CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 45135 depositata il 28 novembre 2022

Infortunio sul lavoro – Reato di lesioni colpose – Mancato adempimento degli obblighi di manutenzione delle attrezzature di lavoro – Responsabilità del datore di lavoro e del responsabile del servizio di prevenzione e protezione

Ritenuto che

1. Con sentenza del 29 aprile 2022, la Corte di appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto – ha riformato la sentenza emessa il 29 giugno 2021 dal Tribunale di Taranto limitatamente alla concessione agli imputati del beneficio della non menzione della condanna di cui all’art. 175 cod. pen. La sentenza di primo grado è stata confermata nel resto e, pertanto, P.L. e M.E. sono stati ritenuti responsabili del reato di cui all’art. 590, commi 1 e 3, cod. pen. in danno di G.S., dipendente della «S.E. s.r.l.» società della quale L. era legale rappresentante e nella quale E. rivestiva la qualità di responsabile del servizio di prevenzione e protezione. La sentenza di primo grado è stata confermata anche con riferimento alle statuizioni civili.

2. Il procedimento ha ad oggetto un infortunio sul lavoro verificatosi il 26 febbraio 2014 presso lo stabilimento U. di Taranto. Secondo la ricostruzione fornita dai giudici di merito, la «S.E. s.r.l.» aveva ricevuto in appalto dall’Uva il compito di provvedere alla registrazione e al tamponamento delle porte di chiusura dei forni. Per svolgere questo lavoro (che richiedeva di portarsi fino a sette metri di altezza rispetto alla passerella dell’impianto) la S. si avvaleva di piattaforme di lavoro elevabili «Pid 8.5 cingolate» costruite e commercializzate dalla s.n.c. «S.C.». Queste piattaforme consentivano la presenza in quota di un solo lavoratore che operava all’interno di un cestello munito di cinture di sicurezza ed era coadiuvato dal basso da un collega. Intorno alle 14:30 del 26 febbraio 2014 G.S. si trovava sulla piattaforma n. 25, a circa tre metri di altezza, e stava procedendo alla registrazione e al tamponamento della porta di chiusura del forno n. 126. Sulla passerella sottostante si trovava il caposquadra G.V. che lo coadiuvava. Il turno di lavoro era iniziato alle sette del mattino e, come stabilito, V. aveva eseguito una «cecklist visiva» della piattaforma n. 25 e delle altre piattaforme in uso (n.22, n. 26 e n. 27) verificando la tensione delle funi, delle catene di stilo, delle carrucole delle catene, del serraggio delle viti; monitorando il livello dell’olio idraulico nel serbatoio e il livello delle batterie; verificando il regolare funzionamento del tasto di emergenza. S. stava applicando del collante con un pennello e non aveva portato sulla piattaforma altra attrezzatura che quella necessaria a tal fine. Improvvisamente, le catene che consentono lo spostamento verticale della piattaforma si spezzarono determinandone il brusco abbassamento. Poiché faceva uso delle cinture di sicurezza, S. non fu sbalzato fuori, ma, a causa del contraccolpo dovuto alla caduta della piattaforma, riportò la frattura di entrambe le gambe. La malattia conseguente ebbe una durata complessiva di 202 giorni.

Secondo l’ipotesi accusatoria, P.L. e M.E., nelle rispettive qualità sopra indicate, sarebbero responsabili dell’infortunio per aver omesso di disporre le «visite trimestrali di controllo su funi e catene» e non aver «tenuto conto di tale specifico obbligo di legge, previsto dall’art. 71 comma 3 d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81, anche ai fini della predisposizione del piano di lavoro e di sicurezza».

La sentenza di appello ha escluso che nel caso di specie potesse trovare applicazione l’art. 71 comma 3 d.lgs. n. 81/08 «con riferimento alla mancata colposa adozione delle cautele imposte dall’allegato VI n. 3.1.2.» perché questa norma ha ad oggetto le attrezzature da lavoro deputate al sollevamento dei carichi. Ha ritenuto tuttavia che il richiamo all’art. 71 comma 3 d.lgs. n.81/08 avesse valenza più generale e ha sottolineato che, «in ragione di quanto previsto dall’allegato VI punto 1», questa norma impone comunque l’adozione di tutte le cautele necessarie a eliminare o almeno a ridurre i rischi connessi alle attrezzature da lavoro. Ha conseguentemente ritenuto che L. ed E. dovessero essere ritenuti responsabili del reato loro ascritto per «aver consentito l’impiego» della piattaforma ancorché la stessa non fosse stata «adeguatamente monitorata».

