CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 6348 depositata il 11 febbraio 2019

Imposte indirette – IVA – Dichiarazione annuale – Omesso versamento – Violazioni – Sanzioni penali

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del Tribunale di Teramo del 26 settembre 2014, K.T., all’esito di rito abbreviato, veniva condannata alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi 4 di reclusione in ordine al reato di cui all’art. 10 ter del d. lgs. 74/2000, perché, quale amministratore della società S.K. s.r.l., con sede legale in Giulianova, non versava l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale del 2007, pari a € 257.477,00, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo, fatto commesso in Giulianova il 27 dicembre 2008. Con la medesima sentenza, veniva altresì disposta la confisca di quanto in sequestro.

Con sentenza del 16 novembre 2017, la Corte di appello dell’Aquila, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputata in ordine al reato a lei ascritto, in quanto estinto per prescrizione, e revocava parzialmente la confisca dei beni sequestrati, limitatamente ai soli beni immobili, ordinando la restituzione degli stessi in favore dell’imputata e confermando nel resto.

2. Avverso la sentenza della Corte di appello abruzzese, la T., tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando tre motivi.

Con il primo motivo, la difesa deduce la violazione degli art. 240, 322 ter cod. pen., 1 comma 143 della I. n. 244/2007 e 10 ter del d. lgs. 74/2000, osservando che la Corte di appello, qualificando come suscettibili di confisca diretta le provviste di denaro giacenti sui conti correnti e libretti di deposito nella titolarità dell’imputata, aveva omesso di stabilire cosa dovesse intendersi per profitto del reato, derivante dall’omesso versamento dell’iva alla scadenza del 27 dicembre 2008, non essendo stato compiuto alcun accertamento volto a chiarire se le somme di denaro sequestrato sui conti correnti nella disponibilità della T. nell’agosto 2012 corrispondessero a quelle esistenti alla data del 27 dicembre 2008, o comunque se, a quest’ultima data, i relativi conti presentassero e in che misura dei saldi attivi, non potendosi qualificare come profitto diretto l’accrescimento di liquidità che si manifesti in un momento successivo al termine di versamento dell’imposta, ciò in coerenza con i principi affermati da questa Corte (Sez. 3, sentenza n. 28223 del 09/02/2016).

La difesa osserva che, ove i giudici di appello avessero compiuto la verifica prima indicata, avrebbero accertato che, alla data del 30 settembre 2008, il saldo attivo del conto corrente dell’imputato ammontava a € 6.592,97, mentre le somme rinvenute sul conto corrente al momento del sequestro (24 agosto 2012) non potevano provenire da risorse finanziarie dell’azienda, posto che il 30 aprile 2009, poco dopo la scadenza del termine per il versamento dell’iva, la società S.K. aveva presentato istanza di ammissione al concordato preventivo.

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la violazione degli art. 597 comma 3 e 603 comma 3 cod. proc. pen., rilevando che la Corte di appello aveva indebitamente riqualificato la tipologia di confisca adottata, ritenendola come diretta, sebbene la stessa sia stata disposta per equivalente, senza che sul punto il Tribunale di Teramo sia intervenuto a modificare la natura del sequestro; la diversa qualificazione giuridica operata dalla Corte di appello è invece avvenuta senza alcuna assunzione di prove volte a definire la natura dei beni mobili confiscati e peraltro in presenza della declaratoria di estinzione del reato e in difetto di alcuna prova circa la corrispondenza numeraria tra il profitto del reato e le somme di cui è stata disposta la confisca, non risultando dimostrata in particolare la sovrapponibilità tra il saldo attivo al momento del sequestro (agosto 2012) e quello all’epoca della consumazione del reato (dicembre 2008).

Con il terzo motivo, infine, viene censurata la violazione dell’art. 12 bis del d. lgs. 74/2000 e l’omessa e contraddittoria motivazione circa la residualità di risparmio fiscale qualificabile come profitto del reato, contestandosi l’affermazione della sentenza impugnata che ha ritenuto irrilevante, ai fini della revoca della confisca, che fosse stata restituita nella sede fallimentare l’imposta evasa, dovendosi riconoscere efficacia liberatoria anche al ripianamento del debito erariale in pendenza del fallimento, mentre la Corte territoriale anche in tal caso non ha specificato se e in che misura la somma in sequestro appartenga effettivamente al genus del profitto del reato nel senso prima chiarito.

