Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 51935 depositata il 23 dicembre 2019
delitto di trasferimento di valori – sequestro ex art. 240-bis cod.pen.
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Verona, in sede di riesame delle misure cautelari reali, in parziale accoglimento delle istanze difensive, annullava il decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Verona in data 7 maggio 2019, relativamente ai beni e quote societarie di cui al capo A) quanto ai punti 3 e 4 riferiti a S.M. e di cui al capo B), confermando nel resto il provvedimento.
2. Il sequestro era stato disposto ai sensi dell’art. 240-bis cod.pen. in relazione, per quel che ancora interessa in questa sede, al reato di intestazione fittizia di beni di cui al capo A), che individua il ricorrente V.L. come autore del trasferimento fittizio in capo a suoi familiari di quote societarie e beni immobili corrispondenti, ai fini di eludere le misure di prevenzione, in quanto soggetto condannato per reati di bancarotta fraudolenta e riciclaggio, quest’ultimo riferito al profitto del reato di bancarotta fraudolenta relativo al crack di una compagine societaria indicata come M. s.r.l..
3. Ricorrono per cassazione, da un lato, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Verona, dall’altro, V.L., I.I., V.C. e V.T..
3.1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Verona deduce violazione di legge in ordine alla statuizione di annullamento del decreto di sequestro preventivo inerente al solo “punto 3” del capo A) della provvisoria imputazione, che riguarda le quote del 95% ed il corrispondente patrimonio immobiliare della I.C. s.r.l. intestate a S.M., madre di V.L., quote che, secondo l’accusa, quest’ultimo avrebbe fittiziamente intestato alla sua genitrice.
Secondo la parte pubblica ricorrente – che non impugna il provvedimento quanto al “punto 4” del capo A) e quanto al capo B) – il Tribunale non avrebbe dovuto ritenere che i beni immobili corrispondenti al patrimonio della I.C. s.r.l., fossero esclusi dal reato di intestazione fittizia contestato a V.L..
Ciò in quanto si tratterebbe di una villa di pregio, del valore di oltre due milioni di euro, fabbricata in epoca nella quale, secondo quanto dallo stesso Tribunale affermato, S.M. non disponeva di tali risorse economiche. Inoltre, l’andamento cronologico delle vicende relative all’acquisto delle quote societarie da parte di S.M. – descritto in ricorso – sarebbe sintomatico della paternità dell’operazione in capo a V.L. e della sua fittizietà.
3.2. V.L., I.I., V.C. e V.T. deducono:
1) violazione di legge e omessa o contraddittoria motivazione.
L’ordinanza impugnata non avrebbe messo in evidenza il collegamento tra gli immobili oggetto di sequestro ed il presunto profitto che il ricorrente V.L. avrebbe ricavato per effetto del riciclaggio del danaro proveniente dal crack della M. s.p.a..
Inoltre, la condotta di riciclaggio sarebbe stata commessa nel 2008-2009, mentre i beni oggetto di sequestro sono relativi ad immobili intestati ad una società, la Immobiliare s.r.l., di cui sono soci V.C. (figlia di Leonardo) e V.T. (nipote di Leonardo) a far data dal 2018.
Non sarebbe stato indicato il profitto ottenuto dal V.L. nel reato di riciclaggio che starebbe a monte del reato di intestazione fittizia.
Peraltro, nel procedimento nel quale il ricorrente è stato condannato per riciclaggio, con sentenza della Corte di Appello di Verona del 15 giugno 2018, molte transazioni (in particolare quelle con il coimputato A.R.), sarebbero state ritenute lecite, tanto da condurre all’assoluzione dell’A.R.. Nel ricorso vengono trasfusi alcuni passaggi della sentenza della Corte di Appello di Verona.
Inoltre, viene segnalata la necessaria correlazione temporale, posta in evidenza in materia di confisca di prevenzione, tra l’acquisto del bene e l’accertamento della pericolosità sociale; accertamento, che, peraltro, il Tribunale non avrebbe effettuato con riguardo alle operazioni fittizie oggetto di contestazione.
Peraltro, il ricorrente avrebbe dimostrato, attraverso le sue dichiarazioni dei redditi, di avere congrue risorse economiche.
Quanto alla società I. s.r.l., “gli immobili indicati nell’ordinanza sono confluiti in capo ai nuovi soci, V.C. e V.T., solo nel marzo del 2018, in esito ad una cessione delle quote da parte di Valbusa Stefano” (fg.9 del ricorso), fratello di V.L. e soggetto non indicato nei capi di imputazione né indagato per il crack della M., il quale aveva costituito la società nel 2012 e con essa operato.