3. Entrambi gli imputati hanno proposto ricorso contro la sentenza della Corte di appello. Si tratta di un unico atto di ricorso articolato in tre motivi che non espongono le doglianze in termini lineari e accavallano profili di censura diversi, non sempre in ordine logico. I motivi di ricorso, tuttavia, (come previsto dall’art. 173 comma 1 d.lgs. 28 luglio 1989 n. 271) possono essere sintetizzati nei limiti strettamente necessari alla decisione nei termini che seguono.

3.1 Col primo motivo i ricorrenti lamentano violazione di legge e vizi di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza di una condotta colposa rilevante ai sensi dell’art. 590 cod. pen. La difesa osserva che la Corte territoriale ha ritenuto la responsabilità degli imputati per colpa generica (la sentenza impugnata parla di «imprudenza per aver consentito l’impiego della attrezzatura senza che la stessa fosse stata adeguatamente monitorata») ancorché fosse emerso nel dibattimento che la piattaforma era oggetto di puntuale monitoraggio e di manutenzione e fosse stata provata solo l’omissione di visite trimestrali di controllo su funi e catene che la Corte di appello ha riconosciuto non essere dovute.

La difesa sottolinea che la piattaforma non fu destinata ad usi impropri; potevano utilizzarla solo lavoratori in possesso di specifico attestato di formazione; ne era vietato il sovraccarico; era previsto un check visivo da parte del caposquadra all’inizio di ogni turno di lavoro; era previsto che fossero rispettate le istruzioni di utilizzo previste dal fabbricante. Ricorda che la piattaforma era dotata di attestazione di conformità alla direttiva CE di riferimento e che la stessa aveva positivamente superato il collaudo da parte dei tecnici INAIL, sicché nessun addebito per colpa, neppure per generica negligenza, imprudenza o imperizia potrebbe essere formulato a carico degli imputati. Sostiene che tale addebito comporta comunque una immutazione del fatto, atteso che agli imputati era stata contestata la violazione dell’art. 71, comma 3, d.lgs. n. 81/08 ritenuta non sussistente dalla Corte di appello.

Quanto alle cause del sinistro, il difensore dei ricorrenti osserva che, secondo la Corte territoriale, sia per la polverosità dell’ambiente che per l’uso intensivo, le catene delle piattaforme avrebbero dovuto essere oliate con particolare frequenza, ma il costruttore non aveva previsto alcuna indicazione in tal senso. Rileva che, secondo i tecnici della prevenzione incaricati delle indagini, la piattaforma non era stata sovraccaricata. Sostiene che la Corte di appello ha individuato la causa della rottura delle catene in un difetto di manutenzione senza che tale circostanza sia stata accertata: in primo luogo perché non è stata eseguita una perizia sulle cause dell’incidente; in secondo luogo, perché non si è tenuto conto delle testimonianze a discarico, dalle quali emerge che il controllo tecnico delle piattaforme avveniva con cadenza almeno mensile e si è ritenuto che l’esecuzione di tali controlli potesse essere provata solo attraverso produzioni documentali.

Con specifico riferimento alla posizione di M.E., la difesa osserva che egli era responsabile del servizio di prevenzione e protezione, aveva quindi il compito di fornire supporto tecnico al datore di lavoro, ma non aveva compiti gestionali. Sostiene che la sentenza impugnata non ha spiegato se E. sia stato inadempiente ai propri obblighi di consulenza e neppure se tale ipotizzata inadempienza sia stata causa dell’infortunio.