Considerato in diritto

La sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla confisca, con rinvio per nuovo esame alla Corte di appello di Perugia.

1. Premesso che i primi due motivi di ricorso possono essere trattati unitariamente, riguardando, sotto profili distinti ma sovrapponibili, la statuizione sulla confisca, occorre preliminarmente richiamare le coordinate interpretative tracciate dalla giurisprudenza di legittimità in tema di confisca nei reati tributari. Al riguardo, deve innanzitutto rilevarsi che, a seguito dell’introduzione dell’art. 1, comma 143, della legge n. 244 del 24 dicembre 2007, anche rispetto ai reati tributari è divenuto applicabile l’istituto della confisca per equivalente di cui all’art. 322 ter cod. pen., originariamente introdotto dall’art. 31 della legge n. 300 del 29 settembre 2000, per il solo delitto di corruzione ex art. 321 cod. pen. Ora la previsione del 2007, che era formulata attraverso la tecnica del richiamo all’art. 322 ter cod. pen., ha trovato autonoma collocazione nell’art. 12 bis del d. lgs. 74/2000 (inserito dall’art. 10 del d.lgs. n. 158/2015), il cui primo comma dispone che “nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto”.

Dunque, come ribadito da questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 55482 del 20/07/2017, Rv. 271987), la confisca per equivalente deve essere obbligatoriamente disposta con la sentenza di condanna o di patteggiamento, anche in mancanza di sequestro, senza che ciò comporti alcuna violazione del diritto di difesa, potendo il destinatario ricorrere al giudice dell’esecuzione qualora si ritenga pregiudicato dai criteri adottati dal Pubblico Ministero nella selezione dei cespiti da confiscare. Deve tuttavia precisarsi che l’applicabilità della confisca per equivalente incontra un limite nell’eventuale declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.

Le Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza 31617 del 26/06/2015, Rv. 264437, ric. Lucci), hanno infatti affermato il principio secondo cui il giudice, nel dichiarare l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può applicare, a norma dell’art. 240 secondo comma n. 1, cod. pen., la confisca del prezzo del reato e, a norma dell’art. 322 ter cod. pen., la confisca del prezzo o del profitto del reato, sempre che si tratti di confisca diretta e vi sia stata una precedente pronuncia di condanna, rispetto alla quale il giudizio di merito permanga inalterato quanto alla sussistenza del reato, alla responsabilità dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come profitto o prezzo del reato.

All’esito di un articolato percorso argomentativo, contraddistinto da un costante confronto con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenze Varvara e Sud Fondi c. Italia in particolare) e della Corte costituzionale (sentenza n. 49 del 2015), le Sezioni Unite hanno infatti evidenziato che la confisca diretta del profitto desunto dal reato non presenta, nel caso disciplinato dall’art. 322 ter cod. pen., natura giuridica diversa dalla confisca del prezzo del reato, che a sua volta non presenta connotazioni di tipo punitivo, dal momento che in tal caso il patrimonio dell’imputato non viene intaccato in misura eccedente il pretium sceleris, direttamente desunto dal fatto illecito, e rispetto al quale l’interessato non avrebbe neppure titolo civilistico alla ripetizione, essendo frutto di un negozio contrario a norme imperative; al provvedimento di ablazione fa dunque difetto una finalità tipicamente repressiva, posto che l’acquisizione all’Erario finisce per riguardare una res che l’ordinamento ritiene non possa essere trattenuta dal suo avente causa, in quanto, per un verso, rappresentando la retribuzione per l’illecito, non è mai legalmente entrata a far parte del patrimonio del reo, mentre, sotto altro e corrispondente profilo, proprio per la specifica illiceità della causa negoziale da cui essa origina, assume i connotati della pericolosità intrinseca, non diversa dalle cose di cui è in ogni caso imposta la confisca, ai sensi dell’art. 240 secondo comma n. 2 cod. pen.

La logica che coinvolge e giustifica l’obbligatoria confisca del prezzo del reato in base alla generale previsione dettata dall’art. 240, secondo comma, cod. pen., è stata ritenuta non dissimile da quella che ha indotto il legislatore a introdurre previsioni speciali di confisca obbligatoria anche del profitto del reato, venendo in rilievo il comune profilo del lucro desunto dal reato, inteso come vantaggio economico ottenuto in via diretta e immediata dalla commissione del reato, e quindi legato da un rapporto di pertinenzialità diretta con l’illecito penale.

