CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 8168 depositata il 2 marzo 2020
Lavoratore – Lesioni personali gravi – Responsabilità datoriale – Imperizia e imprudenza e per inosservanza delle norme antinfortunistiche – Macchinario sprovvisto di adeguata protezione
Ritenuto in fatto
1. La Corte d’appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale di Ravenna, con la quale B.G. e B.R.G.A. erano stati condannati, nelle rispettive qualità di datore di lavoro – presidente del C.d.A. e legale rappresentante della V. S.p.A. – e di direttore di stabilimento, per il reato di cui all’art. 590, commi 2 e 3, cod. pen. ai danni del lavoratore dipendente P.M.
Si è contestato agli imputati di avere causato al predetto P. le lesioni personali gravi, meglio descritte in imputazione, per imperizia e imprudenza e per inosservanza delle norme antinfortunistiche di cui all’art. 71 comma 1, in relazione all’art. 70 comma 2, d.lgs. 81 del 2008. In particolare, nell’occorso, il P. stava svolgendo un test di resistenza all’abrasione di un campione di materiale, utilizzando un abrasimetro, macchinario costituito da un supporto fisso semicircolare (sul quale si fissava il campione da testare) e da un carrellino a movimento alternato (sul quale era applicata una striscia di materiale abrasivo). Nel corso del test, il lavoratore aveva inavvertitamente appoggiato la mano sinistra nella parte posteriore del carrellino che, nel completare la fase di ritorno, gli aveva schiacciato l’apice del dito medio contro la parte fissa dell’abrasimetro, causandogli le lesioni descritte in imputazione.
2. Avverso la sentenza d’appello hanno proposto ricorsi entrambi gli imputati, con gli stessi difensori, ma con separati atti.
2.1. L’imputato B.G. ha formulato tre motivi.
Con il primo, ha dedotto inosservanza e violazione di legge, oltre a vizio di mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento alla valutazione del comportamento tenuto nell’occorso dalla vittima, che assume tale da avere eliso il nesso causale tra le condotte omissive ascritte e l’evento verificatosi. Nel corso del giudizio era infatti emerso, secondo la ricostruzione difensiva, che al lavoratore era stato impartito un corso specifico generale sulle attrezzature da utilizzare in laboratorio e che lo stesso aveva già utilizzato quel macchinario e lavorato in precedenza in altri laboratori, cosicché egli doveva considerarsi lavoratore esperto e formato rispetto all’utilizzo delle attrezzature di laboratorio.
Sotto altro profilo, la difesa ha contestato il giudizio controfattuale operato dai giudici di merito, rilevando come fosse stato lo stesso lavoratore ad affermare che, una volta avviata, la macchina non necessitava di altri interventi umani.
Con il secondo motivo, la difesa ha dedotto inosservanza e violazione della legge, nonché vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, avuto riguardo alla valutazione della condotta ascritta all’imputato, tenuto conto delle caratteristiche del macchinario, alla luce delle dichiarazioni del proprio consulente di parte, il quale aveva affermato che la macchina aveva un’unica velocità, che era decisamente lenta e che, in ogni caso, consentiva di scongiurare eventi dannosi, trattandosi di attrezzo il cui funzionamento era estremamente semplice.
Con il terzo motivo, infine, la difesa ha dedotto inosservanza e violazione della legge, nonché vizio di mancanza e contraddittorietà della motivazione in relazione al diniego delle attenuanti generiche e della sostituzione della pena detentiva con quelle pecuniaria.
2.2. L’imputato B.R.G.A. ha formulato quattro motivi.
Il primo, il secondo e il quarto motivo sono sostanzialmente sovrapponibili ai motivi dedotti nell’interesse del coimputato e ad essi si rinvia per comodità espositiva.
Con il terzo, invece, la difesa ha dedotto inosservanza e violazione di legge, nonché vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione quanto alla riconosciuta posizione di garanzia dell’imputato, nella qualità di direttore dello stabilimento.
In particolare, si è evidenziato come l’infortunio fosse avvenuto all’interno di un laboratorio della V. che costituisce unità totalmente autonoma, rispetto alla quale il B. non aveva alcuna posizione di effettivo governo del rischio, né era mai stato investito di compiti attinenti alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, o di poteri di spesa, non essendo stato mai delegato in ordine alla materia antinfortunistica aziendale. Né tali compiti potevano ricavarsi dal mansionario aziendale, dal quale risultava la sua investitura con compiti attinenti alla gestione dello stabilimento quanto alle aree produttive, alla manutenzione, alla logistica e ai rimanenti servizi, oltre che alla gestione delle risorse umane, ai rapporti sindacali e alla partecipazione alle riunioni della direzione operativa.
