Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 50009 depositata l’ 11 dicembre 2019
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Venezia, con sentenza del 1 marzo 2018, in parziale riforma della decisione del GUP del Tribunale di Vicenza emessa il 17 novembre 201 5 all’esito di giudizio abbreviato ed appellata da A.D., G.D., R.D., D.P., L.S. e V.S., ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dei predetti imputati in ordine ai reati loro rispettivamente iscritti ai capi 1, 2, 3,4, 6,7, 8, 9 e 10 perché estinti per prescrizione, rideterminando le pene loro inflitte in relazione ai residui reati di cui ai capi 5, 11 e 12 della rubrica, ordinando la confisca per equivalente di denaro, beni mobili e immobili nei termini indicati in dispositivo, confermando le statuizioni civili e riducendo la somma liquidata a titolo di provvisionale.
Gli imputati erano chiamati a rispondere dei reati di cui agli artt. 110 cod. pen., 2, 8 e 3 d.lgs. 74/2000. Le residue imputazioni, tutte riguardanti la violazione dell’art. 2 d.lgs. 74/2000, sono attinenti, quella di cui al capo 5, all’anno di imposta 2009, con accertamento effettuato il 29 settembre 2010; quella di cui al capo 11 all’anno di imposta 2010, con accertamento effettuato il 24 febbraio 2011 e quella indicata al capo 12 all’anno di imposta 2011, con accertamento effettuato il 29 febbraio 2012.
Avverso tale pronuncia i predetti propongono separati ricorsi per cassazione tramite il comune difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2. Occorre premettere che tutti i ricorsi presentano alcune censure di identico contenuto, che possono essere quindi considerate contestualmente.
Tutti i ricorrenti deducono, nel primo motivo di ciascun ricorso, l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, rilevando come la violazione contestata si consumi nel momento della presentazione della dichiarazione fiscale nella quale sono effettivamente inseriti o esposti elementi contabili fittizi.
In particolare, A.D. rileva che il reato a lui ascritto al capo 5 si sarebbe prescritto in data 29 marzo 2018 e la stessa data viene indicata da L.S. con riferimento al medesimo capo di imputazione.
G.D. indica anch’egli la medesima data con riferimento al capo 5 della rubrica, aggiungendo che il reato a lui contestato al capo 11 sarebbe prescritto in data 24 agosto 2018.
La medesima data, sempre riferita al capo 11, viene indicata anche da R.D. V.S. e D.P..
3. Anche il secondo motivo di ricorso è comune, in quanto tutti i ricorrenti denunciano la violazione di legge con riferimento all’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., osservando che già il primo giudice avrebbe dovuto rilevare l’inutilizzabilità delle prove dedotte dalla Procura della Repubblica, sostanziandosi le stesse esclusivamente nei processi verbali di constatazione dell’Agenzia delle Entrate – Sezione regionale antifrodi di Venezia.
Affermano che i funzionari accertatori dell’Agenzia delle Entrate avevano l’obbligo di interrompere l’accertamento e di informare il magistrato inquirente una volta rilevata la notizia di reato.
Aggiungono che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente interpretato il citato art. 220 qualificandolo come norma di raccordo e di cucitura fra le attività ispettiva e quella investigativa, la cui violazione non determina automaticamente l’inutilizzabilità, ai fini penali, degli elementi di prova, dichiarativi o documentali, acquisiti una volta superato il confine e rilevano che tale lettura nella norma contrasterebbe con la giurisprudenza di questa Corte, osservando, inoltre, come tutti gli atti posti in essere dall’ufficio antifrodi ed indicati nel processo verbale di constatazione non sarebbero utilizzabili perché, come emerge dallo stesso verbale, era chiara sin da subito, secondo quanto presupposto dai verbalizzanti, la sussistenza di elementi penalmente rilevanti.
Osservano, altresì, che la Corte territoriale avrebbe erroneamente rilevato un difetto di specificità nelle doglianze dedotte dagli appellanti per non avere gli stessi chiarito quali sarebbero gli atti non utilizzabili, in quanto già in sede di giudizio abbreviato, in una memoria depositata ai sensi dell’art. 121 cod. proc. pen., era stato precisato che, da pagina 14 del processo verbale di constatazione in poi, la documentazione doveva ritenersi afflitta da vizio insanabile per non avere i funzionari accertatori interrotto la verifica in corso, violando, quindi, i diritti della difesa.
