Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 5513 depositata il 12 febbraio 2020
reati tributari – omesso versamento IVA – consolidato fiscale nazionale
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 26 marzo 2019 la Corte d’appello di Firenze ha respinto l’impugnazione proposta dall’imputato, M.A., avverso la sentenza del 6 luglio 2015 del Tribunale di Firenze, con cui lo stesso era stato condannato alla pena di quattro mesi di reclusione, in relazione al reato di cui all’art. 10 ter d.lgs. 74/2000 (ascrittogli per avere, quale amministratore della S.I. S.r.l., omesso di versare l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale per l’anno 2009, pari a complessivi euro 861.516,00, nel termine del 27 dicembre 2010, previsto per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo).
2. Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, affidandolo a due motivi.
2.1. Con un primo motivo ha denunciato, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., la violazione e l’errata applicazione dell’art. 10 ter d.lgs. 74/2000, per non essere imputabile alla società amministrata dal ricorrente l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto dovuta dalle società alla stessa consolidate, trattandosi di somme di cui la società consolidante amministrata dall’imputato, pur versandosi in una ipotesi di consolidamento fiscale ai sensi del d.lgs. n. 344 del 2003, non aveva mai avuto la disponibilità.
Ha evidenziato che la ratio della incriminazione delle condotte omissive sanzionate dagli artt. 10 bis e 10 ter d.lgs. 74/2000 è costituita dalla volontà di assegnare rilevanza penale non a condotte meramente omissive, bensì solo a quelle specificamente decettive e genericamente falsificatorie di documenti e trasfuse nelle dichiarazioni, cosicché tali fattispecie non si risolvono in una mera omissione di versamento, bensì nella appropriazione di quanto percepito da altri e dovuto all’Erario, che determina l’assunzione di rilevanza penale da parte della condotta omissiva, in quanto caratterizzata dalla appropriazione o distrazione di somme riscosse da altri o trattenute per conto dello Stato, che l’obbligato è tenuto soltanto a riversare all’Erario, per conto del quale, in sostanza, le detiene.
Nel caso del bilancio consolidato nazionale redatto dalla S.I. amministrata dal ricorrente la società capogruppo non aveva, però, mai riscosso le somme dovute a titolo di imposta sul valore aggiunto (non essendo soggetto commerciale operativo e non avendole mai ricevute dalle controllate), pur essendo il soggetto obbligato alla presentazione della dichiarazione, cui aveva provveduto, e al conseguente versamento dell’imposta, omesso per l’indisponibilità delle somme percepite dalle controllate.
Ha eccepito anche l’irrilevanza, sul piano della responsabilità penale, del mancato esperimento di azioni nei confronti delle controllate volte a conseguire il versamento delle imposte dalle stesse dovute, posto che tale eventuale inerzia non avrebbe, comunque, potuto determinare una responsabilità penale.
2.2 In secondo luogo ha lamentato la carenza e la manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., sia con riferimento alla affermazione della configurabilità della responsabilità dell’amministratore della holding, che non potrebbe rispondere penalmente delle omissioni delle controllate, non avendo mai avuto la disponibilità delle somme dalle stesse dovute a titolo di imposta sul valore aggiunto; sia quanto alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato ascrittogli, considerando che l’obbligato non era mai venuto in possesso delle somme che aveva l’obbligo di versare, con la conseguenza che l’omesso versamento delle stesse non poteva essere considerato volontario.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile a causa della manifesta infondatezza delle censure cui è stato affidato.
2. Con entrambi i motivi di ricorso, esaminabili congiuntamente, in considerazione della sovrapponibilità delle censure con gli stessi formulate, tutte volte a negare la sussistenza e l’esigibilità dell’obbligo di versamento a carico della società consolidante nell’ipotesi in cui quelle consolidate non abbiano provveduto al versamento delle somme dalle stesse dovute a titolo di imposta sul valore aggiunto, il ricorrente nega la configurabilità a proprio carico del reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, in considerazione della mancanza della disponibilità delle somme dovute a tale titolo, non riversate alla consolidante, amministrata dal ricorrente, da parte delle società consolidate, che vi erano obbligate.
