CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 43620 depositata il 26 novembre 2021
Reati tributari – Professionista – Intermediario – Presentazione modello F24 per conto dei clienti – Indebito utilizzo di crediti in compensazione – Interdizione dall’attività di trasmissione telematica degli F24
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza 3/06/2021, il Tribunale di Caltanissetta ha rigettato l’appello cautelare presentato avverso l’ordinanza 29/04/2021 con cui il G.I.P. dello stesso Tribunale aveva applicato la misura cautelare personale interdittiva del divieto di esercitare la professione di consulente fiscale nei confronti del C. G., indagato per il reato di cui agli artt. 110 c.p. e 10 quater, D.Igs. 74/2000, interdicendolo, specificatamente, dall’attività di trasmissione telematica degli F24 per un tempo pari a dodici mesi.
2. Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia, iscritto all’Albo speciale previsto dall’art. 613, c.p.p., articolando due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p.
2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge ed il vizio di motivazione ex art. 606, comma 1, lett.b) ed e) c.p.p. in relazione agli artt. 273 c.p.p. e 10-quater D.Igs. 74/2000.
In sintesi, la difesa si duole perché, in punto di gravità indiziaria, il giudice estensore del provvedimento impugnato non avrebbe fornito adeguata motivazione, in quanto la questione sollevata con l’appello cautelare proposto non riguardava l’inesistenza dei crediti opposti in compensazione, bensì la possibilità riconosciuta dalla legge di ricalcolare le somme da versare successivamente alla presentazione degli F24 oppure di modificare il codice tributo erariale originariamente indicato (c.d. sistema CIVIS). A conferma della buona fede del proprio assistito, la difesa richiama sia il contenuto di alcune conversazioni telefoniche intercettate successivamente all’emissione di un primo provvedimento di sequestro preventivo nei confronti del C., sia documentazione difensiva asseritamente non valutata dall’autorità giudiziaria e ritenuta idonea a riscontrare quanto affermato dal ricorrente in sede di interrogatorio, ossia che per ben dodici ditte lo stesso aveva provveduto al ricalcolo delle somme da versare.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge nonché il vizio di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. c) ed e) c.p.p. in relazione agli artt. 274 e 125, comma 3, c.p.p.
Tale doglianza investe le esigenze cautelari individuate dai giudici della cautela.
In sintesi, la difesa si duole perché ritiene insussistente il pericolo di reiterazione del reato, stante l’insussistenza di fatti-reato successivi alle emergenze indiziarie già confluite in un primo procedimento nel corso del quale era stato emesso un sequestro preventivo sui beni del ricorrente non accompagnato da misure cautelari personali. Sul punto, il giudice estensore del provvedimento impugnato non avrebbe fornito adeguata motivazione, limitandosi a reiterare le medesime argomentazioni già espresse in una precedente ordinanza di rigetto del 1.10.2020, che la difesa allega al ricorso.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, con requisitoria del 20 settembre 2021, ha chiesto il rigetto del ricorso in quanto l’ordinanza gravata avrebbe adeguatamente motivato in ordine alla sussistenza gravità indiziaria, rispondendo sul punto a tutte le censure formulate dalla difesa. Le doglianze difensive, concernenti la sussistenza sia dei gravi indizi di colpevolezza che delle esigenze cautelari, si risolverebbero dunque in una mera ricostruzione alternativa dei fatti non meritevole di accoglimento in quanto la motivazione fornita dal giudice dell’appello cautelare non risulta carente né manifestamente illogica ex art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p.
4. Con memoria del 22/9/2021, depositata in data 24/9/2021, la difesa ha replicato alla requisitoria, notificata il 21/9/2021, con cui il P.G. ha ritenuto il ricorso privo di aspetti di significatività in fatto o in diritto.