3.2. Col secondo motivo, i ricorrenti lamentano vizi di motivazione e violazione di legge riguardo alla decisione adottata dal giudice di primo grado, e confermata dal giudice di appello, di non disporre una perizia volta a verificare le cause della rottura delle catene e le ragioni per le quali la piattaforma non era dotata di un sistema di sicurezza idoneo ad evitare che, in caso di rottura, la piattaforma potesse precipitare. La difesa osserva che i giudici di merito hanno ritenuto tale attività istruttoria non indispensabile alla decisione: da un lato perché, pur in assenza del sistema di blocco, la piattaforma era stata ritenuta conforme alla normativa, munita del marchio “CE” e collaudata; dall’altro, perché si è ritenuto che la mancata esecuzione da circa un anno di interventi di manutenzione documentati avesse impedito di rilevare l’usura delle catene. Il difensore sostiene che tale motivazione è manifestamente illogica e contraddittoria: perché, se la macchina fosse stata munita di sistemi di blocco, l’evento non si sarebbe verificato; perché solo una perizia avrebbe potuto individuare nell’usura la causa della rottura delle catene; perché la circostanza che la manutenzione non fosse regolarmente eseguita è stata smentita dalle deposizioni testimoniali, secondo le quali le piattaforme erano sottoposte a verifiche periodiche e, in ogni caso, a controllo visivo eseguito dal caposquadra all’inizio di ogni turno di lavoro.

Secondo la difesa, in assenza di un accertamento tecnico sulla causa della rottura, sarebbe impossibile affermare che l’infortunio fu determinato da difetto di controlli e di manutenzione. La sentenza impugnata sarebbe quindi viziata da carenza di motivazione quanto alla sussistenza del nesso causale tra la condotta asseritamente omessa e l’evento lesivo.

3.3. Col terzo motivo, i ricorrenti si dolgono del trattamento sanzionatorio. Sostengono che la scelta di applicare la pena della reclusione anziché quella della multa non sarebbe stata adeguatamente motivata.

Considerato in diritto

1. I motivi di ricorso non superano il vaglio di ammissibilità.

2. Per ragioni di logica espositiva, deve essere esaminato per primo il secondo motivo col quale i ricorrenti si dolgono del mancato espletamento di una perizia volta a verificare le cause della rottura delle catene e le ragioni per le quali la piattaforma non era dotata di un sistema di blocco idoneo ad evitare che, in casi simili, la piattaforma potesse precipitare; una doglianza ha carattere preliminare perché riguarda la ricostruzione dei fatti sui quali è stata fondata l’affermazione della penale responsabilità.

Sul punto, la motivazione delle sentenze di merito – che possono essere lette congiuntamente e costituiscono un unico complessivo corpo decisionale in virtù dei ripetuti richiami che la sentenza d’appello opera alla sentenza di primo grado (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, A., Rv. 257595) – non appare né lacunosa né, tanto meno, intrinsecamente contraddittoria. La perizia richiesta dalla difesa, infatti, è stata ritenuta non «assolutamente necessaria» alla luce degli accertamenti compiuti dai tecnici della prevenzione che hanno svolto le indagini, dai quali è emerso: che la catena si era rotta e che la piattaforma non era dotata di un sistema di blocco idoneo a prevenire danni in questa eventualità (pur esistente in altri macchinari simili). I giudici di merito hanno preso atto che, pur in assenza di tale sistema di blocco, la piattaforma era stata dotata di marcatura “CE” e regolarmente collaudata ai fini della messa in opera e hanno ritenuto che l’informazione probatoria fosse completa. Hanno osservato, infatti, che non poteva ipotizzarsi il malfunzionamento di un sistema di blocco inesistente (e non indispensabile), ma era stata accertata la rottura delle catene; e tale rottura, essendo stato escluso un sovraccarico della piattaforma, non poteva che essere dipesa da usura. In altri termini, i giudici di merito hanno individuato la causa della rottura delle catene nell’usura cui le stesse erano sottoposte e hanno ritenuto per questo di dover concentrare la propria attenzione sulla manutenzione del macchinario. Di ciò hanno fornito una motivazione coerente e completa che comporta la manifesta infondatezza del secondo motivo di ricorso.