2.1. Si tratta, ad avviso del Collegio, di prospettazione manifestamente infondata.
2.2. Giova premettere che il consolidato fiscale nazionale è un particolare regime di determinazione del reddito complessivo Ires per tutte le società partecipanti, rappresentato dalla somma algebrica delle singole basi imponibili che risultano dalle rispettive dichiarazioni dei redditi. Le società che intendono adottare la tassazione consolidata di gruppo (disciplinata dagli artt. 117-129 del Tuir, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917) devono esercitare la specifica opzione che dura per un triennio ed è irrevocabile; per effetto di tale opzione sorge un’unica obbligazione tributaria a fronte di una moltitudine di soggetti passivi Ires legati tra di loro da un rapporto di controllo.
Ai fini del consolidato fiscale il controllo è individuato come detenzione in un’altra società di capitali di azioni che permettono l’ottenimento della maggioranza dei diritti di voto esercitabili in assemblea ordinaria (art. 2359, comma 1, par. 1, cod. civ.) o la cui partecipazione agli utili è superiore al 50%. Per il calcolo di tali soglie si computa anche il controllo indiretto per la quota demoltiplicata.
Con l’adesione al consolidato fiscale l’obbligazione tributaria in capo al gruppo è determinata con l’applicazione dell’aliquota di tassazione a una base imponibile data come somma algebrica del reddito netto dell’ente controllante e di quello degli enti controllati (per intero anche se la partecipazione non è totalitaria). La base imponibile consolidata si formerà considerando i trasferimenti infragruppo in regime di neutralità fiscale; i dividendi che l’ente controllante riceve dagli enti controllati sono totalmente esenti da tassazione.
2.3. L’ente controllante è responsabile per i maggiori debiti di imposta, e per i relativi interessi, riferiti al reddito complessivo globale; mentre l’ente controllato risponde solidalmente assieme all’ente controllante solamente per i maggiori debiti di imposta, o per interessi e sanzioni riferiti alla sua base imponibile.
Ciò si desume chiaramente da quanto previsto dall’art. 127 Tuir, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, secondo il quale la società o l’ente controllante è responsabile, tra l’altro, per la maggiore imposta accertata e per gli interessi relativi, riferita al reddito complessivo globale risultante dalla dichiarazione di cui all’articolo 122, nonché per le somme che risultano dovute, con riferimento alla medesima dichiarazione, a seguito dell’attività di controllo prevista dall’articolo 36 ter del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, riferita alle dichiarazioni dei redditi propria di ciascun soggetto che partecipa al consolidato e dell’attività di liquidazione di cui all’articolo 36 bis del medesimo decreto (oltre che per l’adempimento degli obblighi connessi alla determinazione del reddito complessivo globale di cui all’articolo 122 e, solidalmente, per il pagamento di una somma pari alla sanzione di cui alla lettera b) del comma 2 irrogata al soggetto che ha commesso la violazione).
Ciascuna società controllata che partecipa al consolidato è, a sua volta, responsabile, solidalmente con l’ente o società controllante, per la maggiore imposta accertata e per gli interessi relativi, riferita al reddito complessivo globale risultante dalla dichiarazione di cui all’articolo 122, in conseguenza della rettifica operata sul proprio reddito imponibile, e per le somme che risultano dovute, con riferimento alla medesima dichiarazione, a seguito dell’attività di controllo prevista dall’articolo 36 ter d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e dell’attività di liquidazione di cui all’articolo 36 bis del medesimo decreto, in conseguenza della rettifica operata sulla propria dichiarazione dei redditi (oltre che per le sanzioni correlate alla maggiore imposta accertata riferita al reddito complessivo globale risultante dalla dichiarazione di cui all’articolo 122, in conseguenza della rettifica operata sul proprio reddito imponibile, e alle somme che risultano dovute con riferimento alla medesima dichiarazione).
