CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 4973 depositata l’ 11 febbraio 2022
Professionista – Affidamento dell’incarico di predisporre e presentare la dichiarazione annuale dei redditi – Omissione – Responsabilità penale – Prova del dolo specifico di evasione
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza 26.10.2020, la Corte d’appello di Torino confermava la sentenza emessa in data 17.07.2019 dal tribunale di Vercelli, appellata dal L., che lo aveva condannato per il reato omessa dichiarazione (art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000), per avere omesso – quale I.r. della Macelleria P. s.a.s. di L. L. & c., avente ad oggetto il commercio al dettaglio di carni, al fine di evadere le II.DD. e superando la prevista soglia di punibilità -, di presentare la relativa dichiarazione in riferimento all’anno di imposta 2014, con evasione di imposta pari ad € 126.410,00 (termine deposito dichiarazione 31.12.2015), fatti per i quali era stato condannato in primo grado alla pena di 1 anno e 6 mesi di reclusione, oltre alle pene accessorie di legge ex art. 12, d. Igs. n. 74 del 2000 ed alla confisca della somma pari al profitto del reato ex art. 12-bis, d. Igs. n. 74 del 2000.
2. Avverso la sentenza il ricorrente ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia, articolando due motivi.
2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge quanto all’erronea valutazione circa la sussistenza del dolo generico in capo all’imputato, ex art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000.
In sintesi, si duole la difesa del ricorrente per aver i giudici di appello operato una sorta di “copia-incolla” della decisione di primo grado, che aveva fondato il giudizio di condanna richiamando una decisione di questa Corte (n. 37856/2015), secondo cui a concretizzare la violazione della norma è sufficiente il solo dolo generico. Tuttavia, si sostiene in ricorso, non sarebbe stato esaminato né motivato in sentenza se nella specie detto dolo generico potesse dirsi sussistente.
Diversamente, si aggiunge, ove si fosse operata una valutazione corretta e precisa, si sarebbe dovuti pervenire alla conclusione che il dolo generico non poteva dirsi sussistere, in quanto la presentazione della dichiarazione dei redditi avrebbe comportato un danno all’imputato e non certo un guadagno, essendosi in sede di verifica della GdF accertata la piena correttezza dei dati indicati. Il L. si era affidato ad un professionista di fiducia, tale E., per dichiarare i propri redditi, ma la sua situazione patrimoniale si era rivelata assolutamente conforme ai dati indicati, donde l’assenza del dolo generico normativamente richiesto.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di mancanza della motivazione in punto di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
In sintesi, la difesa sostiene che i giudici di appello avrebbero omesso qualsivoglia motivazione in merito al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, con requisitoria scritta datata 8.12.2021, le cui conclusioni sono state reiterate all’udienza odierna, ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile per genericità e perché manifestamente infondato.
2. È anzitutto affetto da genericità per aspecificità, in quanto non si confronta con le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata che confutano in maniera puntuale e con considerazioni del tutto immuni dai denunciati vizi motivazionali le identiche doglianze difensive svolte nel motivo di appello (che, vengono, per così dire “replicate” in questa sede di legittimità senza alcun apprezzabile elementi di novità critica), esponendosi quindi al giudizio di inammissibilità.
Ed invero, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
3. Lo stesso è inoltre da ritenersi proposto per motivi non consentiti dalla legge, in quanto non scanditi da necessaria critica analisi delle argomentazioni poste a base della decisione impugnata, risolvendosi invero in una critica sterile e non argomentata delle ragioni per le quali la sentenza sarebbe affetta dai dedotti vizi.
Ed invero, dall’esame congiunto delle sentenze di primo grado e di appello (che, com’è noto si integrano reciprocamente: Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 – dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595), risulta palese la manifesta infondatezza di entrambi i motivi, atteso che la Corte d’appello, con percorso argomentativo immune da vizi logici, indica nell’impugnata sentenza le ragioni per le quali ha ritenuto, da un lato, di dover escludere la fondatezza della tesi difensiva circa l’assenza del dolo generico in capo all’imputato per aver affidato al proprio commercialista gli adempimenti dichiarativi, e, dall’altro, di dover escludere la possibilità di riconoscere al ricorrente le invocate circostanze attenuanti generiche.