Altro e diverso problema è quello che riguarda l’effettivo svolgimento dell’attività di manutenzione, che non era la perizia a dover accertare. Com’è evidente, questo argomento attiene alla prova del fatto, che i ricorrenti ritengono insussistente ed è quindi oggetto, insieme ad altri, del primo motivo di ricorso.

3. Nell’esaminare il primo motivo si deve premettere che nel ricorso si lamentano vizi di motivazione e violazioni di legge, ma, in concreto, anche le denunciate violazioni di legge si esauriscono in una critica alla motivazione adottata dai giudici di merito per sostenere l’esistenza della colpa e del nesso causale. È utile perciò ricordare che, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., il sindacato del giudice di legittimità sul provvedimento impugnato deve essere volto a verificare: che la motivazione della pronuncia sia “effettiva” e non meramente apparente, cioè realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; non sia “manifestamente illogica”, perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; non sia internamente “contraddittoria”, sia quindi esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; non risulti fondata su argomenti logicamente “incompatibili” con «altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame» in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico. Alla Corte di cassazione è preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Un tal modo di procedere, infatti, trasformerebbe la Corte da giudice di legittimità nell’ennesimo giudice del fatto (tra tante: Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, F., Rv. 273217; Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, C., Rv. 280747).

3.1. La sentenza impugnata ha escluso che la responsabilità a titolo di colpa potesse essere fondata sulla violazione dell’art. 71 comma 3 d.lgs. n. 81/08 «con riferimento alla mancata colposa adozione delle cautele imposte dall’allegato VI n. 3.1.2.», contestata nel capo di imputazione e ritenuta sussistente dal Tribunale. Ha ritenuto infatti (accogliendo un motivo di appello) che il punto 3 dell’allegato VI faccia esclusivo riferimento alle «attrezzature di lavoro deputate al sollevamento dei carichi, tra le quali non possono essere ricomprese quelle utilizzate per il sollevamento delle persone». Non per questo, però, ha ritenuto sussistente solo una colpa generica. Ha sottolineato, infatti: in primo luogo, che l’allegato VI (richiamato dall’art. 71, comma 3, d.lgs. n. 81/08) impone al punto 1 l’adozione di tutte le cautele necessarie a eliminare o ridurre i rischi connessi all’uso delle attrezzature da lavoro; in secondo luogo, che fu imprudente consentire l’impiego della piattaforma «senza che la stessa fosse stata adeguatamente monitorata» (pag. 9 della motivazione della sentenza impugnata).

La Corte territoriale ha argomentato sull’assenza di controlli e di attività manutentive adeguate. Ha rilevato, infatti:

– che, come prova la documentazione acquisita nel corso delle indagini, le catene della piattaforma n. 25 furono controllate in officina «un considerevole numero di mesi» prima del fatto;

– che il continuativo e stabile impego di quella piattaforma e le condizioni di lavoro connotate dalla abbondante presenza di polvere, esponevano gli ingranaggi «a maggior attrito in mancanza di reiterata oliatura, e quindi a un rischio di rottura superiore»;

– che, secondo le indicazioni fornite dai testimoni a discarico, sulle piattaforme utilizzate dai dipendenti della S. veniva compiuta una generalizzata e cadenzata attività di manutenzione, ma nessun testimone è stato in grado di riferire tale attività manutentiva in termini specifici e temporalmente dettagliati alla piattaforma in questione (pag. 10 della sentenza impugnata).

La difesa obietta che, nel parlare di tale attività di manutenzione, i testi l’hanno riferita a tutte le piattaforme e quindi anche alla piattaforma n. 25, ma tale argomentazione non contrasta col dato, valutato decisivo dalla sentenza impugnata, che, come risulta dalla documentazione acquisita, le catene di quella piattaforma erano state sottoposte a controllo meccanico e sostituite per usura molto tempo prima dei fatti (precisamente – come riportato a pag. 9 della sentenza di primo grado – il 6 febbraio 2013 e il 22 febbraio 2013, date in cui nelle schede di manutenzione fu annotato: «controllo catene e pulegge consumate»).

