Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 48199 depositata il 27 novembre 2019
sequestro per equivalente – reati tributari
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Milano, in funzione di giudice del riesame dei provvedimenti cautelari reali, ha, con ordinanza del 10 maggio 2019, rigettato la richiesta di riesame presentata da F.N. avverso il decreto di sequestro preventivo, diretto o, in mancanza del reperimento del profitto del reato ipotizzato, per equivalente, emesso, sino alla concorrenza della somma di euro 406.610,00, in danno, per quanto ora interessa, del F.N., essendo questi indagato in relazione alla ipotizzata violazione dell’art. 2 del dlgs n. 74 del 2000, in quanto, in qualità di amministratore di diritto della T. Srl, si avvaleva, al fine di evadere l’Iva, di fatture apparentemente emesse dalla società A. Srl relativamente ad operazioni oggettivamente inesistenti.
Avverso la predetta ordinanza ha interposto ricorso per cassazione il F.N., articolando all’uopo tre motivi di impugnazione.
Di essi, il primo ha ad oggetto, ai sensi dell’art. 321 cod. proc. pen., la pretesa inesistenza della motivazione della ordinanza impugnata; il ricorrente, dopo aver ricordato che in sede dì riesame era stata dedotta la mancanza di prova in ordine all’ammontare del profitto del reato tributario in provvisoria contestazione, ha rilevato che al riguardo non vi era stata motivazione da parte del Tribunale che pure aveva rigettato l’eccezione.
Con il secondo motivo di ricorso è stata dedotta la violazione di legge, con riferimento agli artt. 322-ter cod. pen., 321 cod. proc. pen. e 12-bis del dlgs n. 74 del 2000, in ordine all’impossibilità di eseguire il sequestro diretto del profitto del reato presso il diretto beneficiario T. Srl.
Infine con il terzo motivo, connesso al precedente, è stata dedotta la violazione di legge delle medesime disposizioni normative sopra citate in relazione al riparto dell’onere della prova riguardante l’impossibilità del sequestro diretto del profitto dei reato presso la T. srl.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato e, pertanto, lo stesso deve essere rigettato.
Nessuno dei motivi del ricorso proposti, infatti, è fondato.
Con riferimento al primo, concernente la ritenuta assenza di motivazione della ordinanza impugnata in ordine all’ammontare della imposta che sarebbe stata evasa dal F.N., nella qualità di legale rappresentante della T. Srl, somma che, costituendo in ipotesi il profitto del reato contestato, è stata oggetto del sequestro preventivo finalizzato alla confisca in caso di condanna dell’indagato, rileva il Collegio, in linea generale, che sebbene sia vero che nel novero delle ipotesi di violazione di legge – unico vizio deducibile nel giudizio di cassazione avverso i provvedimenti aventi ad oggetto misure cautelari reali – sia stata da lungo tempo ricompreso anche il vizio di carenza assoluta di motivazione, ridondando questo, stante il disposto dell’art. 125, comma 3, cod. proc. pen., il quale impone, a pena di nullità, che i provvedimenti giurisdizionali aventi un contenuto decisorio siano corredati da un’adeguata motivazione, appunto in una violazione di legge, deve tuttavia osservarsi che, al di là delle ipotesi di scuola della totale assenza materiale della motivazione, si può parlare di motivazione meramente apparente – equiparata, pertanto, alla motivazione assente – solo allorché questa presenti un vizio così radicale da rendere del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento impugnato e, quindi, inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice per giungere alla decisione assunta (fra le altre: Corte di cassazione, Sezione II penale, 20 aprile 2017, n. 18951; idem Sezione III penale, 2 febbraio 2017, n. 4919).
Nel caso che ora interessa, siffatta radicale inadeguatezza motivazionale non è assolutamente riscontrabile nella ordinanza impugnata, avendo il Tribunale del riesame chiaramente rilevato che l’ammontare dell’imposta evasa è stato determinato sulla base di quanto è risultato attraverso l’esame degli importi relativi alle operazioni inesistenti documentate con le fatture fittiziamente emesse dalla A.; ammontare che è stato indicato essere pari ad euro 401.610,00 e che, solo per un evidente errore di digitazione negli atti di indagine e di coordinamento nella richiesta di sequestro, è stato indicato nella parte conclusiva della annotazione della Guardia di Finanza e della richiesta di misura cautelare formulata dal Pm nella diversa, sia pure di pochissimo, somma di euro 401.260,00.
