motivo aggiunto – che intende contestare il giudizio di penale responsabilità sulle distrazioni – è interamente versato in fatto e, pertanto, alla luce dei principi più sopra enunciati, non può avere seguito nel giudizio di legittimità.
7. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del richiesta al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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