Si tratta di motivazioni complete, scevre da profili di contraddittorietà o manifesta illogicità e dunque non censurabili in questa sede. Si deve ricordare, in proposito che, ai sensi dell’art. 71, comma 4, lett. b) d.lgs. n. 81/08, le attrezzature da lavoro devono essere «oggetto di idonea manutenzione al fine di garantire nel tempo la permanenza dei requisiti di sicurezza di cui all’articolo 70» e che, come affermato da questa Corte di legittimità, «l’obbligo di “ridurre al minimo” il rischio di infortuni sul lavoro (art. 71, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81) impone al datore di lavoro di verificare e garantire la persistenza nel tempo dei requisiti di sicurezza delle attrezzature di lavoro messe a disposizione dei propri dipendenti […], non essendo sufficiente, per ritenere adempiuto l’obbligo di legge, il rilascio, da parte di un organismo certificatore munito di autorizzazione ministeriale, della certificazione di rispondenza ai requisiti essenziali di sicurezza» (Sez. 3, n. 46784 del 10/11/2011, L., Rv. 251620).

È così superato anche l’argomento, solamente enunciato nei motivi di ricorso, secondo il quale la piattaforma era stata verificata dall’Inail. Come risulta dalla sentenza di primo grado, infatti, tale verifica era avvenuta il 5 aprile 2013, quando erano passati meno di due mesi dall’ultimo controllo in officina di catene e pulegge; ma trascorsero più di dieci mesi tra questa verifica e l’infortunio.

3.2. L’argomento secondo il quale l’affermazione della penale responsabilità degli imputati sarebbe avvenuta ritenendo una colpa generica ed escludendo i profili di colpa specifica espressamente contestati è privo di pregio. Non soltanto perché – come sottolineato dalla sentenza impugnata – la colpa generica era stata contestata; ma soprattutto perché, con la motivazione sopra illustrata, la Corte territoriale ha ritenuto violate le norme di prevenzione contenute nell’art. 71 e nell’allegato VI del d.lgs. n. 81/08.

La Corte territoriale ha ritenuto tali violazioni determinanti sotto il profilo causale osservando che, se la piattaforma fosse stata sottoposta a regolari controlli di manutenzione, l’evento non si sarebbe verificato. Ha ritenuto, inoltre, che, in assenza di regolari controlli, l’evento fosse prevedibile ed evitabile. Ha sottolineato, in proposito che, meno di due anni prima (il 16 aprile 2012), si era verificato un incidente identico, determinato dalla rottura delle catene di una piattaforma, e sulla non contraddittorietà o illogicità di tale motivazione non occorre spendere parole.

3.3. Ai sensi degli artt. 17 e 28 d.lgs. n. 81/08 incombe sul datore di lavoro l’obbligo di verificare la conformità dei macchinari alle prescrizioni di legge e di impedire l’utilizzazione di quelli che, per qualsiasi causa – inidoneità originaria o sopravvenuta – siano pericolosi per l’incolumità del lavoratore che li manovra (Sez. 4, n. 3917 del 17/12/2020, dep. 2021, D.N., Rv. 280382).

Quanto ad E., responsabile del servizio di prevenzione e protezione, la sentenza impugnata e quella di primo grado hanno ritenuto che egli non avesse adempiuto puntualmente al proprio ruolo non avendo raccomandato a L. verifiche periodiche sull’integrità delle catene, non avendo vigilato perché tali verifiche fossero compiute e non avendo predisposto un piano di lavoro e di sicurezza contenente previsioni in tal senso. Tali conclusioni sono conformi ai principi di diritto che regolano la materia. Si è ritenuto, infatti che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione possa essere considerato responsabile del verificarsi di un infortunio, anche in concorso col datore di lavoro, «ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione faccia seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle iniziative idonee a neutralizzare tale situazione. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva riconosciuto la responsabilità del RSPP per non avere segnalato nell’ultimo DVR il rischio di caduta nel vuoto per il cattivo stato di manutenzione dei parapetti di un balcone, in concorso con quella ascritta al datore di lavoro per non avere sollecitato la società proprietaria dell’immobile ad eseguire i necessari lavori di manutenzione, ritenendo irrilevante, ai fini dell’esclusione della responsabilità del primo, la circostanza che il rischio non segnalato fosse noto al datore di lavoro) (Sez. 4, n. 24822 del 10/03/2021, S., Rv. 281433; nello stesso senso Sez. 4, n. 32195 del 15/07/2010, S., Rv. 248555; sull’argomento si veda anche: Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, E. Rv. 261107).