Si giustifica in tal modo l’attrazione, accanto al prezzo, anche del profitto del reato, all’interno di un nucleo unitario di finalità rispristinatoria dello status quo ante, secondo la medesima prospettiva volta a sterilizzare, in funzione essenzialmente preventiva, tutte le utilità che il reato, a prescindere dalle relative forme e dal relativo titolo, può aver prodotto in capo al suo autore.

Di qui la conclusione che il concetto di “condanna” necessario e sufficiente per procedere alla confisca anche nell’ipotesi in cui sia successivamente intervenuta la prescrizione del reato, deve essere “modulato”, per entrambe le figure di ablazione, in termini fra loro del tutto sovrapponibili, occorrendo cioè che l’accertamento della responsabilità confluisca in una pronuncia che, non solo sostanzialmente, ma anche formalmente, la dichiari, con la conseguenza che l’esistenza del reato, la circostanza che l’autore dello stesso abbia conseguito un vantaggio patrimoniale e che questo abbia rappresentato il prezzo o il profitto del reato stesso, devono aver formato oggetto di una condanna, i cui termini essenziali non abbiano, nel corso del giudizio, subito mutazioni quanto alla sussistenza di un accertamento “al di là dì ogni ragionevole dubbio”.

L’intervento della prescrizione, dunque, per poter consentire il mantenimento della confisca, deve rivelarsi quale formula terminativa del giudizio anodina in punto di responsabilità, finendo in tal modo per “confermare” la preesistente (e necessaria) pronuncia di condanna, secondo una prospettiva non dissimile da quella tracciata dall’art. 578 cod. proc. pen. in tema di decisione sugli effetti civili nel caso di sopravvenuta declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.

Un discorso diverso vale invece per la confisca per equivalente, che assolve una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile ed è pertanto connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la finalità principale delle misure di sicurezza, essendo in definitiva la confisca di valore parametrata al profitto o al prezzo dell’illecito solo da un punto di vista “quantitativo”, per cui la stessa non può che essere disposta solo all’esito di un giudizio di condanna, dovendosi appunto declinare la funzione della misura in chiave marcatamente sanzionatoria.

2. Ciò posto, assume dunque particolare rilievo l’individuazione dell’ambito di confiscabilità del profitto nei reati tributari, inteso come qualsivoglia vantaggio patrimoniale conseguito alla consumazione del reato, che può consistere anche in un “risparmio di spesa”, corrispondente cioè al mancato decremento del patrimonio del debitore che non adempie tempestivamente all’obbligazione tributaria (cfr. Sez. Un., n. 18374 del 31/01/2013, Rv. 255036, ric. Adami).

Ed invero, premesso che il profitto è confiscabile sia in forma diretta, ai sensi della generale previsione di cui all’art. 240 cod. pen., che per equivalente (Sez. 3, n. 23108 del 23/04/2013, Rv. 255446), è stato affermato che la confisca diretta del profitto di reato è comunque istituto ben distinto dalla confisca per equivalente (Sez. Un., n. 10561 del 30/01/2014, Rv. 258648, ric. Gubert).

La distinzione assume importanza soprattutto con riferimento al sequestro del denaro, bene fungibile per eccellenza, rispetto al quale si pone il problema di stabilire se lo stesso sia suscettibile di confisca diretta o per equivalente e di verificare, di conseguenza, se lo stesso possa essere oggetto di apprensione senza dover dimostrare l’esistenza di un nesso pertinenziale tra bene e reato, ovvero una relazione diretta tra il bene sequestrato e il reato del quale costituiva il profitto illecito, inteso quale utilità acquisita mediante la condotta criminosa.

A fronte di una pluralità di orientamenti che pervenivano a differenti conclusioni, vi è stato anche in materia l’intervento delle Sezioni Unite di questa Corte (con la già citata sentenza n. 31617 del 26/06/2015, Rv. 264437) che, sviluppando un concetto invero già espresso dalla sentenza n. 10561 del 30/01/2014, ric. Gubert, hanno evidenziato che, ove il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro, questa, non soltanto si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, ma perde, per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo, qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica.