Nella manutenzione delle aree assegnategli non figurava il laboratorio teatro dell’infortunio, il responsabile di esso essendo tale sig. B., come pure dichiarato dalla persona offesa. Sotto altro profilo, la difesa ha rilevato il difetto di prova che il B. fosse stato destinatario di comunicazioni o interventi da parte del responsabile per la sicurezza e prevenzione, ing. A.
Considerato in diritto
1. I ricorsi sono inammissibili.
2. La Corte felsinea ha ritenuto infondati gli appelli degli imputati, rilevando, con riguardo alla contestata prevedibilità del fatto (argomentata, secondo quanto riportato nella sentenza impugnata, sulla scorta: dell’imprudente comportamento della vittima, ammesso dallo stesso P.; dell’eccentricità delle mansioni svolte, invero limitate alla preparazione del macchinario, compresi accensione e spegnimento; della conoscenza del macchinario da parte del P., lavoratore esperto e specificamente formato; dell’adeguata segnalazione del pericolo derivante dalle componenti del macchinario), che il comportamento della vittima non consentiva di escludere il nesso causale tra le condotte contestate e l’evento, non avendo costui tenuto un contegno assolutamente imprevedibile o esorbitante dalle sue mansioni, la scarsa accortezza dimostrata nell’appoggiare l’arto sul carrello in movimento rientrando ampiamente nel catalogo dei rischi preventivabili, come dimostrava la stessa segnaletica di avvertimento apposta al macchinario.
Sotto altro profilo, quel giudice ha valorizzato l’inesperienza del lavoratore, neoassunto, e l’inadeguatezza della formazione ricevuta, avvenuta nella specie solo per affiancamento.
In ogni caso, la Corte di merito ha rilevato che il comportamento non poteva considerarsi esorbitante rispetto alle ordinarie mansioni della persona offesa, alla luce della prassi osservata in quel laboratorio, in base alla quale si procedeva all’accertamento del corretto svolgimento del test di resistenza subito dopo l’attivazione dell’abrasimetro, cosicché la condotta della vittima non avrebbe potuto, in ogni caso, assurgere a causa esclusiva delle gravi lesioni riportate.
Quanto al giudizio controfattuale, la Corte bolognese ha precisato che gli accertamenti sul luogo dell’incidente avevano consentito di acclarare che il macchinario era sprovvisto di un carter protettivo, avente proprio la funzione di impedire il contatto tra le parti meccaniche e gli operatori addetti al laboratorio e l’assoluta necessità di tale dotazione di sicurezza era stata affermata dal tecnico ASL escusso quale teste, il quale aveva convintamente sostenuto che la presenza di quel presidio di sicurezza avrebbe sicuramente scongiurato l’evento.
Con specifico riferimento al trattamento sanzionatorio, inoltre, i giudici territoriali hanno ritenuto debitamente giustificate la mancata applicazione della pena pecuniaria alternativa alla detentiva e la mancata conversione della pena detentiva in sanzione pecuniaria alla stregua dei parametri di cui all’art. 133 cod. pen. avuto riguardo all’entità delle lesioni cagionate, dalle quali era derivata anche un’invalidità permanente, e al mancato risarcimento del danno. Oltre a ciò, la Corte d’appello ha rilevato che le cautele pretermesse erano di facile e immediata adozione, ciò che aveva reso l’omissione contestata particolarmente censurabile, e, quanto alle attenuanti generiche, infine, l’assenza di elementi positivi e l’attestazione della pena sui minimi edittali.
Con specifico riferimento, invece, alle censure riguardanti il solo imputato B.R.G.A. e, segnatamente, alla qualità di garante del medesimo, la Corte di Bologna ha ritenuto le stesse parimenti infondate, avuto riguardo alla qualifica ricoperta, alla quale erano ricollegati, già sulla scorta del mansionario aziendale, compiti riguardanti le aree produttive, i servizi di manutenzione e le relazioni sindacali interne, elementi ritenuti indicativi della sua posizione di soggetto in stretto e diretto contatto con l’intera realtà aziendale. Alla luce di tali elementi fattuali, ha perciò ritenuto del tutto ininfluente l’asserita autonomia del laboratorio ove era avvenuto l’infortunio e la concorrente responsabilità datoriale. Rispetto a quest’ultima, peraltro, ha osservato che essa valeva ad esonerare l’imputato dai profili di responsabilità ricollegabili alla sua, diversa qualità di garante: la posizione apicale rivestita avrebbe richiesto, infatti, l’assolvimento dei propri obblighi mediante l’attivazione degli strumenti a disposizione, eventualmente ponendo all’attenzione di chi aveva il potere di spesa le problematiche che la sua costante presenza in azienda gli consentiva di individuare prima di altri.
