Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 46464 depositata il 15 novembre 2019
reati fiscale – omesso versamento IVA
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Catania, con la sentenza del 14 febbraio 2019, in parziale riforma della sentenza del giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Catania del 24 aprile 2013, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di RM per il reato a lui ascritto al capo a) ex art. 10-ter d.lgs. 74/2000, relativo all’anno di imposta 2009, perché estinto per prescrizione, per quello sub b) ex art. 10-bis d.lgs. 74/2000, relativo all’anno di imposta 2010, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Quanto al reato sub c) ex art. 10-ter d.lgs. 74/2000, relativo all’anno di imposta 2010, ha rideterminato la pena in 5 mesi e 20 giorni di reclusione, concedendo la sospensione condizionale della pena.
RM è stato condannato, quale legale rappresentante della I. s.r.l., per aver omesso il versamento dell’I.v.a. dovuta in base alla dichiarazione annuale 2010, per un ammontare complessivo di € 298.693.
2. Il difensore di RM ha proposto il ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Catania.
2.1. Con il primo motivo si deducono i vizi ex art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen. di violazione degli artt. 10-ter d.lgs. 74/2000, 42 cod. pen.; di illogicità della motivazione quanto alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato.
Nel giudizio abbreviato la difesa depositò 30 documenti, procedure di ingiunzione e di recupero crediti, volti a dimostrare l’esistenza di crediti non riscossi negli anni dal 2004 al 2012 per un importo superiore a € 900.000. La Corte di appello non avrebbe applicato il principio ad impossibilia nemo tenetur, avrebbe omesso di valutare i documenti prodotti e la sentenza dichiarativa del fallimento intervenuta dopo la sentenza di primo grado, ritenuto così erroneamente non provata la crisi di liquidità ed irrilevante l’intervenuto fallimento. L’esigibilità della condotta sarebbe collegata alla capacità contributiva ed il dolo si tradurrebbe nella «cosciente volontà di evadere quanto dovuto all’erario».
Sarebbe mancata la libertà di autodeterminazione.
2.2. Con il secondo motivo si deduce il vizio ex art. 606 lett. b) cod. proc. pen. per la violazione del principio del ne bis in idem sostanziale richiamando alcune sentenze della Cedu (Engels vs. the Netherlands del 1976, Grande Stevens del 2014, Bjarni vs. Islanda del 2019, A. e B. c. Norvegia).
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è limitato alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato.
1.1. Il primo motivo è inammissibile per genericità, avendo il ricorrente dedotto il travisamento della prova per omissione senza procedere alle necessarie allegazioni.
1.2. In ogni caso, il travisamento della prova è del tutto insussistente, perché la Corte di appello ha valutato i documenti prodotti dalla difesa, acquisiti nel giudizio abbreviato condizionato, ma ha ritenuto che la sussistenza degli inadempimenti da parte dei debitori della società non concretizzasse una causa di giustificazione né escludesse il dolo. Anche l’intervenuto fallimento della società, di cui il ricorrente era legale rappresentante, è stato valutato dalla corte territoriale ma ritenuto irrilevante per il distacco temporale dalla consumazione del reato, pari a circa 5 anni.
1.3. Va poi rilevato che l’esistenza di crediti non riscossi non dimostra affatto né l’esistenza di una crisi di liquidità né la mancanza del dolo.
Il debito Iva risulta dalla stessa dichiarazione presentata dal ricorrente; la regola generale prevalente è quella dell’Iva per cassa, cioè quella che collega al pagamento (cfr. l’art. 6 del d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633) l’effettuazione dell’operazione relativa alla cessione di beni o alla prestazione di servizi a cui si applica l’imposta sul valore aggiunto. Ne consegue che il debito verso il fisco relativo ai versamenti IVA è normalmente collegato al compimento delle operazioni imponibili. Ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua tali operazioni riscuote già (dall’acquirente del bene o del servizio) l’IVA dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria (cfr. in tal senso Sez. U. n. 37424 del 28/03/2103, Romano, Rv. 255757).
L’imprenditore ha di norma riscosso l’Iva nell’anno 2010 ed è comunque tenuto al pagamento, anche se egli vanti crediti verso terzi, non riscossi, per altri rapporti giuridici.
1.4. Va ribadito il costante orientamento della giurisprudenza per il quale il reato ex art. 10-ter d.lgs. 74/2000 è punibile a titolo di dolo generico e consiste nella coscienza e volontà di non versare all’Erario le somme dovute a titolo di Iva del periodo considerato, non essendo richiesto che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte. La prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine lungo previsto. Va poi ribadito che per la sussistenza del reato in questione non è richiesto il fine di evasione, tantomeno l’intima adesione del soggetto alla volontà di violare il precetto.
2. Il secondo motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 606 comma 3 cod. proc. pen., trattandosi di violazione di legge non dedotta con i motivi di appello con i quali la difesa ha contestato esclusivamente la motivazione della sentenza nel merito, quanto all’elemento soggettivo del reato ed alla confisca; né è stata dedotta una questione rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del processo o che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello. Per altro, il motivo è del tutto generico perché non risulta minimamente documentato se e chi abbia pagato le sanzioni amministrative, se la società o l’amministratore.
Vanno ribaditi i principi espressi da Cass. Sez. 3, n. 35156 del 01/03/2017, Palumbo, Rv. 270913, in tema di confisca, e da Cass. Sez. 3, n. 54372 del 16/10/2018, Benedetti, sul reato di cui all’articolo 10-quater del d.lgs. 74/2000: non sussiste la violazione del principio del ne bis in idem convenzionale, come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nella causa A e B c. Norvegia del 15 novembre 2016, nel caso in cui con la sentenza di condanna per reati tributari commessi in qualità di amministratore di una società sia disposta, nei confronti della società, anche la sanzione tributaria.
3. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. si condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, si condanna altresì il ricorrente al pagamento della somma di euro 2.000,00, determinata in via equitativa, in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
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