Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 50002 depositata l’ 11 dicembre 2019

omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali – causa di non punibilità

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 27.2.2019 la Corte di Appello di Milano ha confermato la penale responsabilità di G.A. per il reato di cui all’art. 2, comma 1 bis d. lgs. 463/1983 convert. nella L. 638/1983 per aver, in qualità di legale rappresentante della Studio G. s.r.l. in liquidazione, omesso di versare le ritenute previdenziali ed assistenziali sulle retribuzioni dei dipendenti negli anni 2011, 2012 e 2013 nella misura di oltre complessivi € 52,000, ma, avendo dichiarato estinto per prescrizione il reato relativo all’annualità del 2010 ed avendo concesso le generiche nella massima estensione, ha rideterminato la pena inflittagli all’esito del primo grado di giudizio in quattro mesi di reclusione ed € 300,00 di multa.

2. Avverso il suddetto provvedimento l’imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando tre motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all’art. 173 disp.att. cod.proc.pen.

2.1. Con il primo motivo lamenta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 507 cod. proc. pen. e al vizio motivazionale, la mancata acquisizione di ufficio dei dati dei dipendenti della società per verificare se vi fossero retribuzioni non corrisposte e quale ne fosse l’ammontare, evidenziando che la società era stata dichiarata fallita nel 2017, che vi era una differenza tra le cifre non corrisposte dichiarate dalla funzionaria INPS sentita come teste pari ad € 63.734,00 e quelle indicate nel capo di imputazione in complessivi € 64.186,00 e che la difesa era stata impossibilitata a svolgere indagini stante la mancata risposta dell’ente previdenziale alle proprie richieste specifiche. Deduce che del tutto inadeguata era la risposta alla propria richiesta di rinnovazione istruttoria resa dalla Corte di Appello che, nell’affermare che erano sufficienti i modelli DM 10 sul piano probatorio e che sarebbe stato onere della difesa provare quale fosse effettivamente il numero dei dipendenti cui non erano state versate le ritenute così come le cifre omesse, aveva finito con l’invertire l’onere della prova e lasciato aperto il ragionevole dubbio ex art. 533 cod. proc. pen..

2.2. Con il secondo motivo censura, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 131 bis cod. pen. e al vizio motivazionale, l’omessa risposta data dalla Corte di Appello alla doglianza che valorizzava la ritenuta continuazione tra i reati riferiti alle diverse annualità considerando le singole omissioni come un unico episodio legato alla crisi in cui versava la società anche in relazione ad un precedente arresto di questa Corte secondo la quale la causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto è applicabile anche ai reati abituali ed a quelli eventualmente abituali a condizione che ciascuna condotta, isolatamente considerata, sia di lieve entità (Sez. 3, n.38849 del 5.4.2017)

2.3. Con il terzo motivo lamenta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito agli artt. 62-bis e 133 cod. pen. e al vizio motivazionale, il mancato contenimento della pena nel minimo edittale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo deve ritenersi manifestamente infondato.

Vero è che il pagamento delle retribuzioni al personale dipendente costituisce il presupposto del reato di omesso versamento delle relative ritenute previdenziali ed assistenziali contestato all’imputato per le mensilità di cui all’imputazione e che trattandosi di elemento costitutivo del delitto la dimostrazione della sua sussistenza grava sulla pubblica accusa; tuttavia in forza del consolidato orientamento giurisprudenziale l’onere incombente sul pubblico ministero di dimostrare l’avvenuta corresponsione delle retribuzioni ai lavoratori dipendenti ben può essere assolto sia mediante il ricorso a prove documentali che testimoniali quanto attraverso il ricorso alla prova indiziaria ivi compresa la presentazione da parte del datore di lavoro degli appositi modelli DM 10 i quali, attestando le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e l’ammontare degli obblighi contributivi, sono valutabili, in assenza di elementi di segno contrario, come prova della effettiva corresponsione degli emolumenti ai lavoratori (Sez.3, n. 21619 del 14/04/2015,Rv.263665; Sez. 3, n. 37330 del 15/07/2014, Rv. 259909). I suddetti modelli contenenti la dichiarazione delle retribuzioni corrisposte al personale dipendente, sulle quali si determinano le quote da versarsi direttamente all’ente previdenziale, risultano compilati direttamente dal datore di lavoro, ragione per la quale si ritiene, secondo l’univoco orientamento di questa Corte, che abbiano natura ricognitiva della situazione debitoria dell’obbligato, la loro presentazione equivalendo all’attestazione di aver corrisposto, fino a prova contraria, le retribuzioni in relazione alle quali è stato omesso il versamento dei contributi (Sez. 3, n. 21619 del 14/04/2015 – dep. 25/05/2015, Moro, Rv. 263665). Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi allorquando la suddetta documentazione, anziché provenire dal datore di lavoro, sia generata dalle procedure informatiche dell’INPS, pur sempre sulla base dei dati forniti dallo stesso contribuente, trattandosi del risultato, sulla base del sistema UNIEMENS, delle denunce individuali e della denuncia aziendale contenente il riepilogo delle prime. Esattamente come gli appositi modelli attestanti le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e gli obblighi contributivi verso l’istituto previdenziale, anche i fac simili, che hanno lo stesso contenuto del DM 10 cartaceo, hanno natura ricognitiva della situazione debitoria del datore di lavoro (Sez. 3, n. 42715 del 28/06/2016 – dep. 10/10/2016, Franzoni, Rv. 267781).