3. Tutti i motivi sono manifestamente infondati.
3.1. Richiamato il consolidato orientamento per il quale sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr. sez. 6 n 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482), stante la preclusione per questo giudice di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (cfr. sez. 6 n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099), vanno ulteriormente calibrati i confini del vizio della motivazione deducibile in sede di legittimità.
È vero che – a seguito della modifica apportata all’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen. dall’art. 8, comma primo, della legge n. 46 del 2006 – il legislatore ha esteso l’ambito della deducibilità di tale vizio anche ad altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame, così introducendo il travisamento della prova quale ulteriore criterio di valutazione della contraddittorietà estrinseca della motivazione il cui esame nel giudizio di legittimità deve riguardare uno o più specifici atti del giudizio, non il fatto nella sua interezza (cfr. sez. 3 n. 38341 del 31/01/2018, Ndoja, Rv. 273911); ma è altrettanto pacifico che, anche a seguito di tale modifica, resta pur sempre non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (cfr. sez. 3 n. 18521 dell’11/01/2018, Ferri, RV. 273217; sez. 6 n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099, cit.).
In ogni caso, va ricordato che un ricorso per cassazione che deduca il travisamento (e non soltanto l’erronea interpretazione) di una prova decisiva, ovvero l’omessa valutazione di circostanze decisive risultanti da atti specificamente indicati, impone di verificare l’eventuale esistenza di una palese e non controvertibile difformità tra i risultati obiettivamente derivanti dall’assunzione della prova e quelli che il giudice di merito ne abbia inopinatamente tratto, ovvero di verificare l’esistenza della decisiva difformità, fermo restando il divieto di operare una diversa ricostruzione del fatto, quando si tratti di elementi privi di significato indiscutibilmente univoco (cfr. sez. 4 n. 14732 dell’01/03/2011, Molinari, Rv. 250133).
3.2. Quanto ai principi regolatori in materia antinfortunistica, poi, deve premettersi che il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza, ha l’obbligo non solo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all’art. 2087 cod. civ., egli è costituito garante dell’incolumità fisica dei prestatori di lavoro [cfr. sez. 4 n. 4361 del 21/10/2014 Ud. (dep. 29/01/2015), Ottino, Rv. 263200].
Peraltro, in ordine alla ripartizione degli obblighi di prevenzione tra le diverse figure di garanti nelle organizzazioni complesse, il Supremo Collegio di questa Corte ha definitivamente chiarito che gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro possono essere sì trasferiti (con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al delegante), a condizione che il relativo atto di delega ex art. 16 del d.lgs. n. 81 del 2008 riguardi un ambito ben definito e non l’intera gestione aziendale, sia espresso ed effettivo, non equivoco ed investa un soggetto qualificato per professionalità ed esperienza che sia dotato dei relativi poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa (cfr. Sez. U. n. 33343 del 24/04/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261108).
Anche più di recente, del resto, si è affermato il principio in materia di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro, diretto precipitato di quelli già richiamati, secondo cui, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell’obbligo di tutela impostogli dalla legge per cui l’omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari di tale posizione [cfr. sez. 4 n. 6507 dell’11/01/2018, Caputo, Rv. 272464; già in precedenza cfr. sez. 4 n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo, Rv. 253850 (in un caso in cui era stata dedotta l’esistenza di un preposto di fatto)].
3.3. Con specifico riferimento, poi, alla posizione di garanzia del direttore di stabilimento, quale era incontestabilmente il B.R.G.A., oltre ad apprezzarsi nella sentenza congrua risposta alle doglianze difensive riproposte in ricorso, deve rilevarsene la coerenza con i principi più volte ribaditi da questa Corte di legittimità.
In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, si è infatti ritenuto che, ai fini dell’individuazione del garante nelle strutture aziendali complesse, occorre fare riferimento al soggetto espressamente deputato alla gestione del rischio con la conseguenza che è riconducibile alla sfera gestionale del direttore di stabilimento, con delega in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, la sottoposizione degli impianti a regolare manutenzione, al fine di rilevare ed eliminare eventuali difetti pericolosi per la sicurezza e la salute dei lavoratori (cfr. sez. 4 n. 18409 del 28/03/2018, Oberti, Rv. 272802, in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva riconosciuto la responsabilità del direttore di stabilimento per l’infortunio occorso a un lavoratore che aveva compiuto una pericolosa operazione per supplire a un difetto di funzionamento di un macchinario, di cui il direttore di stabilimento non era a conoscenza, per non avere predisposto e verificato che il servizio di manutenzione ponesse in essere i necessari controlli e lo tenesse costantemente informato sui loro esiti).