Anzitutto, la difesa sottolinea che, in punto di fumus commissi delicti, con il ricorso si contestava la possibilità, nella prassi, di una successiva modifica di un codice tributo erariale nonché la mancata motivazione da parte del Tribunale adito in merito alla dirimente risultanza per cui ben dodici società – nonostante il ritenuto “escamotage” fiscale – avevano subito il ricalcolo a debito delle somme in contestazione. Sul punto, il Tribunale adito non avrebbe fornito una motivazione congrua e adeguata, limitandosi a far proprie le argomentazioni svolte nel genetico provvedimento cautelare senza tuttavia spiegare la ragione per la quale la condotta del professionista, atteso l’avvenuto addebito del tributo in capo alle società, documentalmente dimostrato, andava ex post ritenuta contra legem. La difesa, inoltre, sottolinea che il ricorso presentato poneva invero questioni di diritto in quanto diretto a contestate il sequestro preventivo per equivalente disposto nei confronti del C., a prescindere da una preliminare verifica in ordine al patrimonio delle ditte che avrebbero tratto vantaggio dalla commissione del reato e, quindi, in violazione dei principi giurisprudenziali in materia. Ad avviso della difesa, infatti, proprio in ragione dei principi giurisprudenziali affermati in materia dalle Sezioni Unite (S.U., n. 10561 del 30/1/2014), si sarebbe dovuto disporre dapprima il sequestro in forma diretta delle somme di denaro e dei beni delle ditte a cui vantaggio sarebbe stata evasa l’imposta e, in via meramente residuale, il sequestro per equivalente dei beni dell’indagato, il quale peraltro non era neanche legale rappresentante della società. Il parere espresso dal P.G., inoltre, non terrebbe conto del fatto che, in palese violazione del principio del “ne bis in idem” cautelare, si sarebbe proceduto ad un nuovo sequestro nei confronti del C. non già per fatti nuovi e diversi rispetto a quelli contestati nel primo procedimento, bensì per i medesimi fatti storici.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Deve preliminarmente ricordarsi che sono inammissibili per genericità i motivi di ricorso che riproducono e reiterano gli stessi rilievi prospettati nel precedente grado di giudizio e motivatamente respinti dall’autorità giudiziaria, senza tuttavia confrontarsi criticamente con le argomentazioni spese nel provvedimento impugnato (Cfr. ex multis Sez.2, n.27816 del 22/03/2019 – dep. 24/06/2019, Cianfrocca, Rv.276970; Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014 – dep. 28/10/2014, Cariolo e altri, Rv. 260608 – 01).
3. Prima di passare all’esame delle doglianze difensive, tuttavia, si ritiene utile ai fini di una migliore intellegibilità dell’impugnazione riassumere brevemente i fatti che hanno portato all’applicazione nei confronti dell’odierno ricorrente della misura cautelare personale, oggi ricorsa, dell’interdizione dall’esercizio della professione.
Orbene, dall’ordinanza oggetto di gravame si ricava che le indagini nei confronti del C. si sono avviate a seguito della trasmissione alla Procura della Repubblica nissena degli atti del procedimento penale n.7754/2019 R.G.N.R., iscritto presso la Procura della Repubblica di Bergamo a carico di C. N. – legale rappresentante della società E. s.r.l.s. con sede legale ad Antegnate (BG) – indagata per aver tenuto condotte riconducibili al reato di indebita compensazione avvalendosi di un intermediario, che risultava essere l’odierno ricorrente, il quale emergeva aver trasmesso il modello F24 contenente le indebite compensazioni in vece della legale rappresentante della società summenzionata. Prendeva così avvio una prima fase di indagini a carico del C.: in esito agli accertamenti disposti dagli inquirenti, la P.G. segnalava molteplici condotte potenzialmente delittuose ai sensi dell’art. 10 quater D.Igs. 74/2000 poste in essere da vari soggetti economici e persone fisiche, sparsi sull’intero il territorio nazionale, avvalendosi proprio dell’apporto professionale del C.. In data 11.09.2020, il G.I.P. di Caltanissetta disponeva dunque un primo sequestro preventivo, confermato sia in sede di riesame, con ordinanza del 1.10.2020, che di legittimità, con sentenza del 5.2.21. Le emergenze investigative della prima fase delle indagini davano impulso ad una seconda fase di investigazioni che, avendo consentito di scoprire nuove operazioni fiscali fraudolente riferibili al C. (oltre che ad altri soggetti fino a quel momento rimasti estranei ai fatti), culminava nella disposizione da parte del G.I.P. in data 29.04.21 di un nuovo sequestro preventivo, questa volta congiunto alla misura cautelare interdittiva in danno dell’odierno ricorrente. Tali misure sono state confermate rispettivamente in sede di riesame e di appello cautelare dal Tribunale di Caltanissetta.