4. Ed invero, quanto al primo motivo, i giudici di appello, nel rispondere all’argomentazione difensiva (secondo cui il ricorrente, conferendo l’incarico al proprio commercialista, tale E., non avrebbe potuto essere chiamato a rispondere sotto il profilo soggettivo del reato di omessa dichiarazione), si conformano correttamente alla giurisprudenza di questa Corte che ha, infatti, a più riprese affermato che in tema di reati tributari, la prova del dolo specifico di evasione, nel delitto di omessa dichiarazione (art. 5, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74), può essere desunta dall’entità del superamento della soglia di punibilità vigente, unitamente alla piena consapevolezza, da parte del soggetto obbligato, dell’esatto ammontare dell’imposta dovuta (Sez. 3, n. 18936 del 19/01/2016 – dep. 06/05/2016, Rv. 267022 — 01).
4.1. Deve, a tal proposito, essere evidenziato come l’obbligo della presentazione della dichiarazione dei redditi incombe direttamente sul contribuente e, in caso di persone giuridiche, su chi ne abbia la legale rappresentanza, tenuto a sottoscrivere la dichiarazione a pena di nullità (art. 1, comma 4, d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322). Il fatto che il contribuente possa avvalersi di persone incaricate della materiale predisposizione e trasmissione della dichiarazione (art. 3, commi 3 e 3- bis, d.P.R. n. 322 del 1998, cit.) non vale a trasferire su queste ultime l’obbligo dichiarativo che fa carico direttamente al contribuente il quale, in caso di trasmissione telematica della dichiarazione, è comunque obbligato alla conservazione della copia sottoscritta della dichiarazione (art. 1, comma 6, d.P.R. n. 322 del 1998). L’adempimento formale, dunque, fa carico al contribuente il quale deve essere a conoscenza delle relative scadenze e può anche giovarsi, a fini penali, del termine di 90 giorni concesso dalla legge in caso di infruttuoso superamento del termine (artt. 2, comma 7, d.P.R. n. 322 del 1998 e 5, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000). Ne consegue che il solo fatto di aver affidato ad un professionista, già incaricato della tenuta della contabilità, il compito di predisporre e trasmettere la dichiarazione dei redditi, non è circostanza che giustifichi di per sé la violazione dell’obbligo o possa escludere la consapevolezza della inutile scadenza del termine. Questa Corte di legittimità ha avuto modo di rilevare come solo la forza maggiore può giustificare tale omissione (sez. 3 n. 3928 del 25.2.1991, Pasquino, rv. 186784), ma nella valutazione della sua sussistenza non si può prescindere dal fatto che il contribuente ha, come detto, 90 giorni di tempo dalla scadenza del 4 termine per adempiere all’obbligo. L’affidamento ad un professionista dell’incarico di predisporre e presentare la dichiarazione annuale dei redditi non esonera infatti il soggetto obbligato dalla responsabilità penale per il delitto di omessa dichiarazione (art. 5, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74), in quanto, trattandosi di reato omissivo proprio, la norma tributaria considera come personale ed indelegabile il relativo dovere; tuttavia, la prova del dolo specifico di evasione non deriva dalla semplice violazione dell’obbligo dichiarativo nè da una “culpa in vigilando” sull’operato del professionista che trasformerebbe il rimprovero per l’atteggiamento antidoveroso da doloso in colposo, ma dalla ricorrenza di elementi fattuali dimostrativi che il soggetto obbligato ha consapevolmente preordinato l’omessa dichiarazione all’evasione dell’imposta per quantità superiori alla soglia di rilevanza penale (Sez. 3, n. 37856 del 18/06/2015 – dep. 18/09/2015, Rv. 265087 – 01). In altra pronuncia, precedente, affermando lo stesso principio, la Corte aveva precisato che una diversa interpretazione, che trasferisca il contenuto dell’obbligo in capo al delegato, finirebbe per modificare l’obbligo originariamente previsto per il delegante in mera attività di controllo sull’adempimento da parte del soggetto delegato (sez. 3, n. 9163 del 29.10.2009 dep. 18.3.2010, Lombardi, rv. 246208). Gli obblighi fiscali, infatti, hanno carattere strettamente personale e non ammettono sostituti ed equipollenti poiché essi rispondono ad una speciale finalità di diritto tributario, quale quella di colpire il complesso dei redditi tassabili. Pertanto, i predetti obblighi non possono considerarsi adempiuti dal contribuente con il semplice conferimento dell’incarico ad uno studio professionale, dato che ciò comporterebbe una estrema facilità di evasione (sez. 3, n. 116 del 3.11.1983 dep. Il 6.1.1984, Taiano, rv. 162025).