In ordine alla società D. s.r.l., essa non avrebbe alcun patrimonio sociale, sicché la sua intestazione alla moglie ed alla figlia del V.L. sarebbe irrilevante e non sproporzionata al loro reddito.
Si dà atto che nell’interesse dei ricorrenti privati è stata depositata una memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono inammissibili.
Deve premettersi, all’esame dei ricorsi, che, secondo l’art. 325, comma 1, cod.proc. pen., il ricorso per cassazione contro le ordinanze emesse in sede di riesame avverso il provvedimento impositivo di misura cautelare reale è ammesso solo per violazione di legge e, dunque, come anche ripetutamente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità condivisa dal Collegio, non per i vizi logici della motivazione di cui all’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen. (tra le tante, sez.5, n. 35532 del 25/06/2010, Angelini, conforme a Sez.U, n. 5876 del 2004, Bevilacqua).
La più autorevole giurisprudenza della Corte di Cassazione, condivisa dal Collegio, ritiene che in tale nozione vadano ricompresi sia gli errores in iudicando che gli errores in procedendo, ovvero quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Sez.U. n.25932 del 2008, Ivanov).
1. Quanto al ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Verona, il provvedimento impugnato reca le ragioni dell’annullamento del sequestro inerente ai beni intestati a S.M., madre del ricorrente V.L..
E’ stato, infatti, sottolineato – tanto con riguardo ai beni immobili nella diretta proprietà dell’indagata (segmento del provvedimento che il Pubblico ministero non impugna), tanto a proposito delle quote societarie della I.C. s.r.l. – che S.M., siccome anche documentato dalla difesa, aveva “significative disponibilità finanziarie”, richiamandosi in tale senso, a fg. 6 dell’ordinanza del Tribunale, “la memoria della difesa e la documentazione allegata alla medesima, che dà conto della provenienza familiare di tali beni immobili e della contrazione di mutui o creazione di provviste grazie ad attività di dismissione patrimoniale che fotografano le significative disponibilità finanziarie della Sella, ben prima dei fatti che hanno visto il figlio V.L. coinvolto nelle vicende del crack M., fatti nei quali la predetta non è risultata coinvolta”. Tale passaggio motivazionale è collocato dopo la descrizione delle vicende societarie della I.C. s.r.l. e della affermazione secondo la quale tali vicende non avrebbero nulla a che vedere con gli addebiti per cui si procede.
Ne consegue che il vizio denunciato dalla parte pubblica ricorrente attiene ad un presunto difetto di motivazione, per contraddittorietà o manifesta illogicità, che non può essere veicolato in questa sede, con la conseguenza che l’approfondimento della questione è rimandato al merito del giudizio.
2. Quanto al ricorso degli indagati V.L., I.I., V.C. e V.T., se ne deve rilevare la manifesta infondatezza.
2.1. In primo luogo, occorre precisare che il delitto di trasferimento di valori, secondo la pacifica giurisprudenza di legittimità, deve ritenersi integrato anche in presenza di condotte aventi ad oggetto beni non provenienti da delitto, in accordo con la ratio dell’incriminazione che persegue unicamente l’obiettivo di evitare manovre dei soggetti assoggettabili a misure di prevenzione, dirette a non far figurare la loro disponibilità di beni o altre utilità, a prescindere dalla provenienza di questi (Sez. 2, n. 13488 del 16/12/2015, dep. 2016, Zummo, Rv. 266438).
Ne consegue che oggetto del sequestro operato in relazione a beni che abbiano formato oggetto di intestazione fittizia possono essere anche cespiti non rivenienti a loro volta da reato, purché destinati ad integrare la condotta oggi prevista dall’art. 512-bis cod.pen..
Pertanto, quando il ricorso fa riferimento all’inesistenza di un collegamento tra il profitto del reato di riciclaggio – per il quale il ricorrente V.L. è stato condannato con le sentenze che risultano agli atti e sono state ripetutamente citate nell’atto di impugnazione – ed i beni in sequestro, confonde i presupposti per il sequestro di beni inerente al reato di riciclaggio (ex art. 648-quater cod.pen.), con i presupposti per il sequestro di beni inerente al reato di intestazione fittizia ex art. 240-bis cod.pen..
Si osservi, ancora, che tale “collegamento”, tra i beni in sequestro e quelli che avevano formato oggetto del profitto del reato per il quale il ricorrente è stato condannato in precedenza, non è un requisito richiesto da tale ultima disposizione normativa, che consente la confisca (ed il sequestro a ciò finalizzato) “dei beni di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito o alla propria disponibilità economica“.