4. Venendo ora all’esame delle doglianze formulate dal difensore del C. in ordine al provvedimento del 3.06.21 con cui il Tribunale di Caltanissetta ha confermato la misura interdittiva emessa nei confronti dell’odierno ricorrente, quanto al primo motivo di ricorso si rileva quanto segue.
4.1. Il ricorrente si duole perché il giudice estensore del provvedimento impugnato non avrebbe adeguatamente motivato sul rilievo difensivo per il quale il C., in qualità di intermediario autorizzato alla trasmissione dei modelli F24 nell’interesse dei propri clienti, pur essendo a conoscenza dell’inesistenza dei crediti portati in compensazione, avrebbe tuttavia dato prova della propria buona fede provvedendo successivamente al ricalcolo delle somme da versare ovvero alla modifica del codice tributo erariale originariamente indicato, nel rispetto del cd. meccanismo CIVIS previsto dalla legge.
Invero, dalla piana lettura dell’ordinanza gravata emerge chiaramente che, contrariamente a questo sostenuto dalla difesa, il giudice estensore ha esaminato in modo completo tale doglianza difensiva, concernente in sintesi l’assenza dell’elemento soggettivo del reato contestato, fornendo al riguardo una motivazione logica ed in quanto tale non sindacabile in sede di legittimità. Ed infatti, il giudice collegiale della cautela ha ben argomentato i motivi per i quali ha ritenuto priva di fondamento la tesi difensiva secondo cui il C., portando in compensazione crediti inesistenti per poi procedere al ricalcolo delle somme da versare ovvero alla modifica del codice tributo erariale originariamente indicato, lungi dall’aver agito al fine di consentire ai propri clienti di evadere le imposte, avrebbe voluto solo consentire loro di ritardare i pagamenti dovuti.
A tal riguardo, il Tribunale di Caltanissetta nella gravata ordinanza ha correttamente sottolineato che la doglianza è priva di pregio in quanto, quand’anche fosse rispondente al vero, non consentirebbe comunque all’indagato di andare esente da responsabilità penale per il reato contestato: sotto il profilo dell’elemento soggettivo, infatti, il reato di indebita compensazione costituisce pacificamente una fattispecie a dolo generico per la cui configurazione dunque non è richiesta la finalità specifica di evasione essendo sufficiente che il soggetto agente ometta il versamento delle somme dovute utilizzando in compensazione crediti che sa non essere spettanti, rappresentandosi, altresì, il superamento della soglia di euro 50.000 annui (p.7-8 dell’ordinanza impugnata). Tale valutazione giudiziale appare pienamente condivisibile trovando riscontro, oltre che nella lettera della norma incriminatrice, che non fa riferimento alcuno ad un fine specifico della condotta tenuta dall’agente, anche – come rilevato anche dal giudice del provvedimento impugnato – nella giurisprudenza di legittimità (Cfr. Sez.3, n.26236 del 12/04/2018 – dep.8/06/2018, Annarelli, §2 del Considerato in diritto).
4.2. Il giudice collegiale della cautela, inoltre, ha correttamente chiarito che il ricorrente ha posto in essere un utilizzo del tutto distorto e non legittimo del CIVIS, posto che tale meccanismo è «previsto dalla normativa tributaria per la correzione di eventuali errori commessi nella redazione degli F24 e non già quale sistema per dichiarare intenzionalmente crediti non esistenti, con la riserva di operare una preordinata modifica successiva» (p.7 dell’ordinanza impugnata); del resto – ha proseguito il giudice – quand’anche si volesse affermare ciò che è difficile credere, ossia che il professionista abbia erroneamente ritenuto lecito tale meccanismo di compensazione, ciò si configurerebbe come un errore inescusabile specialmente alla luce dell’attività professionalmente svolta dal ricorrente (p.8 della gravata ordinanza).