Correttamente la Corte distrettuale ha desunto dalla trasmissione dei modelli DM10 da parte dell’imputato e dalla conferma dell’omesso versamento da parte della funzionaria dell’INPS, sentita come teste, la prova del reato, nessun ulteriore onere probatorio gravando sull’accusa, alla luce della mancata evidenziazione di elementi contrari forniti dalla difesa che peraltro non risulta aver svolto, così come si ricava dai motivi di appello riprodotti nella sentenza impugnata non fatti oggetto di censura, alcuna richiesta volta a sollecitare l’esercizio del potere officioso di rinnovazione istruttoria. Del tutto irrilevante risulta il numero dei lavoratori ai quali si riferisce la condotta omissiva penalmente sanzionata la quale si perfeziona in ragione dell’entità della somma annualmente non versata, indipendentemente dal numero dei dipendenti cui l’omissione è riferita e conseguentemente dai loro nominativi, spettando semmai alla difesa fornire la prova del mancato versamento della retribuzione a taluno di essi o quantomeno dedurre la specifica circostanza impeditiva del perfezionamento del reato.

Quanto all’eccepita discrasia tra le somme contestate e quelle riferite dalla funzionaria INPS, trattasi di doglianza meramente fattuale, non risultandone alcuna evidenza dalla sentenza impugnata, né essendo stato riprodotto il contenuto della relativa deposizione o allegato il relativo atto con conseguente carenza sotto tale profilo dell’autosufficienza del ricorso.

2. Il secondo motivo risulta anch’esso manifestamente infondato.

I giudici del gravame hanno messo in luce quale causa ostativa al riconoscimento dell’invocata causa di non punibilità, con motivazione logicamente ineccepibile, il numero delle mensilità nelle quali la condotta omissiva si è verificata, che coprono l’arco temporale di ben tre annualità, unitamente all’elevato margine di scostamento dalla soglia di punibilità prevista dall’art. 2 L. 638/1983, pari ad una media di circa il 20%. Dal momento che i suddetti elementi sono di per sé valevoli ad escludere la particolare tenuità dell’offesa, condizione questa richiesta, congiuntamente e non alternativamente, come si desume dal tenore letterale del primo comma dell’art. 131 bis cod. pen., alla non abitualità della condotta, la motivazione in esame deve ritenersi di per sé adeguata a supportare il rigetto della causa di non punibilità.

