CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 45142 depositata il 9 novembre 2023

Lavoro – Spostamento carichi ingombranti – Infortunio sul lavoro – Omissione della corretta valutazione dei rischi – Dichiarazioni rese da soggetto che avrebbe dovuto essere imputato – Comportamento abnorme e imprevedibile del lavoratore – Cosiddetto “rischio eccentrico” – Inammissibilità del ricorso

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 18 novembre 2022, La Corte di appello di Brescia ha confermato la sentenza pronunciata il 24 gennaio 2022 dal Tribunale di Cremona quanto all’affermazione della penale responsabilità di R.I., per il reato di cui all’art. 590 c.p. in danno di I.F.A.S., dipendente della A. S.p.A., che aveva riportato gravi lesioni al piede sinistro, rimasto schiacciato da un’àncora di miscelazione che lui, e il collega Q.D., avevano caricato su un muletto per trasportarla all’esterno di un capannone che doveva essere sgomberato. R. è stato ritenuto responsabile dell’infortunio, quale presidente del Consiglio di Amministrazione della società e datore di lavoro dell’infortunato, per aver omesso una corretta valutazione dei rischi derivanti dallo spostamento di carichi ingombranti, non avere adottato specifiche procedure per regolamentare lo svolgimento di tali attività e non avere impedito l’utilizzo del muletto a lavoratori non formati. L’infortunio oggetto del procedimento si è verificato a (…).

2. Contro la sentenza della Corte di appello il difensore dell’imputato ha proposto tempestivo ricorso articolato in due motivi che di seguito si riportano nei limiti strettamente necessari alla decisione, come previsto dal D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 271, art. 173, comma 1.

2.1. Col primo motivo, la difesa deduce violazione di legge processuale e vizi di motivazione. Si duole che siano state utilizzate, ai fini dell’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, le dichiarazioni testimoniali rese nel corso del dibattimento dal capo officina M.L. e da Q.D..

Osserva:

– che lo sgombero del capannone era iniziato nella giornata precedente sotto la supervisione di M., e Q. aveva svolto quel lavoro, su incarico del capo officina, caricando manufatti ingombranti sulle forche di un muletto che non era abilitato a guidare;

– che Q., proseguì nel lavoro il giorno seguente e chiese aiuto a S. il quale, al pari di lui, non era formato all’uso del muletto;

– che Q., e S. caricarono un’àncora di miscelazione di notevoli dimensioni (8 metri di lunghezza e 4 di larghezza) sul muletto legandola con una fascia e fissandola con un morsetto alle forche;

– che Q., si pose alla guida e incaricò S. di tenere fermo il pezzo con le mani durante il trasporto.

Secondo il ricorrente, M. e Q. avrebbero dovuto essere indagati nel procedimento: il primo, perché, quale capo officina, incaricò dell’esecuzione di operazioni di sgombero che comportavano lo spostamento di materiali pesanti e ingombranti un dipendente non abilitato all’uso del muletto e di altri apparecchi di sollevamento; il secondo, perché chiese aiuto a S. e, senza essere abilitato a farlo, si pose alla guida del muletto lasciando che, durante il trasporto, S. tenesse con le mani il carico ponendosi così in una posizione pericolosa.

Poiché avrebbero dovuto essere indagati – sostiene la difesa – M. e Q. non avrebbero potuto essere sentiti come testimoni e, pertanto, le dichiarazioni rese in questa veste, sarebbero affette da inutilizzabilità patologica ai sensi dell’art. 63 c.p.p., comma 2.