4. La sentenza impugnata sostiene che l’evento lesivo fu causato dall’usura (e conseguente rottura) delle catene che sostenevano la piattaforma e che E. e L. lo resero possibile non adempiendo puntualmente ai rispettivi obblighi. La Corte territoriale osserva che E. non svolse i propri compiti consultivi in modo corretto perché non segnalò a L. la necessità di una attenta manutenzione e perciò lo ritiene responsabile dell’evento. Individua, inoltre, la regola di prevenzione violata nella carenza di una adeguata manutenzione periodica.

La motivazione non è carente, contraddittoria o illogica, e certamente non contrasta con i principi di diritto che disciplinano la materia. Non è, quindi, censurabile né sotto il profilo dell’identificazione del rischio concretizzatosi, né per quanto riguarda le regole cautelari applicabili. Neppure è censurabile, perché coerente con le emergenze istruttorie, l’identificazione della condotta alternativa doverosa, individuata nell’adempimento dell’obbligo di manutenzione e, per Esposto, nella programmazione del controllo meccanico delle catene e pulegge (pag. 9 della sentenza di primo grado). La prevedibilità e l’evitabilità dell’evento dannoso, inoltre, sono congruamente motivate sulla base della costatazione che un infortunio identico si era verificato due anni prima e l’ultimo controllo su catene e pulegge era stato eseguito nel febbraio 2013.

5. Col terzo e ultimo motivo i ricorrenti si dolgono dell’entità della pena inflitta determinata dal giudice di primo grado, per ciascun imputato, in mesi due di reclusione, previa applicazione delle circostanze attenuanti generiche. Il motivo è inammissibile essendo stato proposto per la prima volta nell’atto di ricorso. Nell’impugnare la sentenza di primo grado, infatti, gli appellanti non avevano censurato l’entità della pena inflitta in primo grado, ma solo la mancata concessione del beneficio della non menzione e tale motivo di appello è stato accolto in sede di gravame. Si deve ricordare allora che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «non sono deducibili con il ricorso per cassazione questioni che non abbiano costituito oggetto di motivi di gravame, dovendosi evitare il rischio che in sede di legittimità sia annullato il provvedimento impugnato con riferimento ad un punto della decisione rispetto al quale si configura “a priori” un inevitabile difetto di motivazione per essere stato intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello» (fra le tante: Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, G., Rv. 270316; Sez. 2, n. 34044 del 20/11/2020, T., Rv. 280306; Sez. 3, n. 27256 del 23/07/2020, M., Rv. 279903; Sez. 2, n. 46765 del 09/12/2021, B., Rv. 282322).

6. Poiché i ricorsi sono inammissibili, non deve essere dichiarata la prescrizione del reato che sarebbe maturata dopo la sentenza d’appello. La giurisprudenza di questa Corte di legittimità, infatti, ha più volte ribadito che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen (così Sez. U. n. 32 del 22/11/2000, D.L., Rv. 217266 relativamente ad un caso in cui la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. U., n. 23428 del 2/3/2005, B., Rv. 231164, e Sez. U. n. 19601 del 28/2/2008, N., Rv. 239400; Sez. 2, n. 28848 del 8/5/2013, C., Rv. 256463).

7. All’inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000 e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che i ricorrenti non versassero in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve essere disposto a carico di ciascuno di loro, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere di versare la somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, somma così determinata in considerazione delle ragioni di inammissibilità.

Infine, gli imputati devono essere condannati in solido alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalla parte civile costituita il cui difensore ha partecipato all’udienza e depositato conclusioni scritte. Si ritiene equo procedere alla liquidazione nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila ciascuno in favore della Cassa delle Ammende. Condanna, inoltre, gli imputati in solido alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile S.G. che liquida in complessivi euro 3.000,00 oltre accessori di legge.