Deve, pertanto, ritenersi generalmente riconducibile alla sfera di responsabilità del preposto l’infortunio occasionato dalla concreta esecuzione della prestazione lavorativa, a quella del dirigente il sinistro riconducibile al dettaglio dell’organizzazione dell’attività lavorativa e a quella del datore di lavoro, invece, l’incidente derivante da scelte gestionali di fondo (cfr. sez. 4 n. 22606 del 04/04/2017, Minguzzi, Rv. 269972).
Nella specie, la difesa ha asserito l’autonomia del solo laboratorio a cui era addetto il lavoratore infortunato, rispetto a tutta la realtà produttiva, laddove il richiamo al mansionario aziendale dava conto delle conclusioni rassegnate dai giudici di merito in ordine alla posizione apicale assunta dall’imputato rispetto a una realtà produttiva nella quale era incontestabilemnte inserito anche quel laboratorio.
3.4. Anche per quanto riguarda il nesso eziologico, con specifico riferimento al giudizio controfattuale che la difesa ha ritenuto positivamente risolvibile in favore degli imputati e alla rilevanza del comportamento imprudente del lavoratore, emerge una congrua risposta da parte del giudice dell’appello. Questi ha, infatti, obiettato alle considerazioni difensive fornendo del proprio convincimento una spiegazione in questa sede non sindacabile, rispetto alla quale mette conto evidenziare la manifesta infondatezza degli assunti difensivi (secondo cui i connotati del macchinario e le mansioni del lavoratore rispetto ad esso avrebbero reso imprevedibile il rischio di infortuni e il comportamento imprudente del lavoratore avrebbe interrotto il nesso eziologico tra le omissioni contestate e l’evento) che si annida nella semplice considerazione, chiaramente espressa dalla Corte d’appello bolognese e con la quale la difesa ha omesso di confrontarsi, che la dotazione del presidio di sicurezza omesso era inteso a prevenire proprio le conseguenze di contatti accidentali tra macchinario e operatore, anche dovuti a inaccortezza di quest’ultimo.
3.5. Alla stregua di tali principi, deve pertanto concludersi nel senso che la Corte del merito ha debitamente svolto, attraverso il richiamo alla prova orale assunta, la verifica demandatale, sulla scorta di un giudizio meramente ipotetico, per verificare se il comportamento omesso avrebbe, con un alto grado di probabilità logica, impedito o significativamente ritardato il verificarsi dell’evento o comunque ridotto l’intensità lesiva dello stesso (sui connotati del quale pare sufficiente, in questa sede, un rinvio ai principi consolidatisi dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2002, Franzese in avanti e più di recente con la sentenza delle Sezioni Unite Espenhahn e altri del 2014, citata).
3.6. Con riferimento, poi, alla rilevanza – sotto il profilo causale – della condotta imprudente o negligente del lavoratore, le doglianze difensive sono infondate anche alla stregua dell’orientamento (cfr., sul punto, sez. 4 n. 8883 del 10/02/2016, Santini e altro, Rv. 266073) secondo cui, in materia di prevenzione antinfortunistica, si è passati da un modello “iperprotettivo”, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori facessero un corretto uso, imponendosi contro la loro volontà), ad un modello “collaborativo” in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori, in tal senso valorizzando il testo normativo di riferimento, il quale impone anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e agire con diligenza, prudenza e perizia (cfr. art. 20 d.lgs. 81/2008).
Orbene, pur dandosi atto che si è da tempo individuato il principio di auto responsabilità del lavoratore, una volta abbandonato il criterio esterno delle mansioni, sostituito con il parametro della prevedibilità, intesa come dominabilità umana del fattore causale (cfr., in motivazione, sez. 4 n. 41486 del 2015, Viotto), passandosi, a seguito dell’introduzione del d.lgs 626/94 e, poi, del T.U. 81/2008, dal principio “dell’ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore” al concetto di “area di rischio” (sez. 4, n. 21587 del 23.3.2007, Pelosi, Rv. 236721) che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva, tuttavia, deve pure osservarsi come resti in ogni caso fermo il principio che non può esservi alcun esonero di responsabilità all’interno dell’area di rischio, nella quale si colloca l’obbligo datoriale di assicurare condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati del lavoratore (cfr. sez. 4 n. 21587 del 2007, Pelosi, cit.).