Non avrebbe infatti alcuna ragione d’essere, né sul piano economico né su quello giuridico, la necessità di accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita: ciò che conta è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reo, per cui a rilevare è la prova della percezione illegittima della somma, non la sua materiale destinazione. Soltanto quindi nelle ipotesi in cui sia impossibile la confisca di denaro, sorge la eventualità di dare luogo a una confisca degli altri beni di cui disponga l’imputato e per un valore corrispondente a quello del prezzo o del profitto del reato, giacché in tal caso si avrebbe quella necessaria novazione soggettiva che costituisce il naturale presupposto per poter procedere alla confisca di valore.

Nel solco dei principi elaborati dalle Sezioni Unite, il tema è stato ulteriormente approfondito da due successive pronunce di questa Corte (Sez. 3, n. 28223 del 09/02/2016 non mass, e Sez. 3, n. 8995 del 30/10/2017, Rv. 272353), con le quali, applicando a contrario i principi sopra richiamati, si è anche precisato che la natura fungibile del denaro non consente però la confisca diretta delle somme depositate su conto corrente bancario del reo, ove si abbia la prova che le stesse non possano in alcun modo derivare dal reato e costituire, pertanto, profitto dell’illecito, come ad esempio nel caso in cui le predette somme siano corrispondenti a rimesse effettuate da terzi successivamente alla scadenza del termine per il versamento delle ritenute in esecuzione di un concordato preventivo, di talché le stesse neppure possono, evidentemente, rappresentare il risultato della mancata decurtazione del patrimonio quale conseguenza del mancato versamento delle imposte (in altri termini del “risparmio di imposta”).

In quest’ottica, ipotizzando che il contribuente sia titolare di un rapporto di conto corrente bancario o postale che, alla scadenza del termine per il pagamento dell’imposta, presenti un saldo negativo, è chiaro che il denaro versato successivamente non può essere ritenuto “profitto” del reato, ma unità di misura equivalente al debito tributario scaduto e non onorato. Qualora invece il conto bancario o postale presenti, alla scadenza, saldi attivi, il profitto dell’omesso versamento dell’imposta equivale al correlativo mancato decremento del saldo.

In definitiva, la natura fungibile del denaro non è sufficiente in questi casi a qualificare di per sé come “profitto” l’oggetto del sequestro, essendo necessario anche provare che la disponibilità della somma successivamente sequestrata costituisca essa stessa risparmio di spesa conseguito con il mancato versamento dell’imposta o che si tratti di liquidità rimasta nella disponibilità del contribuente. Tali puntualizzazioni, come detto, non si pongono in contrasto con i principi elaborati dalle Sezioni Unite con le sentenze n. 10561 del 2014 (ric. Gubert) e n. 31617 del 2015 (ric. Lucci), ma al contrario ne costituiscono un’applicazione, riferita in particolare alla peculiare tipologia dei reati tributari contraddistinti, come nel caso degli art. 10 bis e 10 ter del d. lgs. n. 74 del 2000, dall’omesso versamento di imposte dovute in base a specifiche dichiarazioni del contribuente.

3. Orbene, alla stregua di tali premesse condivise ermeneutiche, possono essere ora affrontati i primi due motivi di ricorso.

Al riguardo, precisato che la sentenza impugnata, confrontandosi con le censure difensive in punto di responsabilità dell’imputata, ha dichiarato l’estinzione per prescrizione del reato (omesso versamento dell’iva) per cui la T. era stata condannata in primo grado, deve ritenersi innanzitutto corretta la decisione della Corte territoriale di revocare parzialmente la confisca dei beni sequestrati con decreto del G.I.P. di Teramo il 24 agosto 2012, limitatamente ai beni immobili, risultando questi ultimi inquadrabili nello schema della confisca per equivalente.

Alla luce dei principi elaborati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 31617 del 2015 (ric. Lucci), non sarebbe stato infatti possibile il mantenimento della confisca in caso di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.