4.2. Nel caso di specie, i giudici di appello, richiamando correttamente quanto già espresso nella sentenza di prime cure, hanno evidenziato come il L. non fosse stato vittima di un errore professionale da parte del proprio commercialista, per una serie di concrete ragioni (il commercialista presentava la denuncia di sinistro all’assicurazione professionale due anni dopo rispetto alla scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione e in coincidenza con l’esecuzione del sequestro preventivo disposto dal GIP; il L. ometteva di presentare anche la propria dichiarazione dei redditi per l’anno 2014; il tentativo di dedurre costi non più inerenti all’attività esercitata, con riferimento ai punti vendita oggetto di cessione di ramo di azienda cui, tuttavia, non seguiva la dichiarazione di cessazione di attività; l’omissione della dichiarazione IVA ed IRAP anche per l’anno 2015, successivo a quello in contestazione).
In particolare, a rafforzare il convincimento dei giudici di appello circa la responsabilità del ricorrente, nonché della sua volontà di non presentare la dichiarazione al fine di evadere le imposte, milita, come si legge in sentenza, la circostanza, desunta dal comportamento successivo del reo, desumibile dal mancato pagamento delle imposte dovute e non dichiarate non solo per l’anno in contestazione, ma anche per l’anno 2015.
4.3. Orbene, al cospetto di tale apparato argomentativo, le doglianze del ricorrente si appalesano manifestamente infondate, in quanto si risolvono nel “dissenso” sulla ricostruzione dei fatti e sulla valutazione delle emergenze processuali svolta dai giudici di merito, operazione vietata in sede di legittimità, attingendo la sentenza impugnata e tacciandola per un presunto vizio di erronea valutazione in punto di elemento soggettivo con cui, in realtà, si propone una doglianza non suscettibile di sindacato da parte di questa Corte; deve, sul punto, ribadirsi infatti che il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, ne’ deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (v., tra le tante: Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999 – dep. 31/01/2000, Moro, Rv. 215745). E sotto tale profilo la decisione non merita censura.
5. Ad analogo approdo deve pervenirsi quanto all’ulteriore vizio dedotto, afferente all’asserita mancanza di motivazione in ordine all’invocato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Non risponde alla realtà processuale, infatti, quanto dedotto dalla difesa del ricorrente, posto che alle pagg. 4/5 della sentenza impugnata, i giudici di appello prendono espressamente posizione sulla questione, in particolare reputando il collegio di appello che, considerata la complessiva gravità oggettiva e soggettiva del reato ed i precedenti penali dell’imputato la pena inflitta in primo grado appariva del tutto equa e di giustizia ex art. 133, c.p., non essendo la stessa suscettibile, ad avviso della Corte territoriale, di ulteriore riduzione.
L’aver i giudici d’appello affrontato espressamente la doglianza afferente il motivo di appello sul mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, peraltro con motivazione scevra da qualsivoglia vizio motivazionale (atteso che, per giurisprudenza costante, al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può risultare all’uopo sufficiente: da ultimo, V. Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020 – dep. 12/08/2020, Rv. 279549 — 02), rende evidente la manifesta infondatezza del secondo motivo.
Può invero ritenersi sussistere il vizio di mancanza di motivazione in due ipotesi: a) quando il giudice abbia omesso di indicare gli elementi dai quali ha tratto il proprio convincimento (difetto di motivazione intrinseca); b) ovvero abbia trascurato di prendere in considerazione elementi di decisiva rilevanza, tali, cioè, da far ritenere che, se li avesse esaminati, sarebbe potuto pervenire a diversa conclusione (difetto di motivazione estrinseca). Ed è evidente, nella sentenza impugnata, l’assenza di qualsivoglia vizio di assenza motivazionale nei termini indicati.
6. L’inammissibilità del ricorso determina, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento a favore della Cassa delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma ritenuta equa di C 3.000,00 a titolo di sanzione pecuniaria.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.