All’interno dell’area di rischio considerata, quindi, deve ribadirsi il principio per il quale la condotta del lavoratore può ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo, non tanto ove sia imprevedibile, quanto, piuttosto, ove sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (cfr. sez. 4 n. 15124 del 13712/2016, dep. 2017, Gerosa e altri, Rv. 269603; cfr. sez. 4 n. 5007 del 28/11/2018, dep. 2019, PMT c/ Musso Paolo, rv. 275017); oppure ove sia stata posta in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e, come tale, al di fuori di ogni prevedibilità da parte del datore di lavoro, oppure vi rientri, ma si sia tradotta in qualcosa che, radicalmente quanto ontologicamente, sia lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (cfr. sez. 4 n. 7188 del 10/01/2018, Bozzi, Rv. 272222).
3.7. Parimenti, non si rinviene – nella risposta approntata dalla Corte d’appello alle doglianze formulate con il gravame di merito – alcuna lacuna motivazionale idonea a inficiare il complessivo ragionamento probatorio svolto nella sentenza in questa sede censurata. In ogni caso, questa Corte ritiene di ribadire il consolidato principio secondo cui non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando risulti che la stessa sia stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata (cfr. sez. 1 n. 27825 del 22/05/2013, Caniello e altri, Rv. 256340; sez. 5 n. 6746 del 13/12/2018, dep. 2019, Currò Nicola, Rv. 275500). Trattasi di principi sui quali è da ultimo ritornato il Supremo Collegio di questa Corte, ritenendo non revocabile in dubbio la legittimità del ricorso alla motivazione implicita che non costituisce l’opposto di quella esplicita, bensì «una particolare tecnica espositiva, caratterizzata dal proporre un’argomentazione, espressa a giustificazione di una determinata statuizione, in funzione di giustificazione anche di altra statuizione, sul presupposto di una stretta conseguenzialità logica e giuridica tra quanto affermato a riguardo della prima e quanto valevole per la seconda». Cosicché, deve concludersi che, nella motivazione implicita, manca il testo grafico ma non il discorso argomentativo [cfr., in motivazione, Sez. Un. n. 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, Schettino e altri (in cui si è altresì precisato che il ricorso alla motivazione implicita, oltre a trovare riscontro nella disciplina processuale, là dove essa impone che la sentenza contenga “una concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto” su cui è fondata (art. 544, primo comma e 546, primo comma, lett. e, cod. proc .pen.), è altresì compatibile con il diritto a un processo equo ex art. 6 della C.E.D.U., come interpretato dalla Corte di Strasburgo (richiamando in motivazione la sentenza della Quarta Sezione del 24.07.2015, nella causa Chipani ed altri c. Italia)].
3.8. Infine, la Corte territoriale ha adeguamente giustificato la propria decisione in ordine al trattamento sanzionatorio, attingendo a criteri a tal fine utilizzabili alla luce del disposto di cui all’art. 133 cod. pen. e assolvendo in tal modo all’onere di fornire giustificazione dell’utilizzo del riconosciuto potere discrezionale nella individuazione della pena. Quanto, poi, al diniego delle circostanze attenuanti generiche, la stessa ratio della disposizione di cui all’art. 62-bis cod. pen. non impone al giudice di merito di esprimere una valutazione circa ogni singola deduzione difensiva, essendo, invece, sufficiente l’indicazione degli elementi di preponderante rilevanza ritenuti ostativi alla concessione delle attenuanti (cfr. sez. 2 n. 3896 del 20/01/2016, Rv. 265826; sez. 7 n. 39396 del 27/05/2016, Rv. 268475; sez. 4 n. 23679 del 23/04/2013, Rv. 256201), rientrando la concessione delle stesse nell’ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo (cfr. sez. 6 n. 41365 del 28/10/2010, Rv. 248737), non essendo neppure necessario esaminare tutti i parametri di cui all’art. 133 cod. pen., ma sufficiente specificare a quale si sia inteso far riferimento (cfr. sez. 1 n. 33506 del 07/07/2010, Rv. 247959).
Da tale premessa, può ricavarsi, dunque, che una simile funzione ha modo di esplicarsi efficacemente solo per rimuovere il limite posto al giudice con la fissazione del minimo edittale, allorché questi intenda determinare la pena al di sotto di tale limite, con la conseguenza che, ove questa situazione non ricorra, perché il giudice valuta la pena da applicare al di sopra del limite, il diniego della prevalenza delle generiche diviene solo elemento di calcolo e non costituisce mezzo di determinazione della sanzione e non può, quindi, dar luogo né a violazione di legge, né al corrispondente difetto di motivazione (cfr. sez. 3 n. 44883 del 18/07/2014, Rv. 260627).
4. Alla inammissibilità dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità (cfr. C. Cost. n. 186/2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila ciascuno a favore della Cassa delle ammende.