2.4. Tale disciplina, relativa alle imposte sul reddito, è applicabile anche all’imposta sul valore aggiunto, come si desume dall’art. 73, comma 3, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, nel testo vigente all’epoca di scadenza del termine per il versamento dell’imposta non versata, secondo il quale “Il Ministro delle finanze può disporre con propri decreti, stabilendo le relative modalità, che le dichiarazioni delle società controllate siano presentate dall’ente o società controllante all’ufficio del proprio domicilio fiscale e che i versamenti di cui agli articoli 27, 30 e 33 siano fatti all’ufficio stesso per l’ammontare complessivamente dovuto dall’ente o società controllante e dalle società controllate, al netto delle eccedenze detraibili”.
Anche per l’imposta sul valore aggiunto è, dunque, concessa una agevolazione rispetto all’esercizio degli obblighi di dichiarazione e dei diritti conseguenti delle società controllate, attraverso una procedura di liquidazione e di versamento del tributo da parte della società controllante (cfr. Cass. Civ., Sez. 5, Sentenza n. 20708 del 01/10/2014, Rv. 632898 – 01).
2.5. Risultano, pertanto, manifestamente infondate le doglianze formulate dal ricorrente con entrambi i motivi di ricorso, in quanto la responsabilità della società o dell’ente controllante è certamente applicabile anche all’imposta sul valore aggiunto dovuta in base all’imponibile iva di gruppo.
I rilievi in ordine al mancato versamento delle somme dovute dalle controllate non consentono, poi, di escludere la responsabilità della controllante e, per essa, dei ricorrente, sia in considerazione della genericità della relativa deduzione difensiva, non essendo stato specificato alcunché riguardo ai rapporti con le controllate e alle somme da ciascuna di esse dovute e alle ragioni dei mancati versamenti; sia per la mancata dimostrazione della attivazione della controllante per ottenere il versamento da parte delle controllate delle somme dalle stesse dovute a tale titolo, tenendo conto dei poteri di controllo spettanti alla società controllante, posto che, come evidenziato, ai fini del consolidato fiscale il controllo è individuato come detenzione in un’altra società di capitali di azioni che permettono l’ottenimento della maggioranza dei diritti di voto esercitabili in assemblea ordinaria, o la cui partecipazione agli utili è superiore al 50%, con la conseguenza che l’indisponibilità delle somme necessarie per provvedere al pagamento dell’imposta non è riconducibile a fattori estranei alla sfera di dominio della controllante o da questa non governabili (stante la necessaria esistenza di un potere di controllo derivante dalla partecipazione societaria), con la conseguente imputabilità alla stessa della indisponibilità delle risorse necessarie per provvedere al versamento delle somme dovute a titolo di imposta sul valore aggiunto.
3. Il ricorso deve, in conclusione, essere dichiarato inammissibile, stante la manifesta infondatezza delle censure cui è stato affidato.
L’inammissibilità originaria del ricorso esclude il rilievo della prescrizione verificatasi successivamente alla sentenza di secondo grado (dovendo considerarsi nel computo di tale termine anche la sospensione dello stesso per 327 giorni, conseguente al rinvio d’udienza dal 3/5/2018 al 26/3/2019, a causa della adesione del difensore dell’imputato alta astensione dalle udienze, per effetto della quale la scadenza del termine di prescrizione si è differita al 20/5/2019, successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata), giacché detta inammissibilità impedisce la costituzione di un valido rapporto processuale di impugnazione innanzi al giudice di legittimità, e preclude l’apprezzamento di una eventuale causa di estinzione del reato intervenuta successivamente alla decisione impugnata (Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32, De Luca, Rv. 217266; conformi, Sez. un., 2/3/2005, n. 23428, Bracale, Rv. 231164, e Sez. un., 28/2/2008, n. 19601, Niccoli, Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8.5.2013, Rv. 256463; Sez. 2, n. 53663 del 20/11/2014, Rasizzi Scalora, Rv. 261616; nonché Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, dep. 14/02/2017, Aiello, Rv. 268966).
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 a favore della Cassa delle Ammende.
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