La difesa si duole che questa eccezione sia stata respinta dalla Corte territoriale facendo rinvio ad un orientamento giurisprudenziale secondo il quale l’inutilizzabilità ex art. 63, comma 2, c.p.p. non può investire le dichiarazioni rese al giudice da soggetto che non abbia mai assunto la qualità di imputato o di indagato, potendo o dovendo il giudice unicamente verificare – così testualmente pag. 10 della motivazione – “che detta qualità non sia stata già formalmente assunta, così da introdurre una situazione di incompatibilità con l’ufficio di testimone ex art. 197 c.p.p., comma 1 lett. a) e lett. b) ” (la sentenza impugnata cita, in tal senso, Sez. 6, n. 40512 del 20/06/2007, A., Rv. 237988 e Sez. 5, 29357 del 22/03/2019, B., Rv. 276856). Il difensore osserva che tale orientamento non è affatto consolidato e, in più recenti pronunce, si è affermato che, quando viene in rilievo la veste che può assumere il dichiarante, “spetta al giudice il potere di verificare in termini sostanziali, prescindendo da indici formali quali l’avvenuta iscrizione nel registro delle notizie di reato, l’attribuibilità allo stesso della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese, con la conseguente necessaria escussione non già come testimone, bensì quale imputato di reato connesso ai sensi dell’art. 210 c.p.p.” (la difesa cita, in tal senso, Sez. 6, n. 25425 del 04/03/2020, P., Rv. 279606). La Corte territoriale, dunque, avrebbe dovuto verificare, in termini sostanziali e prescindendo dal dato formale della iscrizione nel registro degli indagati, se M. e Q. potevano essere sentiti come testimoni o, invece, dovevano essere sentiti come indagati essendo già stati acquisiti a loro carico indizi non equivoci di reità, ma non lo ha fatto e, secondo la difesa, ciò determina un vizio di motivazione.

Il contenuto delle sentenze di primo e secondo grado – sostiene ancora la difesa – rende evidente che M. e Q. avrebbero dovuto fin dall’inizio essere sentiti come indagati. Dalle stesse risulta, infatti: che Q. compì scelte sbagliate sia quando decise la procedura da seguire per lo spostamento del carico, sia quando chiese a S. di aiutarlo; che M. impartì l’ordine di sgombrare il capannone a una persona non competente e non abilitata all’utilizzo di muletti.

2.2. Col secondo motivo, il ricorrente deduce vizi di motivazione per essere stata esclusa l’abnormità del comportamento tenuto dall’infortunato. La difesa sostiene che posizionandosi “sul muletto e sull’àncora durante le operazioni di spostamento della stessa”, S. tenne un “comportamento inconsulto, imprevedibile, illogico”, idoneo ad escludere il nesso causale tra la condotta omissiva ascritta al datore di lavoro e l’evento lesivo.

3. Il Procuratore Generale, ha depositato conclusioni scritte chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.

4. Con memoria del (…) il difensore dell’imputato ha insistito per l’accoglimento.

Considerato in diritto

1. I motivi di ricorso non superano il vaglio di ammissibilità.

2. Col primo motivo, la difesa si duole che siano state utilizzate, ai fini dell’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, le dichiarazioni testimoniali rese nel corso del dibattimento dal capo officina M.L. e da Q.D. che, fin dall’inizio, avrebbero dovuto essere indagati nel procedimento.

Si deve subito osservare che la questione non era stata proposta nei motivi di appello formulati nell’interesse di R.I., (Presidente del Consiglio di amministrazione della “A. S.p.A.” e datore di lavoro dell’infortunato), ma soltanto nei motivi di appello formulati nell’interesse della “A. S.p.A.” imputata dell’illecito di cui al D.Lgs. 8 giugno 2001 n. 231, art. 5, comma 1, lett. a) e art. 25 septies, comma 3, sicché il ricorrente ha proposto la questione per la prima volta in sede di legittimità. Si deve ricordare, allora, che “la questione dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese senza le necessarie garanzie difensive da chi sin dall’inizio doveva essere sentito in qualità di imputato o indagato non può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità se richiede valutazioni di fatto su cui è necessario il previo vaglio, in contraddittorio, da parte del giudice di merito” (Sez. 6, n. 18889 del 28/02/2017, T., Rv. 269891; Sez. 6, n. 21877 del 24/05/2011, C., Rv. 250263). Nel caso di specie tali valutazioni di fatto sono indispensabili, atteso che per ipotizzare una responsabilità a titolo di colpa con riferimento ad un infortunio sul lavoro è necessario conoscere con esattezza il ruolo svolto da ciascun ipotetico indagato e valutare se egli possa aver assunto una posizione di garanzia nei confronti dell’infortunato e le sentenze di merito non forniscono dati inequivoci in tal senso. A ciò deve aggiungersi che, per quanto emerge dal ricorso e dalla lettura delle sentenze, nel giudizio di primo grado la questione non fu sollevata dalle parti né il Tribunale ritenne di dover interrompere l’esame dei testimoni e procedere ai sensi dell’art. 63 c.p.p., comma 1. Il giudice di primo grado, dunque, valutò che le dichiarazioni rese da M. e Q. non avessero fatto emergere a loro carico indizi di reità.

