CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 48674 depositata il 22 dicembre 2022
Riparazione per ingiusta detenzione – Violazione del termine ragionevole del processo – Tentativo di introduzione e di investimento in Italia di ingenti somme di denaro di sospetta provenienza – Guadagni incompatibili con lo svolgimento della professione di avvocato – Rigetto
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza dell’8 settembre 2021 la Corte di appello di Roma ha rigettato l’istanza di riparazione per ingiusta detenzione proposta da C.A. e dichiarato inammissibile l’istanza di riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, condannando l’istante al pagamento delle spese processuali in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
1.1. Il C. era stato sottoposto a custodia cautelare in carcere a far data dal 15 luglio 2008, in esecuzione di un’ordinanza emessa dal G.I.P. del Tribunale di Roma per il reato di concorso in tentato riciclaggio aggravato dal metodo mafioso, di cui agli artt. 110, 112, 56, 648-bis cod. pen. e 7 legge 12 luglio 1991, n. 203.
Annullato il suddetto provvedimento cautelare con ordinanza del Tribunale del riesame del 6 agosto 2008 — annullamento poi confermato dalla Corte di Cassazione con pronuncia del 27 novembre 2008 -, la misura della custodia in carcere era stata successivamente ripristinata il 7 agosto 2009, in esecuzione di una nuova ordinanza cautelare emessa dal G.I.P. del Tribunale di Roma in data 22 aprile 2009.
L’11 novembre 2010, quindi, il C. era stato assolto, ai sensi dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen., dal G.U.P. del Tribunale di Roma perché il fatto non sussiste, e tale decisione era stata, infine, confermata dalla locale Corte di appello con sentenza del 23 maggio 2018, irrevocabile il 16 ottobre 2018.
2. Per la Corte di appello di Roma, quale giudice della riparazione, le sentenze di merito, pur avendo in ultimo escluso la sussistenza della contestata ipotesi delittuosa, hanno comunque consentito di ritenere giudizialmente accertata la sussistenza di diversi comportamenti riferibili al C. costituenti colpa grave ostativa alla riparazione, tra cui, in particolare: i plurimi e costanti rapporti avuti con i coindagati D.C. e D., finalizzati allo svolgimento di operazioni bancarie riguardanti una provvista di denaro di provenienza illecita; il tentativo di introduzione e di investimento in Italia di ingenti somme di denaro di sospetta provenienza; i cospicui guadagni prospettati al C., incompatibili con lo svolgimento della sua professione di avvocato;
la conoscenza da parte di costui della provenienza illecita del denaro da reinvestire; la piena consapevolezza del contesto delinquenziale entro cui il D. si trovava ad operare.
3. Avverso l’ordinanza di rigetto dell’istanza di riparazione ha proposto ricorso per cassazione C.A., a mezzo del suo difensore, deducendo la palese erroneità della decisione impugnata.
Ed infatti, dettagliatamente ricostruita la vicenda processuale ed i contenuti delle varie decisioni liberatorie pronunciate in suo favore, altresì dando atto dei principi giurisprudenziali regolanti la materia, il ricorrente ha lamentato che la Corte di appello non avrebbe adeguatamente approfondito la circostanza per cui vi sarebbe stata un’insussistenza ab origine delle condizioni ex artt. 273 e 280 cod. proc. pen. indispensabili per l’applicazione della misura custodiale inflittagli.
Il C., infatti, è stato assolto per insussistenza del fatto, e dunque con formula liberatoria piena, derivante dall’avvenuto accertamento della totale mancanza di ricorrenza degli elementi di fatto costitutivi dell’imputazione contestatagli.
I singoli comportamenti posti in essere dall’istante, debitamente ricostruiti nelle sentenze assolutorie di merito, paleserebbero, all’evidenza, l’impossibilità di ravvisare un’ipotesi di dolo o colpa grave idonea a determinare l’inaccoglibilità dell’istanza di riconoscimento dell’indennità per indebita detenzione.
3. Il Procuratore generale ha rassegnato conclusioni scritte, con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.
Considerato in diritto
1. Il ricorso non è fondato, per cui lo stesso deve essere rigettato.
2. Deve, in proposito, essere premesso che è principio giurisprudenziale consolidato quello per cui nei procedimenti per la riparazione per ingiusta detenzione la cognizione della Corte di Cassazione deve intendersi limitata alla sola legittimità del provvedimento impugnato, anche sotto l’aspetto della congruità e logicità della motivazione, non potendo mai investire il merito della stessa, in ragione di quanto disposto dall’art. 646, comma 3, cod. proc. pen., da ritenersi applicabile in ragione del richiamo contenuto nel terzo comma dell’art. 315 cod. proc. pen. (cfr., ex multis, Sez. 4, n. 542 del 21/04/1994, Bollato, Rv. 198097-01).
3. Chiarito il superiore aspetto, deve, poi, essere ribadito che la norma dell’art. 314 cod. proc. pen. prevede, al primo comma, che «chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave».
3.1. In tema di equa riparazione per ingiusta detenzione, dunque, costituisce causa impeditiva all’affermazione del diritto alla riparazione l’avere l’interessato dato causa, per dolo o per colpa grave, all’instaurazione o al mantenimento della custodia cautelare (art. 314, comma 1, ultima parte, cod. proc. pen.); l’assenza di tale causa, costituendo condizione necessaria al sorgere del diritto all’equa riparazione, deve essere accertata d’ufficio dal giudice, indipendentemente dalla deduzione della parte (cfr., sul punto, Sez. 4, n. 4106 del 13/01/2021, M., Rv. 280390-01; Sez. 4, n. 34181 del 05/11/2002, Guadagno, Rv. 226004-01).