4. Altro motivo di ricorso comune, contraddistinto dal numero 3 nei ricorsi di A.D., L.S. e G.D. e con il numero 4 nei ricorsi di R.D., V.S. e D.P. riguarda il vizio di motivazione, assumendo costoro che la sentenza impugnata risulterebbe contraddittoria laddove dapprima concorda con la difesa circa la natura dei processi verbali di constatazione e l’applicabilità dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen. e, successivamente, afferma di non essere d’accordo sulle conseguenze della violazione di quella norma.
Fanno dunque rilevare, richiamando la giurisprudenza, che non vi sarebbe alcun margine di discrezionalità circa le conseguenze della violazione, discendendone in ogni caso la completa inutilizzabilità degli atti.
Deducono, poi, che giudici del gravame avrebbero erroneamente ritenuto la genericità dell’impugnazione, con conseguente inammissibilità del motivo, perché, contrariamente a quanto ritenuto in sentenza, la difesa avrebbe fin da subito evidenziato l’inutilizzabilità dei processi verbali di constatazione da pagina 14 in poi, indicando, quindi, il momento in cui gli accertatori avevano travalicato le proprie funzioni determinando la inutilizzabilità degli atti.
5. Ulteriore motivo comune, contraddistinto dal numero 4 nei ricorsi di A.D. e L.S., trattato all’interno del terzo motivo del ricorso di G.D. e contraddistinto dal numero 5 nei restanti ricorsi, riguarda il riconosciuto diritto al risarcimento per danno all’immagine dell’Agenzia delle Entrate.
Osservano i ricorrenti che la sentenza risulterebbe sul punto carente, illogica e contraddittoria, in quanto, irragionevolmente e senza che sia stata data prova di alcun danno, avrebbe condannato al risarcimento e ciò anche in presenza di un indirizzo giurisprudenziale non univoco di cui la stessa Corte territoriale ha dato atto.
6. G.D. deduce altresì, nel secondo motivo di ricorso, la violazione di legge in relazione alla sua posizione di amministrazione di fatto, rilevando che la inutilizzabilità degli atti denunciata avrebbe dovuto condurre i giudici del merito ad una pronuncia assolutoria.
Assume, inoltre, che pur volendo considerare utilizzabili gli atti, tale posizione non sarebbe comunque dimostrata dalle dichiarazioni rese dalle persone sentite. Non sarebbe stata peraltro fornita alcuna dimostrazione di un eventuale contributo dell’imputato alla commissione dei reati fiscali contestati.
7. R.D., V.S. e D.P. formulano, nei rispettivi ricorsi, un ulteriore motivo, contraddistinto dal numero 3, nel quale denunciano la mancata assunzione di una prova decisiva, lamentando la mancata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale finalizzata, come richiesto nell’atto di appello, alla produzione di una consulenza tecnica avente ad oggetto la valutazione neuroscientifica attinente l’elemento soggettivo del reato.
Osservano, a tale proposito, che il giudice di primo grado avrebbe erroneamente ritenuto la consulenza ricadente nell’alveo del divieto di cui all’art. 220, comma 2 cod. proc. pen., qualificandola come perizia psicologica, mentre, invece, la giurisprudenza si sarebbe già pronunciata circa l’ammissibilità di questo tipo di perizia, in quanto l’apporto di conoscenza di carattere tecnico psicologico ai fini della determinazione della qualità ed estensione della partecipazione psicologica degli imputati al fatto contestato (consulenza sull’elemento soggettivo del reato) è cosa del tutto differente dalla perizia psicologica vietata dalla suddetta norma, differente proprio perché incentrata sulle diverse dimensioni dell’indagine psichica.
Aggiungono che la Corte territoriale avrebbe comunque omesso di motivare le ragioni per le quali non ha ritenuto di ammettere la consulenza.
Tutti insistono, pertanto, per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili per le ragioni di seguito specificate.
2. Va rilevato, con riferimento al motivo comune concernente l’art. 220 disp. att. cod. proc. pen. e la utilizzabilità degli atti, che questa Corte (Sez. 3, n. 54379 del 23/10/2018, Gamba, Rv. 274131; Sez. 3, n. 6881 del 18/11/2008 (dep. 2009), Ceragioli e altri, Rv. 242523; Sez. 3, n. 6218 del 17/4/1997, Cetrangolo, Rv. 208633; Sez. 3, n. 4432 del 10/4/1997, Cosentini, Rv. 208030; Sez. 3, n. 1969 del 21/1/1997, Basile, Rv. 206944; Sez. 3, n. 6251 del 15/5/1996, Caruso, Rv. 205514) ha già avuto modo di prendere in considerazione la natura del «verbale di costatazione» redatto da personale della Guardia di Finanza o dai funzionari degli Uffici Finanziari, rilevando che esso è qualificabile come documento extraprocessuale ricognitivo di natura amministrativa e, in quanto tale, acquisibile ed utilizzabile ai fini probatori ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen.