3. Col secondo motivo il ricorrente lamenta vizi di motivazione per essere stata esclusa l’abnormità del comportamento del lavoratore infortunato.

Nel giungere a tali conclusioni la sentenza impugnata ha sottolineato: che S. si infortunò nello svolgimento dell’attività lavorativa, mentre aiutava Q. a sgomberare un capannone; che né lui né Q. avevano ricevuto formazione specifica allo svolgimento di quelle attività e all’uso degli apparecchi di sollevamento necessari a tal fine; che per l’utilizzo dei muletti non erano state impartite specifiche disposizioni scritte né erano state dettate procedure operative per impedirne l’uso a soggetti non abilitati; che i rischi derivanti dallo spostamento di carichi ingombranti non erano stati valutati nel documento di cui al D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81, art. 28, che le pericolose modalità di trasporto adottate da Q. e S., furono rese possibili proprio dalla mancata valutazione del rischio e dalla mancata previsione di procedure atte ad impedire l’utilizzo di muletti da parte di lavoratori non abilitati.

La motivazione è completa, non è contraddittoria né manifestamente illogica ed è conforme ai principi di diritto che regolano la materia. Si rammenta in proposito che, per giurisprudenza costante, un comportamento, anche avventato, del lavoratore, se realizzato mentre egli è dedito al lavoro affidatogli, può essere invocato come imprevedibile o abnorme solo se il datore di lavoro ha adempiuto tutti gli obblighi che gli sono imposti in materia di sicurezza sul lavoro (Sez. 4, n. 12115 del 03/06/1999, G. A., Rv. 214999; Sez. 4, n. 1588 del 10/10/2001, R., Rv. 220651; Sez. 4, n. 22249 del 14/03/2014, E., Rv. 259227; Sez. 4, n. 16397 del 05/03/2015, G., Rv. 263386). A questo proposito, la giurisprudenza più recente ha opportunamente sottolineato che “in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia” (Sez. 4, n. 7012 del 23/11/2022, dep. 2023, C., Rv. 284237; Sez. 4, n. 33976 del 17/03/2021, V., Rv. 281748; Sez. 4, n. 5794 del 26/01/2021, C., Rv. 280914). Ponendosi in questa prospettiva si è affermato che il comportamento negligente, imprudente e imperito tenuto dal lavoratore nello svolgimento delle mansioni a lui affidate può costituire concretizzazione di un “rischio eccentrico”, con esclusione della responsabilità del garante, solo se questi “ha posto in essere anche le cautele che sono finalizzate proprio alla disciplina e governo del rischio di comportamento imprudente, così che, solo in questo caso, l’evento verificatosi potrà essere ricondotto alla negligenza del lavoratore, piuttosto che al comportamento del garante (Fattispecie in tema di omicidio colposo, in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità del datore di lavoro in quanto la mancata attuazione delle prescrizioni contenute nel Pos e la mancata informazione del lavoratore avevano determinato l’assenza delle cautele volte a governare anche il rischio di imprudente esecuzione dei compiti assegnati al lavoratore infortunato)” (Sez. 4, n. 27871 del 20/03/2019, S., Rv. 276242).

4. Poiché il ricorso è inammissibile, non deve essere dichiarata la prescrizione del reato che sarebbe maturata dopo la sentenza d’appello. La giurisprudenza di questa Corte di legittimità, infatti, ha più volte ribadito che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. (così Sez. U. n. 32 del 22/11/2000, D.L., Rv. 217266 relativamente ad un caso in cui la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. U., n. 23428 del 2/3/2005, B., Rv. 231164, e Sez. U. n. 19601 del 28/2/2008, N., Rv. 239400; Sez. 2, n. 28848 del 8/5/2013, C., Rv. 256463).

5. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000 e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che il ricorrente non versasse in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve essere disposto a suo carico, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere di versare la somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, somma così determinata in considerazione delle ragioni di inammissibilità.

In caso di diffusione del presente provvedimento dovranno omettersi le generalità e gli altri dati identificativi della persona offesa ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, comma 2.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Oscuramento dati.