CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 7053 depositata il 28 febbraio 2022
Professionista – Commercialista – Soggetto non abilitato – Consumazione di un illecito penale – Accertamento
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Trieste ha confermato la sentenza del Tribunale di Udine del 11 settembre 2018 che condannava P.E. per il reato di cui all’art. 348 cod. pen. alla pena di mesi uno di reclusione e al risarcimento dei danni alla parte civile.
Si contesta all’imputata di avere continuato ad esercitare la professione di ragioniera commercialista sino all’ottobre 2016, pur essendo stata radiata dall’Albo dei Dottori commercialisti nel 2014, tenendo la contabilità, redigendo le dichiarazioni fiscali, inviando i bilanci ed elaborando i dati fiscali nei confronti del cliente Lega Italiana B.R.. L’imputata svolgeva tale attività sotto il nome di O.S.C.E.D., lavorando presso la propria abitazione.
2. Avverso la sentenza ricorre per cassazione la Peloso, a mezzo del difensore di fiducia, deducendo, come unico motivo, la violazione di legge in relazione alla mancata assoluzione dal reato di cui all’art. 348 cod. pen., posto che l’imputata dal 2002 fatturava come O.C., e cioè tramite il suo C.E.D.
Inoltre il teste S., già presidente della Lega, ha confermato di essere a conoscenza del fatto che la P. non era più iscritta all’Albo dei commercialisti.
L’elencazione di cui all’art. 1 del D.Igs. 1339/2005 enuncerebbe le attività cd. “caratteristiche ma non esclusive” il cui esercizio da parte dei non iscritti è ammesso. Tale attività possono determinare la consumazione di un illecito penale quando siano svolte da soggetto non abilitato con modalità tali da creare le apparenze della attività professionale svolta da soggetto abilitato (così SU 11545/2012). Nel caso di specie, le prove assunte in dibattimento hanno accertato l’assenza di qualsivoglia apparenza, avendo l’imputata avvertito il dirigente della Lega che non agiva nella qualifica di dottore commercialista, bensì di consulente della O.S..
3. Il PG ha chiesto l’inammissibilità del ricorso.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito indicate.
2. Deve, preliminarmente, osservarsi, che la norma incriminatrice di cui all’art. 348 cod. pen., che punisce chi “abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato”, trova la propria ratio nella necessità di tutelare l’interesse generale, di pertinenza della pubblica amministrazione, a che determinate professioni, richiedenti particolari requisiti di probità e competenza tecnica, vengano esercitate soltanto da chi, avendo conseguito una speciale abilitazione amministrativa, risulti in possesso delle qualità morali e culturali richieste dalla legge (in tal senso, testualmente, Sez. 6, n. 1207 del 15/11/1982, dep. 1985, Rossi, Rv. 167698).
Il titolare dell’interesse protetto è, quindi, soltanto lo Stato, e l’eventuale consenso del privato destinatario della prestazione professionale abusiva, come nel caso in esame, non può avere valore scriminante.
3. Costituisce ius receptum il principio di diritto, affermato nella sentenza SU Cani, richiamata dal ricorrente, secondo il quale concreta esercizio abusivo di una professione, punibile a norma dell’art. 348 cod. pen., non solo il compimento senza titolo, anche se posto in essere occasionalmente e gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via esclusiva a una determinata professione, ma anche il compimento senza titolo di atti che, come nel caso in esame, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva, siano univocamente individuati come di competenza specifica di una data professione, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e (almeno minimale) organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato.
Ciò è esattamente quello aveva fatto l’imputata, la quale, come puntualmente evidenziato nella sentenza impugnata, non si era limitata a porre in essere un singolo atto, ma aveva svolto per conto della Lega Italiana B.R. una attività sistematica e complessa di consulenza ed assistenza nella redazione di vari documenti, attività costituita da una molteplicità di atti, dando vita a una condotta abituale e continuativa, coerentemente con il carattere del delitto contestato.
4. Infine, deve evidenziarsi che – a differenza di quanto sostenuto dalla ricorrente – lo schermo societario (tale dovendosi ritenere la O.S. alla luce del fatto come accertato) non fa venir meno il carattere personale della prestazione e l’apparenza dell’esercizio di attività professionale da parte di soggetto non abilitato.
5. Deve, quindi, concludersi che, in applicazione dell’indicato principio con riguardo alla professione di dottore commercialista e di consulente del lavoro, la Corte di appello di Trieste, in piena e corretta adesione alle affermazioni di questa Corte — puntualmente segnate dalla sentenza a Sezioni Unite n. 11545 del 2012 dalle cui persuasive conclusioni questo Collegio non ha ragione di discostarsi — ha debitamente valutato le attività svolte dall’imputata, per poi apprezzarne la piena riconducibilità alla contestata fattispecie di reato.
6. Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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