Da ciò discende che risultano incongrui tutti i riferimenti al contenuto delle sentenze emesse nel procedimento conclusosi con la sentenza di condanna dell’imputato per il reato di riciclaggio.
2.2. Del pari, non ha alcun rilievo il riferimento all’epoca di commissione del reato di riciclaggio (2008-2009), per il quale il ricorrente risulta essere stato condannato; il sequestro si giustifica, infatti, in funzione della astratta configurabilità del reato di intestazione fittizia di beni di cui al capo A), che risulta commesso, come da imputazione provvisoria, “fino al 2018” e che attiene a quote societarie relative ad una compagine (la I. s.r.1) che dalla stessa imputazione risulta avere acquistato quindici immobili tra il 2012 ed il 2016 per un valore di 670.000 euro, epoca nella quale il ricorrente V.L., secondo quanto il Tribunale ha precisato richiamando una nota della Guardia di Finanza del 9 luglio 2018, non disponeva di redditi (fg. 7 dell’ordinanza impugnata).
2.3. Invero, la precedente condanna di V.L. per il reato di riciclaggio – oltre che contribuire a giustificare la successiva condotta di intestazione fittizia di beni – è servita al Tribunale solo per dimostrare il fatto, per altro verso essenziale, che il ricorrente potesse ritenersi destinatario di una misura di prevenzione patrimoniale, circostanza avvalorata dal fatto, segnalato nel provvedimento genetico, che le operazioni di intestazione fittizia ai familiari si erano verificate, non a caso, dopo la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado per il reato di riciclaggio.
A ben vedere, tale segmento della motivazione non è neanche contestato dal ricorrente nei suoi astratti presupposti giuridici.
2.3. Trattandosi di sequestro ex art. 240-bis cod.pen., risultano ancora una volta del tutto incongrui i richiami alle norme ed alla giurisprudenza formatasi in materia di sequestro di prevenzione, misura reale disciplinata dal cosiddetto codice antimafia (D.L.vo n. 159/2011), i cui presupposti applicativi sono diversi da quelli di cui alla norma richiamata, oggi collocata all’interno del codice penale.
2.4. Per quel che si è precisato poco sopra, il Tribunale, per individuare il requisito della “sproporzione”, ha anche motivato in ordine all’assenza di redditi del ricorrente V.L. all’epoca di riferimento delle condotte contestate (richiamando uno specifico accertamento di polizia giudiziaria), sicché l’asserzione contraria inerisce ad un supposto vizio motivazionale per contraddittorietà che non può essere veicolato in questa sede ma solo nel merito del giudizio.
2.5. Infine, il Tribunale ha anche motivato in ordine alla riconducibilità al V.L. delle compagini societarie oggetto di trasferimento fittizio ai suoi familiari, sottolineando che costoro non avevano redditi propri e che egli era l’unico soggetto all’interno del nucleo familiare dotato di “intraprendenza imprenditoriale” compatibile con il patrimonio immobiliare e finanziario intestato alle società D. s.r.l. e I. s.r.l..
Peraltro, la riconducibilità di fatto di tale ultima società al ricorrente V.L., era già stata messa in evidenza nel provvedimento genetico, allorquando il Giudice per le indagini preliminari aveva precisato, con notazioni che il ricorso non contesta, come i congiunti del V.L. (la figlia V.C. ed il nipote V.T.) fossero soggetti giovanissimi all’epoca dei trasferimenti in capo ad essi delle quote della società I. – che aveva acquistato quindici immobili tra il 2012 ed il 2016 per un valore di 670.000 euro, come si è detto – e come il V.L. avesse personalmente richiesto il permesso al Comune di riferimento per le opere da effettuare su un immobile della società, dimostrando così la occulta riconducibilità a sé della compagine societaria. Anche qui, a fronte di tali specificazioni, la valenza da attribuire alla circostanza che il trasferimento delle quote societarie ai congiunti fosse stato formalmente disposto dal fratello del V.L. – Valbusa Stefano, che risulta essere il legale rappresentante della I. (fg.5 del provvedimento impugnato) – atterrebbe non ad una carenza assoluta di motivazione, ma ad una contraddittorietà di essa, che non è veicolabile in questa sede.
Tanto assorbe ogni altra considerazione difensiva, anche in relazione a quanto contenuto nella memoria depositata.
Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti V.L., I.I., V.C. e V.T., al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila ciascuno alla Cassa delle Ammende, commisurata all’effettivo grado di colpa degli stessi ricorrenti nella determinazione della causa di inammissibilità.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso del Pubblico Ministero. Dichiara inammissibili i ricorsi di V.L., I.I., V.C. e V.T., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila ciascuno a favore della Cassa delle Ammende.
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