Anche tale valutazione giudiziale si ritiene pienamente condivisibile: è infatti insegnamento costante della Corte di Cassazione quello per cui il “dovere di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia, è particolarmente rigoroso per coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali dunque rispondono dell’illecito anche in virtù di una culpa levis nello svolgimento dell’indagine giuridica (S.U., n.854 del 10/06/1994 – dep. 18/07/1994, P.G. in proc. Calzetta, Rv.197885). Correttamente, dunque, nella gravata ordinanza il giudicante ha ritenuto sussistenti gravi indizi di colpevolezza a carico dell’odierno ricorrente, posto che – come ben spiegato nel provvedimento gravato – non residua dubbio alcuno circa la piena conoscenza da parte del C. dell’inesistenza dei crediti portati in compensazione. Tale circostanza, infatti, oltre ad essere emersa chiaramente dalle conversazioni intercettate del 23.06.2020 e 12.07.2020 – valorizzate nel provvedimento che ha disposto il primo sequestro preventivo – e dalla circostanza, evidenziata dalla stessa difesa, che il C. disponeva dell’intera documentazione contabile e fiscale di alcune delle imprese clienti, è stata ammessa dallo stesso ricorrente nel corso del suo interrogatorio.
4.3. Del resto, non può non rilevarsi che il giudice della cautela, con una motivazione priva di profili di manifesta illogicità, ha ben chiarito anche come nel caso di specie sia invero emersa in tutta evidenza la finalità fraudolenta del ricorrente.
Ed infatti, le articolate indagini disposte dal PM – ha spiegato il Tribunale di Caltanissetta – hanno dimostrato che proprio il ricorso al meccanismo del CIVIS ha costituito la pietra angolare di quello che gli inquirenti hanno denominato “metodo C.”, volto a mascherare da “errore” la compensazione indebita eseguita; più in particolare, proprio dalle indagini è emerso che il meccanismo congegnato dal ricorrente «prevedeva la correzione del modelli F24 già inoltrati mediante l’improprio ricorso all’istituto del CIVIS, ovvero mediante l’inserimento nei Modelli inerenti all’anno di imposta successivo di un debito IRPEF O IRES di importo pari a quello illecitamente compensato, facendo leva sulla circostanza che quest’ultimo, comunque, non sarebbe mai stato pagato, in ragione del meccanismo tecnico del c.d. controllo formale della dichiarazione dei redditi (c.d. liquidazione automatizzata), che, non trovando alcuna corrispondenza tra le somme indicate nei righi RN20 e RN37 e quelle effettivamente utilizzate in compensazione negli F24 con codici tributo IRES/IRPEF, li riduce (in caso di rinvenimento parziale) ovvero li azzera» (p.9 della gravata ordinanza, che, per una spiegazione maggiormente dettagliata del complesso meccanismo, rinvia alle CNR della Guardia di Finanza, alla richiesta del PM e al parere tecnico reso in data 14/08/2020 dal dott. G.C., funzionario della Direzione Provinciale dell’Agenzia dell’Entrate di Caltanissetta).
4.4. Il giudice dell’appello cautelare, inoltre, ha accuratamente sottolineato gli elementi indiziari che lo hanno portato a ritenere che la finalità fraudolenta sia stata perseguita dal ricorrente in piena consapevolezza.
Al riguardo egli ha valorizzato i seguenti elementi: a) le conversazioni telefoniche intercettate – di cui viene riportato anche uno stralcio in provvedimento – nel corso delle quali il C. ammette apertamente l’inesistenza dei crediti portati in compensazione nonché la natura illecita delle operazioni effettuate e spiega apertamente ad uno dei propri interlocutori il meccanismo ideato per consentire ai propri clienti di evadere le imposte mettendosi al contempo al riparo da possibili verifiche fiscali; b) la corrispondenza via email intercorsa tra il ricorrente ed i propri clienti, nella quale si rinvengono riferimenti espliciti del C. alle indebite compensazioni eseguite; c) il compenso percepito dal ricorrente per le operazioni illecite compiute (p.6-7 dell’ordinanza impugnata). Per quanto sopra detto, l’ordinanza oggetto dell’odierno gravame non appare affetta dai denunciati vizi. Del resto, la difesa non ha allegato al presente ricorso alcun elemento idoneo a destrutturare la tenuta logica del provvedimento gravato, limitandosi, piuttosto, a riferirsi, assai genericamente, ad una conversazione telefonica e ad una certa documentazione, asseritamente non vagliata dall’autorità giudiziaria, che sarebbero idonee a dimostrare l’avvenuta correzione dei modelli F24 da parte del C., profilo, questo, che tuttavia – come ben spiegato dal giudice dell’appello cautelare – non esclude la rilevanza penale della condotta tenuta dal ricorrente costituendone, piuttosto, l’elemento caratterizzante.