Si è anche osservato che non si tratta di un atto processuale, poiché non è previsto dal codice di rito o dalle norme di attuazione (art. 207); ne’ può essere qualificato quale «particolare modalità di inoltro della notizia di reato» (art. 221 disp. att. cod. proc. pen.), in quanto i connotati di quest’ultima sono diversi.
Si è tuttavia precisato che, nel momento in cui emergono indizi di reato e non meri sospetti, occorre, però, procedere secondo le modalità prescritte dall’art. 220 disp. att. cod. proc. pen, con la conseguenza che la parte di documento, compilata prima dell’insorgere degli indizi, ha sempre efficacia probatoria ed è utilizzabile, mentre non è tale quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di rito.
La richiamata disposizione stabilisce che «quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice».
A tale proposito questa Corte ha pure osservato (Sez. 3, n. 27682 del 17/06/2014, Palmieri, Rv. 259948) come, dalla semplice lettura della norma, emerga che essa presuppone, per la sua applicazione, un’attività di vigilanza o ispettiva in corso di esecuzione specificamente prevista da disposizioni normative e la sussistenza di indizi di reato emersi nel corso dell’attività medesima e solo in tal caso è richiesta l’osservanza delle disposizioni del codice di rito, ma soltanto per il compimento degli atti necessari all’assicurazione delle fonti di prova ed alla raccolta di quanto altro necessario per l’applicazione della legge penale.
Nella medesima decisione si è fatto anche rilevare come la disposizione, che va letta in relazione anche al successivo art. 223, relativo alle analisi di campioni da effettuare sempre nel corso di attività ispettive o di vigilanza ed alle garanzie dovute all’interessato, abbia lo scopo evidente di assicurare l’osservanza delle disposizioni generali del codice di rito dal momento in cui, in occasione di controlli di natura amministrativa, emergano indizi di reato, ricordando anche quella giurisprudenza secondo la quale presupposto dell’operatività della norma non è l’insorgenza di una prova indiretta quale indicata dall’art. 192 cod. proc. pen., quanto, piuttosto, la sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Sez. 2, n. 2601 del 13/12/2005 (dep. 2006), Cacace, Rv. 233330; Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001, Raineri, Rv. 220291).
Più recentemente, si è anche avuto modo di precisare ulteriormente che, tenendo conto del dato letterale dell’art. 220, risulta chiaramente che lo stesso si riferisce ad indizi di reato che emergono “nel corso” delle attività ispettive o di vigilanza, il che porta ad affermare che la cognizione circa la sussistenza di indizi di reità, ancorché non riferibili ad un soggetto specifico, deve risultare oggettivamente evidente a chi opera mentre effettua tale attività e non deve essere soltanto ipotizzata sulla base di mere congetture, né può ritenersi possibile, dopo che un reato è stato accertato, sostenere che chi effettuava il controllo avrebbe dovuto prefigurarsi quale ne sarebbe stato l’esito (Sez. 3, n. 1 6044 del 28/2/2019, Rossi, Rv. 275397 non massimata sul punto).
La giurisprudenza di questa Corte si è anche ripetutamente pronunciata sulle conseguenze della eventuale inosservanza della disposizione in esame, chiarendo che essa non determina automaticamente l’inutilizzabilità dei risultati probatori acquisiti nell’ambito di attività ispettive o di vigilanza, ma è necessario che l’inutilizzabilità o la nullità dell’atto sia autonomamente prevista dalle norme del codice di rito a cui l’art. 220 disp. att. rimanda e che, diversamente opinando, si giungerebbe a ritenere l’inutilizzabilità di tutti i risultati probatori e gli altri risultati della verifica dopo la comunicazione della notizia di reato, situazione, all’evidenza, priva di fondamento. Da ciò consegue, dunque, che non può dedursi la generica violazione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., essendo necessaria la specifica indicazione della violazione codicistica che avrebbe determinato l’inutilizzabilità con riguardo ai singoli atti compiuti e riportati nel processo verbale di constatazione redatto dalla medesima ( Sez. 3, n. 54379 del 23/10/2018, Gamba, Rv. 274131, cit.; Sez. 3, n. 6594 del 26/10/2016 (dep. 2017), Pelini e altro, Rv. 269299. V. anche Sez. 3, n. 5235 del 24/05/2016 (dep. 2017), Lo Verde, Rv. 269213).