In ogni caso la circostanza che i reati in esame siano stati ritenuti avvinti dal vincolo della continuazione, sulla quale si incentra la contestazione difensiva, non può ritenersi ostativa al diniego dell’art. 131 bis cod. pen. posto che anche il reato continuato configura un’ipotesi di “comportamento abituale”, ostativa al riconoscimento del beneficio essendo la reiterazione di condotte penalmente rilevanti il segno di una devianza non occasionale, avuto riguardo alla continuazione diacronica tra i singoli reati, posti in essere in momenti distinti, sebbene frutto di un’unica e circoscritta volizione delittuosa (Sez. 3, n. 19159 del 29/03/2018 – dep. 04/05/2018, Fusaro, Rv. 273198): in tale evenienza, è la stessa norma a considerare il “fatto”, secondo una valutazione complessiva in cui perde rilevanza l’eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si articola, connotato, nella sua dimensione “plurima”, da una gravità tale da escluderne alla radice la minima offensività. Ed invero proprio una lettura non superficiale del disposto dell’art. 131 bis, co. 3 c.p. non consente di applicare al caso in esame la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, posto che la menzionata disposizione normativa esclude, tra l’altro, di poter riconoscere siffatta causa in favore di chi abbia commesso più reati della stessa indole, anche nell’ipotesi in cui ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, ipotesi che non può ritenersi circoscritta ad un pregresso accertamento giudiziale, ovverosia a precedenti penali specifici dell’imputato non essendosi il legislatore espresso in termini di recidiva specifica, ma che è necessariamente estesa anche a condotte prese in considerazione nell’ambito del medesimo procedimento, il che amplia ulteriormente il numero di casi in cui il comportamento può ritenersi abituale. Seppure si registrino in seno a questa Corte pronunce in cui si nelle quali si afferma che, ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità della particolare tenuità del fatto, non osta la presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, qualora questi riguardano azioni commesse nelle medesime circostanze di tempo e di luogo, incompatibili con l’abitualità presa in considerazione in negativo dall’art. 131-bis cod. pen. (Sez. 5, n. 5358 del 15/01/2018 – dep. 05/02/2018, Corradini, Rv. 272109; Sez. 2, n. 19932 del 29/03/2017 – dep. 26/04/2017, Di Bello, Rv. 270320), in questi casi il presupposto delle assunte decisioni è che l’estemporaneità delle azioni poste in essere dal reo non possano, in ragione dell’identità delle circostanze di luogo e di tempo in cui i reati sono stati commessi, essere considerati espressione del carattere seriale dell’attività criminosa e dell’abitudine del soggetto a violare la legge, essendosi dato rilievo, sia pur nell’ambito del medesimo disegno criminoso, alla sostanziale unicità della condotta, stante la contemporanea e non già ripetuta nel tempo esecuzione delle distinte azioni delittuose, che, in quanto sorrette da un’unica e circoscritta volizione criminosa, è stata ritenuta non incompatibile con il concetto di estemporaneità dell’azione illecita rispetto alla positiva personalità del reo. Evenienza questa di certo non ricorrente nel caso in esame in cui si tratta della violazione della medesima disposizione di legge reiterata nel tempo e perciò configurante l’abitualità anche diacronica esclusa dall’indice-requisito, positivamente richiesto, del “comportamento non abituale”.

Inconferente risulta pertanto il richiamo effettuato dalla difesa alla pronuncia di questa Sezione n. 38849 del 05/04/2017, Alonzo, Rv. 271397 che al di là di ogni altro rilievo è riferita ad una fattispecie assolutamente peculiare, avuto riguardo all’univoco orientamento di questa Corte secondo cui Corte la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., non può essere applicata ai reati necessariamente abituali ed a quelli eventualmente abituali che siano stati posti in essere mediante reiterazione della condotta tipica (ex multis Sez. 3, n. 30134 del 05/04/2017 – dep. 15/06/2017, Dentice, Rv. 270255)

3. Il terzo motivo è inammissibile alla luce della genericità delle doglianze relative all’eccessività della pena inflitta, senza che neppure venga indicato alcun parametro che il Giudice del merito avrebbe dovuto valutare e che invece abbia inopinatamente tralasciato. E’ sufficiente in ogni caso ribadire l’univoco orientamento giurisprudenziale secondo il quale nel caso in cui venga irrogata, come è avvenuto nella fattispecie, una pena ai di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, rispondendo la sua quantificazione ad una valutazione complessiva improntata alla discrezionalità e non già ad un giudizio analitico sui vari elementi offerti dalla legge, non sindacabile nella presente fase di legittimità (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015 – dep. 23/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283; Sez. 2, n. 28852 del 08/05/2013 -dep. 08/07/2013, Taurasi e altro, Rv. 256464).

Il ricorso deve, in conclusione, essere dichiarato inammissibile.

Segue a tale esito la condanna del ricorrente, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali e, non sussistendo elementi, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale del 13 giugno 2000 n.186, per ritenere che abbia proposto la presente impugnativa senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento di una somma equitativamente liquidata in favore della Cassa delle Ammende

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di C 2.000 in favore della Cassa delle Ammende