E’ pertanto pienamente ricostruibile sia il percorso logico che il Tribunale ha seguito per la determinazione dell’ammontare del profitto del reato in ipotesi confiscabile, e pertanto assoggettato a sequestro, sia quello svolto per chiarire, e superare in quanto irrilevante, la solo apparente discrasia esistente fra il contenuto della richiesta di misura cautelare ed il decreto con la quale la stessa è stata disposta.
La ritenuta violazione di legge per difetto assoluto di motivazione non è, pertanto, affatto riscontrabile della ordinanza impugnata.
Così come non sono evidenziabili gli altri vizi denunziati dal ricorrente in relazione alla materiale esecuzione del sequestro, nella forma del sequestro per equivalente, sui beni del F.N. e non nella forma del sequestro diretto sui beni della T. Sri costituenti il profitto del reato contestato.
E’, infatti, di tutta evidenza che, una volta che è stato documentato dal Pm l’avvenuta dichiarazione di fallimento della società amministrata dal F.N., sarebbe stato, in assenza di specifiche e documentate ragioni che lo avessero giustificato, esercizio sostanzialmente ozioso quello di andare a ricercare nel patrimonio della predetta società il profitto del reato, essendo del tutto verosimile che la stessa, già insolvente rispetto ai propri creditori e con quanto restante del suo patrimonio asservito agli interessi della procedura fallimentare, non fosse soggetto giuridico avente ancora la disponibilità del profitto del reato contestato al suo amministratore.
Al riguardo, si osserva, con ciò dando ragione anche del terzo motivo di impugnazione, che, avendo il Pm documentato l’avvenuto fallimento della T. Sri, egli ha adeguatamente fornito gli elementi probatori e di giudizio che hanno consentito, proprio in ragione dello stato di dissesto in cui si trovava il soggetto direttamente beneficiario dell’illecito in ipotesi commesso, di procedere al sequestro per equivalente nei confronti del F.N., avendo, attraverso la dimostrazione di cui sopra, il Pm esaurito l’onere probatorio su di lui gravante al riguardo.
E’, peraltro, chiaro che, laddove il ricorrente avesse, nelle opportune sedi di merito, fornito elementi tali da far ritenere che, ad onta della documentata insolvenza della T. Srl, questa aveva, invece, ancora la disponibilità di beni immediatamente riconducibili al profitto del reato in questione, sarebbe stato dovere del Tribunale del riesame revocare il sequestro per equivalente data la natura sussidiaria di tale strumento (sul punto, infatti, cfr: Corte di cassazione, Sezione III penale, 15 ottobre 2018, n. 46709, ove è precisato che il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, non basandosi sul nesso di pertinenzialità della res rispetto al reato, è legittimo soltanto se i proventi dell’illecito non sono rinvenuti nella sfera giuridico – patrimoniale dell’indagato o, nel caso di reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, non sono rinvenuti nella sfera patrimoniale dell’ente nel cui interesse il reato tributario è stato commesso, dovendo farsi ricorso a questo istituto solo quando non sia possibile procedere al sequestro diretto del profitto, del prodotto o del prezzo del reato); ma, con riferimento alla presente fattispecie, siffatta prova non è stata assolutamente fornita, essendosi il ricorrente limitato a sostenere che sarebbe stato onere del Pm dimostrare la impossibilità di eseguire il sequestro nella sua forma diretta e non per equivalente; onere che, come sopra evidenziato, il Pm ha in realtà adeguatamente esaurito dimostrando la insolvenza della ricordata T..
La rilevata infondatezza dei motivi di ricorso determina il rigetto dell’impugnazione proposta dal F.N. e pertanto questi, visto l’art. 616 cod. proc. pen., deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il corrente al pagamento delle spese processuali.
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