Date tali generali premesse, deve anche rilevarsi che sulla specifica questione sollevata nei ricorsi questa Corte si è già occupata allorquando è stata impugnata, dagli odierni ricorrenti, l’ordinanza pronunciata dal Tribunale del riesame di Vicenza in relazione al sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, di somme e beni nella loro disponibilità in relazione ai reati oggetto della sentenza oggi impugnata (Sez. 3, n. 11499 del 11/2/2015, Pezzotti ed altri, non massimata)
Anche in quell’occasione era stata denunciata la violazione, da parte del Tribunale e del GIP, dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen. conseguente all’utilizzazione del processo verbale di constatazione anche laddove relativo a condotte – accertate in sede ispettiva o vigilanza – che già presentavano i connotati dell’illecito penale, affermandosi che, trattandosi di atti necessari per assicurare le fonti di prova, si sarebbero dovute osservare le disposizioni del codice di rito.
Questa Corte rilevava la infondatezza del motivo di ricorso, osservando come sulla questione si fosse già ampiamente diffuso il Tribunale del riesame.
Richiamata quindi la giurisprudenza in tema, si osservava che costituisce onere di chi eccepisce la violazione della norma precisare quali parti dei verbali siano state redatte dopo l’insorgere degli indizi di reato e, pertanto, in spregio alle disposizioni codicistiche e che gli stessi giudici del riesame avevano sottolineato come detto onere non fosse stato adempiuto dai ricorrenti, i quali si erano limitati ad una doglianza del tutto generica al pari di quella contenuta nei ricorsi, nei quali si affermava soltanto – in termini ritenuti oltremodo vaghi, attesa un’indagine durata diversi anni – che “nel PVC notificato l’Agenzia delle Entrate riferiva che sin da subito si manifestavano ipotesi di reato, ma non segnalava all’autorità giudiziaria la notitia criminis, anzi completava l’accertamento e solo successivamente inviava detta notitia in Procura, in totale violazione dell’art. 220 disp. att. c.p.p.”.
3. Ciò posto, occorre osservare, con riferimento alle medesime censure formulate in questa sede, che i ricorrenti hanno reiterato la formulazione di censure generiche, prospettando sostanzialmente negli stessi termini la questione alla Corte territoriale e presentando ora un motivo di ricorso nel quale si continua a ribadire di aver dedotto adeguatamente la questione, ritenendo sufficiente il fatto di aver rappresentato ai giudici del merito l’inutilizzabilità degli atti redatti dagli accertatori dalla pagina 14 in poi, senza le ulteriori specificazioni che la citata giurisprudenza richiede.
Per contro, la sentenza impugnata risulta aver fatto un uso corretto dei principi dianzi ricordati, che vengono puntualmente richiamati in motivazione, facendo correttamente osservare come gli appellanti non avessero neppure indicato la rilevanza, ai fini della decisione, dei verbali di constatazione nella parte ritenuta non utilizzabile né, tanto meno, quali parti della sentenza appellata avrebbero dovuto ritenersi inficiate dalla dedotta inutilizzabilità, stigmatizzando la genericità del richiamo alla inutilizzabilità dei tutti gli atti successivi alla pagina 14 del verbale di constatazione.
I giudici del gravame, inoltre, non si sono limitati a tale, pur determinante, A constatazione di genericità della doglianza, avendo proceduto anche ad un esame dei contenuti dell’atto, rilevando che non erano stati individuati, tra quelli utilizzati per la decisione, atti compiuti in violazione di norme codicistiche.
La sentenza impugnata risulta pertanto, sul punto, del tutto immune da censure.
4. Anche il comune motivo di ricorso sulle statuizioni civili è inammissibile perché connotato da estrema genericità, lamentando i ricorrenti un difetto di motivazione in realtà insussistente.
Invero la Corte del merito, dando conto anche della giurisprudenza in materia, ha rilevato come sia generalmente riconosciuto il diritto dell’amministrazione finanziaria al risarcimento del danno, pur sussistendo incertezze in ordine al tipo di danno risarcibile ed alla sua quantificazione e, data tale premessa, ha specificato le ragioni per le quali doveva ritenersi legittimamente riconosciuto, nel caso in esame, il diritto al risarcimento del danno patrimoniale e morale.