3.2. In proposito, le Sezioni Unite di questa Corte hanno da tempo precisato che, in tema di presupposti per la riparazione dell’ingiusta detenzione, deve intendersi dolosa – e conseguentemente idonea ad escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo, ai sensi dell’art. 314, primo comma, cod. proc. pen. – non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell’id quod plerumque accidit secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo (Sez. U, n. 43 del 13/12/1995, dep. 1996, Sarnataro, Rv. 203637-01).
3.3. Poiché, inoltre, la nozione di colpa è data dall’art. 43 cod. pen., deve ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, ai sensi del suddetto primo comma dell’art. 314 cod. proc. pen., quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, determini, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso.
3.4. In altra successiva condivisibile pronuncia è stato affermato, quindi, che il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione non spetta se l’interessato ha tenuto consapevolmente e volontariamente una condotta tale da creare una situazione di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria o se ha tenuto una condotta che abbia posto in essere, per evidente negligenza, imprudenza o trascuratezza o inosservanza di leggi o regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una prevedibile ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso (così, espressamente, Sez. 4, n. 43302 del 23/10/2008, Malsano, Rv. 242034-01; ma cfr. anche, in termini conformi, Sez. 3, n. 51084 del 11/07/2017, Pedetta, Rv. 271419-01).
3.5. Le Sezioni Unite, poi, hanno affermato che il giudice, nell’accertare la sussistenza o meno della condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, consistente nell’incidenza causale del dolo o della colpa grave dell’interessato rispetto all’applicazione del provvedimento di custodia cautelare, deve valutare la condotta tenuta dal predetto sia anteriormente che successivamente alla sottoposizione alla misura e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico (Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, D’Ambrosio, Rv. 247664-01). Più recentemente, lo stesso Supremo Collegio ha precisato che in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, ai fini del riconoscimento dell’indennizzo può anche prescindersi dalla sussistenza di un “errore giudiziario”, venendo in considerazione soltanto l’antinomia “strutturale” tra custodia e assoluzione, o quella “funzionale” tra la durata della custodia ed eventuale misura della pena, con la conseguenza che, in tanto la privazione della libertà personale potrà considerarsi “ingiusta”, in quanto l’incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacché, altrimenti, l’indennizzo verrebbe a perdere ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la ratio solidaristica che è alla base dell’istituto (così Sez. U, n. 51779 del 28/11/2013, Nicosia, Rv. 257606-01).
4. Orbene, adeguando gli indicati principi al caso di specie, risulta palese la congruità dell’impugnata decisione, considerato che la condotta posta in essere da C. A., per cui lo stesso è stato sottoposto a misura custodiale, presenta indubbi profili di colpa grave, ostativa al riconoscimento del suo diritto alla riparazione.
Il comportamento del C., cioè, appare tale da aver certamente creato i presupposti, e quindi reso prevedibile, l’intervento dell’autorità giudiziaria – poi sostanziatosi nell’adozione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale – così da impedire, in applicazione dei principi resi da questa Corte (anche a Sezioni Unite), il riconoscimento dell’invocato beneficio.
E’ stato già evidenziato, infatti, come risulti giudizialmente accertato che, in esito alle risultanze scaturite dalle operazioni di captazione svolte nell’ambito di una più ampia indagine contro la criminalità organizzata, vi fossero stati plurimi e perduranti rapporti del C. con i coindagati D.C. e D., in concorso con i quali aveva effettuato diverse operazioni bancarie riguardanti una provvista di denaro di provenienza illecita, originariamente ritenuta riferibile ad associazioni mafiose operanti nel territorio di Caserta.
La Corte territoriale ha, in particolare, evidenziato, con motivazione logica e congrua, come la sentenza di assoluzione del C. fosse stata unicamente fondata sulla carenza di prova in ordine alla riferibilità della provvista di denaro all’illecita attività svolta dall’associazione criminosa, pur tuttavia evidenziando plurimi comportamenti posti in essere dall’imputato, chiaramente rappresentati nelle sentenze assolutorie di merito, integranti una colpa grave ostativa alla riparazione, in quanto tali da aver influenzato il giudice della cautela nell’applicazione e nel mantenimento della misura custodiale.
L’ordinanza impugnata ha debitamente rappresentato, con argomentazioni esenti da vizio alcuno, come sia risultato giudizialmente comprovato: lo stretto rapporto avuto dal C. con il D.C. ed il D.; il tentativo di introduzione e di investimento in Italia di ingenti somme di denaro di sospetta provenienza; i cospicui guadagni prospettati all’imputato, incompatibili con lo svolgimento della sua professione di avvocato; la conoscenza da parte del C. della provenienza illecita del denaro da reinvestire; la piena consapevolezza del contesto delinquenziale in cui il D. si trovava ad operare.
5. Alla stregua degli indicati elementi, allora, deve conclusivamente ritenersi che il provvedimento impugnato si pone in termini di piena conformità rispetto ai principi interpretativi delineati dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità in ordine alla valutazione dei fattori colposi ostativi al riconoscimento dell’indennizzo in tema di riparazione per ingiusta detenzione, peraltro avendo proceduto la Corte distrettuale ad una corretta valutazione del comportamento posto in essere dal richiedente, secondo una valutazione ex ante, in cui è stato tenuto conto degli elementi conosciuti dall’autorità giudiziaria al momento dell’adozione della misura cautelare e sino al momento di cessazione della stessa.
La Corte di appello, cioè, ha ritenuto, con motivazione del tutto immune dalle dedotte censure, che l’esponente avesse concorso a dare causa alla misura cautelare a suo carico, e al mantenimento della stessa, in ragione di tutte le circostanze diffusamente rappresentate nel provvedimento impugnato.
6. In esito alle superiori considerazioni, allora, deve essere pronunciato il rigetto del ricorso, cui consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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