Viceversa, stante la sostanziale conferma del giudizio di colpevolezza della T., deve ritenersi consentita la sola confisca diretta del profitto del reato. Ribadita la correttezza di tale affermazione, occorre tuttavia verificare se, nel caso di specie, la qualificazione come profitto del reato degli altri beni sequestrati (in particolare del denaro), con conseguente operatività della confisca diretta, sia stata compiuta in coerenza con i canoni interpretativi in precedenza individuati. Come detto, infatti, per accertare se il denaro costituisce profitto, cioè risparmio di spesa, del reato di omesso versamento (e sia quindi aggredibile in via diretta), è necessario avere riguardo esclusivamente alle disponibilità liquide giacenti sui conti del contribuente al momento della scadenza del termine previsto per il pagamento del debito tributario, avuto riguardo ovviamente non all’identità fisica delle somme, ma al loro valore numerario, che potrà essere oggetto di sequestro (e poi di confisca) in via diretta, solo se di segno positivo sia al momento della scadenza del termine per il versamento dell’imposta, che del sequestro, con l’ulteriore conseguenza che il profitto non può essere mai considerato “diretto” per la parte eccedente il saldo alla data della scadenza del termine di pagamento, anche se non corrispondente all’ammontare dell’imposta evasa. Orbene, tale verifica è del tutto mancata nella sentenza impugnata, avendo i giudici di appello operato solo un generico richiamo alla nozione di profitto del reato tributario, senza tuttavia alcun riferimento né alla tipologia dei beni mobili sequestrati, né alla loro consistenza alla scadenza del termine per onorare il debito tributario (27 dicembre 2008) e al successivo momento del sequestro.

In definitiva, se può ritenersi corretta la conferma della confisca unicamente rispetto ai beni sequestrati in via diretta e non per equivalente, non ravvisandosi peraltro alcuna violazione del diritto di difesa sul punto, trattandosi di una legittima opzione ermeneutica riservata ai giudici di merito e di per sé inidonea a concretizzare alcuna reformatio in peius, deve viceversa ritenersi carente la motivazione della sentenza impugnata, relativamente alla qualificazione come confisca diretta del profitto del reato rispetto agli altri beni mobili sequestrati, essendo mancata al riguardo un’adeguata valutazione di merito, nei limiti che sono stati sin qui esposti, in ordine all’entità dei beni oggetto di cautela reale e alla loro effettiva disponibilità (e all’ammontare) sia al momento della scadenza del termine per il versamento dell’imposta dovuta, sia alla data del sequestro.

4. Ulteriore profilo di criticità del provvedimento impugnato deve essere infine individuato nella parte in cui è stato ritenuto irrilevante il successivo versamento dell’iva non versata nell’anno di imposta contestato (2007).

Al riguardo deve infatti evidenziarsi che l’art. 12 bis del d. lgs. 74 del 2000, dopo aver ribadito al comma 1, in una veste più organica rispetto all’originario art. 1 comma 143 della legge n. 244 del 2007, l’applicabilità dell’istituto della confisca per equivalente nell’ambito dei reati tributari, ha introdotto al comma 2 l’ulteriore previsione secondo cui “la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’Erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta”.

Non può quindi affermarsi che il sopravvenuto versamento dell’imposta sia privo di rilievo ai fini del mantenimento della confisca, tanto più ove si consideri che la norma sopra indicata non contiene un espresso riferimento agli interessi e alle sanzioni, dovendosi solo precisare che, come già evidenziato da questa Sezione (sentenze n. 28225 del 09/02/2016, Rv. 267334 e n. 5728 del 14/01/2016, Rv. 266037), la previsione di cui all’art. 12 bis d. lgs. n. 74 del 2000 si riferisce alle assunzioni di impegno nei termini riconosciuti e ammessi dalla legislazione tributaria di settore, come l’accertamento con adesione, la conciliazione giudiziale, la transazione fiscale, l’attivazione di procedure di rateizzazione automatica o a domanda, procedure queste nelle quali il computo e l’onere di versamento di sanzioni e interessi possono venire anche calibrati diversamente. Né comunque appare pertinente il richiamo della sentenza alla necessità di considerare “la totalità del credito vantato dall’Erario”, contemplando la predetta norma un meccanismo di non operatività della confisca ricollegabile potenzialmente anche a versamenti parziali del debito tributario (“la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’Erario…”).

Anche sotto tale aspetto, al di là delle considerazioni in precedenza formulate circa la qualificazione giuridica dei beni eventualmente suscettibili di confisca diretta, la sentenza impugnata non si sottrae pertanto alle censure difensive.

5. In conclusione, alla luce di quanto sinora esposto, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla statuizione sulla confisca, con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte di appello di Perugia.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla confisca e rinvia per nuovo giudizio sul punto alla Corte di appello di Perugia.