In particolare, richiamando le argomentazioni del primo giudice la Corte di appello ha posto in evidenza il rilievo assunto, per la parte patrimoniale, dalla sottrazione della materia imponibile e delle relative imposte, oltre i costi derivanti dallo sviamento di funzione, mentre, riguardo al danno morale, ha posto in evidenza come lo stesso consegua, per l’Agenzia delle entrate, al pari di qualsiasi altro ente pubblico, alla lesione degli interessi pubblicistici e sociali che essa rappresenta e in funzione della finalità istituzionale da essa perseguita, frustrata ed ostacolata dalla consumazione dei reati tributari (la Corte cita, a tale proposito, Sez. 3, n. 38932 del 6/6/2017, Zuccolo).
I ricorrenti non si confrontano con tali argomentazioni, che risultano scevre da cedimenti logici e manifeste contraddizioni, limitandosi al richiamo di principi giurisprudenziali generali ed all’apodittica affermazione della mancata dimostrazione di un danno.
Tale circostanza, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (v. Sez. 2, n. 11951 del 29/1/2014, Lavorato, Rv. 259425; Sez. 5, n. 28011 del 15/2/2013, Sammarco, Rv. 255568; Sez. 6, n. 20377 del 11/3/2009, Arnone, Rv. 243838; Sez. 2, n. 19951 del 15/5/2008, Lo Piccolo, Rv. 240109, con richiami alle decisioni precedenti) determina la mancanza di specificità dei motivi desumibile anche dalla mancanza di correlazione tra le argomentazioni poste a sostegno della decisione impugnata e quelle sulle quali si fonda l’impugnazione.
5. Quanto al motivo di ricorso proposto nell’interesse di G.D. con riferimento alla ritenuta posizione di amministratore di fatto, va ricordato, in linea generale, che questa Corte ha rilevato (Sez. 3, n. 22108 del 19/12/2014 (dep. 2015), Berni e altri, Rv. 264009) come il potere dell’amministratore di fatto debba estrinsecarsi nell’esercizio concreto e con un minimo di continuità delle funzioni proprie degli amministratori o una di esse, coordinata con le altre, sicché non è sufficiente la generica e sporadica ingerenza nell’attività sociale, rilevando, al contrario, il controllo della gestione della società sotto il profilo contabile ed amministrativo, la gestione dell’organizzazione interna e della attività esterna costituente l’oggetto della società, la formulazione di programmi, la selezione delle scelte e la emanazione delle necessarie direttive, non potendosi poi prescindere, con riguardo all’organizzazione interna, dai necessari poteri deliberativi i cui effetti si riflettono sull’attività esterna, mentre nell’ambito di quest’ultima deve tenersi conto delle funzioni di rappresentanza (Sez. 5, n. 1154 del 08/10/1991, Rapisarda, Rv. 191212).
Si ritiene, a tale proposito, che debbano considerarsi i criteri stabiliti dall’art. 2639, cod. civ., il quale, pur riguardando i reati in materia di società e consorzi di cui al titolo XI del libro V del codice civile, ha di fatto codificato gli approdi giurisprudenziali che l’avevano preceduta (v. Sez. 1, n. 18464 del 12/05/2006, Ponciroli, Rv. 234254).
Si è così condivisibilmente ribadito (Sez. 3, n. 22108/2015, cit.) che l’amministratore di fatto è colui il quale eserciti in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione, precisando che “significatività” e “continuità” non comportano necessariamente l’esercizio di “tutti” i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale (v. Sez. 5, n. 43300 del 17/10/2005, Carboni, Rv. 232456; Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, Tarantino, Rv. 256534).
Ciò posto, deve osservarsi che la questione relativa alla inutilizzabilità degli atti risulta superata dalla considerazioni in precedenza svolte, mentre, per ciò che concerne l’affermazione di responsabilità, ritiene il Collegio che la stessa sia stata confermata dalla Corte territoriale attraverso una esaustiva analisi degli elementi probatori acquisiti, segnatamente le plurime dichiarazioni assunte dalla Guardia di Finanza da persone informate sui fatti, i cui contenuti vengono illustrati e rispetto ai quali il ricorrente prospetta una lettura alternativa che non può avere ingresso nel (fr 9 giudizio di legittimità.
6. Per ciò che riguarda, poi, la mancata assunzione di una prova decisiva, dedotta nei ricorsi di R.D., V.S. e D.P. va in primo luogo rilevato che, per quanto è dato desumere dalla sentenza impugnata, gli imputati, in primo grado, hanno optato per il giudizio abbreviato non condizionato.