5. Anche il secondo motivo di ricorso non supera il vaglio di ammissibilità poiché, ancora una volta, il ricorrente omette di confrontarsi con le argomentazioni svolte nell’ordinanza impugnata in ordine, stavolta, alle esigenze cautelari.
Risulta infatti priva di qualsivoglia riscontro l’asserzione difensiva concernente l’assenza di fatti-reato successivi alle emergenze indiziarie già valutate ai fini dell’emissione del primo sequestro preventivo. Al contrario, il giudice collegiale della cautela ha ampiamente dato conto del fatto che, contestualmente all’esecuzione del primo sequestro preventivo, è stata disposta una perquisizione presso lo studio del C. che ha portato al sequestro di documentazione fiscale dalla cui analisi è emersa una lunga serie di ulteriori compensazioni indebite riferibili all’attività del ricorrente, oltre che di altri soggetti (p.3 dell’ordinanza gravata). Ciò posto, la motivazione fornita dal giudice dell’appello cautelare in punto di pericolo di reiterazione criminosa si presenta del tutto immune dai denunciati vizi: sposando la motivazione già fornita dal giudice di prime cure, infatti, il Tribunale di Caltanissetta, in via del tutto logica, ha ritenuto che la sistematicità delle condotte criminose poste in essere dal C., la loro persistenza nel tempo nonché il grave pregiudizio economico causato all’Erario, giustifichino l’applicazione nei suoi confronti della misura interdittiva nella durata massima di 12 mesi (p.8 della gravata ordinanza).
5.1. A quanto sopra, poi, non può non aggiungersi un’ulteriore considerazione. Come è noto, le misure personali possono essere legittimamente applicate soltanto quando sussista almeno una delle esigenze cautelari indicate tassativamente dall’art. 274 c.p.p.: a) pericolo di inquinamento della prova; b) pericolo di fuga; c) pericolo di commissione di determinati reati, tra cui reati della stessa specie di quello per il quale si procede. Ebbene, dalla lettura del provvedimento impugnato si ricava chiaramente che l’interdizione dall’esercizio della professione è stata disposta nei confronti del Casa les non solo in ragione del ravvisato pericolo di reiterazione del reato, genericamente contestato dal ricorrente, bensì anche in ragione della diversa ed ulteriore esigenza cautelare consistente nel ravvisato pericolo di inquinamento probatorio. Il giudice collegiale della cautela, infatti, ha ben spiegato che la sussistenza di tale pericolo era già emersa nel corso della prima fase delle indagini, in particolare per via dell’abitudine dell’indagato di inviare ulteriori dichiarazioni di redditi al fine di rettificare, con l’improprio ricorso al meccanismo CIVIS, le pregresse indebite compensazioni. Tali condotte – ha chiarito il giudice dell’appello cautelare – si sono protratte anche dopo l’esecuzione del primo sequestro preventivo allorché il C., venuto a conoscenza delle indagini in corso nei propri confronti, ha cercato di sviarle mediante l’indicazione di inesistenti debiti IRES o IRPEF nei modelli F24 e la richiesta di annullamento delle precedenti dichiarazioni, nel tentativo di precostituirsi così una giustificazione con l’Erario (pag. 9 dell’ordinanza gravata).
5.2. In forza di tali rilievi il giudice dell’appello cautelare, ravvisata la sussistenza di due distinte esigenze cautelari, ha confermato la misura interdittiva nei confronti del C..
Ed invero, il pericolo di inquinamento probatorio non è stato ritenuto cessato dal Tribunale di Caltanissetta, il quale, sul punto, ha motivato a pagg. 9-10 dell’ordinanza oggetto di ricorso valorizzando, in particolare, le condotte poste in essere dal C. in seguito all’esecuzione del primo sequestro preventivo (consistenti nell’indicazione di debiti IRES o IRPEF nei modelli F24 e nella richiesta di annullamento di precedenti dichiarazioni), opportunamente segnalate dal PM come un’attività di inquinamento probatorio posta in essere dall’indagato nel tentativo di precostituirsi una giustificazione con l’Erario. A sostegno della sussistenza di tale pericolo il giudice della cautela ha valorizzato anche l’intercettazione di una conversazione intercorsa tra il C. e la sua assistente di studio in data 14/7/2020: si tratta di una conversazione che, seppure temporalmente riferibile alla prima fase di indagini, il giudice ha ritenuto ancora oggi di notevole pregnanza indiziarla in quanto indicativa del fatto che il C. ha architettato un sistema particolarmente complesso, fino al punto di precostituire una strategia difensiva cui ricorrere in caso di controlli da parte dell’Autorità.