La scelta del giudizio abbreviato non preclude al giudice di appello la possibilità di disporre d’ufficio i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per l’accertamento dei fatti che formano oggetto della decisione, secondo il disposto dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., dovendosi tuttavia escludersi, per l’imputato che a tale rito abbia fatto ricorso, la sussistenza di un diritto alla richiesta di rinnovazione del dibattimento e, per il giudice, di un obbligo di motivare il rigetto della richiesta, poiché chiedendo di essere giudicato allo stato degli atti l’imputato rinuncia all’acquisizione di ulteriori prove, tranne quelle alla cui acquisizione, eventualmente, il giudizio abbreviato era stato subordinato (v. Sez. 1, n. 8316 del 14/01/2016, PG. in proc. Di Salvo e altri, Rv. 266145; Sez. 1, n. 35846 del 23/5/2012, PG. in proc. Andali, Rv. 253729; Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011, Sermone e altri, Rv. 249161; Sez. 6, n. 45240 del 10/11/2005, Spagnoli, Rv. 233506; Sez. 1, n. 7246 del 5/3/1999, Brollo, Rv. 213702; Sez. 3, n. 7143 del 6/5/1998, Zymaj N ed altro, Rv. 211216; Sez. U, n. 930 del 13/12/1995 (dep. 1996), Clarke, Rv. 203427).
Alle parti resta, dunque, la possibilità di sollecitare i poteri suppletivi di iniziativa probatoria che spettano al giudice di appello e la scelta del giudice ha natura discrezionale, non censurabile in sede di legittimità (Sez. 5, n. 8384 del 27/9/2013 (dep. 2014), Trubia, Rv. 259045; Sez. 2, n. 45329 del 1/10/2013, Caricola, Rv. 257498; Sez. 2, n. 14649 del 21/12/2012 (dep. 2013), Santostasi, Rv. 255358; Sez. 1, n. 13756 del 24/1/2008 (dep. 2008), Diana, Rv. 239767).
Si è ulteriormente chiarito come, dal momento che, nell’ambito del giudizio abbreviato, la mera sollecitazione probatoria non è idonea a far sorgere in capo all’istante quel diritto alla prova, al cui esercizio ha rinunciato formulando la richiesta di rito alternativo non condizionato, il mancato accoglimento di tale richiesta non può costituire vizio censurabile ex art. 606, comma primo, lett. d) cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 27985 del 05/02/2013, Rossi, Rv. 255566; Sez. 6, n. 15086 del 8/3/2011, Della Ventura e altri, Rv. 249910; Sez. 5, n. 5931 del 07/12/2005 (dep. 2006), Capezzuto, Rv. 233845).
Nel caso in esame, dunque, il giudice dell’impugnazione ha correttamente operato, adeguandosi ai principi giurisprudenziali appena richiamati, tanto più che la prova richiesta e ritenuta decisiva consisteva nella produzione di una consulenza di parte.
7. I ricorsi, conseguentemente, devono essere dichiarati inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 2.000,00.
Deve altresì essere disposta la rifusione delle spese sostenute dalla parte civile Agenzia delle Entrate nella misura indicata in dispositivo.
8. Resta da rilevare, quanto al motivo, comune a tutti i ricorrenti e concernente la prescrizione dei reati, che l’inammissibilità del ricorso per cassazione per manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e, pertanto, preclude la possibilità di dichiarare le cause di non punibilità di cui all’art. 129 cod. proc. pen., ivi compresa la prescrizione intervenuta nelle more del procedimento di legittimità (Sez. 2, n. 28848 del 8/5/2013, Ciaffoni, Rv. 256463, Sez. 4, n. 18641 del 20/1/2004, Tricomi, Rv. 228349; Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D. L, Rv. 217266).
Per i reati di cui ai capi 5 e 11 dell’imputazione, considerato anche il periodo di sospensione (dal 16/2/2017 al 26/10/2018) conseguente a rinvio per adesione della difesa alla astensione dalle udienze, il termine massimo risulta spirato, rispettivamente il 6/12/2018 ed il 3/5/2019, mentre la sentenza di appello è stata pronunciata in data 1/3/2018.
Per il reato di cui al capo 12, invece, il termine massimo di prescrizione, sempre tenendo conto della sospensione, sarebbe spirato il 7/5/2020.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000,00 (duemila) ciascuno in favore della Cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile che liquida in complessivi euro 3.500,00 oltre accessori di legge.
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