Il Tribunale di Caltanissetta ha dunque affermato che la necessità di applicare la misura cautelare personale congiuntamente a quella reale si ricava «non soltanto dalla emersione di un quadro indiziario maggiormente completo e grave, ma, soprattutto, dalla valutazione delle condotte poste in essere dal C. una volta venuto a conoscenza delle indagini in atto nei suoi confronti, che l’indagato ha cercato di sviare, mediante la realizzazione delle condotte sopra descritte».
Ai fini del giudizio di legittimità in ordine alla gravata ordinanza, appare dunque quanto mai significativo che l’odierno ricorrente non abbia mosso alcuna censura ai rilievi svolti dell’Autorità giudiziaria circa la sussistenza del pericolo di inquinamento probatorio, posto che, accertata la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato, tale esigenza cautelare sarebbe stata anche da sola idonea a giustificare il provvedimento cautelare personale emesso a carico del ricorrente. Trova, pertanto, applicazione il principio secondo cui è inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso per cassazione che si limiti alla critica di una sola delle “rationes decidendi” poste a fondamento della decisione, ove siano entrambe autonome ed autosufficienti. (Nella specie, l’ordinanza impugnata aveva motivato il permanere delle esigenze cautelari richiamando il pericolo di fuga ed il pericolo di reiterazione dei reati, quest’ultima non investita con il ricorso per cassazione: Sez. 3, ord. n. 30021 del 14/07/2011 – dep. 27/07/2011, Rv. 250972 – 01).
In conclusione, la motivazione fornita dal Tribunale di Caltanissetta in ordine alle esigenze cautelari individuate nel caso di specie, ed in particolare sia in ordine al pericolo di reiterazione criminosa contestato dal ricorrente che in ordine al pericolo di inquinamento probatorio, non appare affetta dai denunciati vizi, mostrandosi, al contrario, particolarmente dettagliata oltre che del tutto logica e dunque insindacabile in sede di legittimità.
6. Relativamente ai motivi aggiunti presentati dalla difesa, non si può che rilevarne l’inammissibilità.
Ed infatti, le Sezioni Unite della Suprema Corte, con un arresto datato ma nel tempo mai ritrattato, hanno affermato che «I “motivi nuovi” a sostegno dell’impugnazione, previsti tanto nella disposizione di ordine generale contenuta nell’art. 585, quarto comma, cod. proc. pen., quanto nelle norme concernenti il ricorso per cassazione in materia cautelare (art. 311, quarto comma, cod. proc. pen.) ed il procedimento in camera di consiglio nel giudizio di legittimità (art. 611, primo comma, cod. proc. pen.), devono avere ad oggetto i capi o i punti della decisione impugnata che sono stati enunciati nell’originario atto di gravame ai sensi dell’art. 581, lett. a), cod. proc. pen.» (Sez. U, n. 4683 del 25/02/1998 – dep. 20/04/1998, Bono e altri, Rv. 210259 – 01; in tal senso, più recentemente, Sez. 6, n. 36206 del 30/09/2020 – dep. 16/12/2020, Tobi, Rv. 280294 – 01; Sez. 3, n. 18293 del 20/11/2013 – dep. 05/05/2014, G. P.M. Izzo, Rv. 259740 – 01).
6.1. Ebbene, nel caso di specie non si può non rilevare che i motivi aggiunti formulati dalla difesa si presentano del tutto sconnessi rispetto ai motivi principali di ricorso.
Ed infatti, mentre questi ultimi hanno avuto ad oggetto l’ordinanza del 3/6/2021 con cui il Tribunale di Caltanissetta, in sede di appello cautelare, ha confermato la misura personale interdittiva disposta dal G.I.P dello stesso Tribunale nei confronti dell’odierno ricorrente in data 29/4/21, i motivi aggiunti paiono essere diretti a censurare il diverso provvedimento, non oggetto del presente ricorso per Cassazione, con cui il Tribunale di Caltanissetta, in sede di riesame, ha confermato la misura cautelare reale del sequestro preventivo, disposta dal G.I.P. con il medesimo provvedimento del 29/4/21.
7. A norma dell’art. 616, cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, si condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e, conseguentemente, al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
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