CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 8809 depositata il 4 marzo 2021
Reati tributari – Sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente – Simulazione di contratti di appalto di servizi – Illecita somministrazione di manodopera nel settore turistico e della ristorazione – Emissione di fatture per operazioni inesistenti
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 17/07/2020, il Tribunale di Ravenna, in parziale riforma del decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, disposto in relazione ai reati di cui agli artt. 416 cod.pen., 2 e 8 d.lgs 74/2000, emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Ravenna il 15/06/2020, annullava – per quanto rileva in questa sede – il predetto decreto con riguardo ai capi B) e D) e rideterminava l’importo del sequestro eseguito nei confronti degli indagati B.A., M.M. e L.C..
Il Tribunale dava atto, in premessa, che la vicenda cautelare scaturiva da una verifica fiscale eseguita dalla Guardia di Finanza di Ravenna nei confronti della società M.S.S.r.l. (operante nel settore della gestione di servizi di Hotellerie-Restaurant-Cafè) finalizzata al controllo dell’adempimento delle disposizioni tributarie in materia I.V.A., imposte sui redditi ed altri tributi, all’esito della quale veniva prospettata un’attività di illecita somministrazione di manodopera operata dalla predetta società in favore di varie imprese del settore turistico e della ristorazione, dissimulata attraverso la stipulazione di fittizi contratti di appalto di servizi, ex art. 29 d.lgs n. 276/2003.
L’illecita somministrazione sarebbe stata fornita nel periodo compreso tra il 2013 ed il 2016 ad un numero considerevole di ditte e, a fronte delle prestazioni rese, la M. aveva emesso fatture che documentavano prestazioni di servizi, relativi a contratti di appalto, diverse rispetto a quelle realmente effettuate, consistite in mera somministrazione di personale; tali fatture erano, quindi, da considerarsi come relative ad operazioni giuridicamente inesistenti. A sostegno della natura fittizia o simulata dei contratti di appalto venivano richiamate le seguenti circostanze: a) indicazione da parte degli stessi committenti del personale da assumere da parte della M., spesso già alle dipendenze della committente; b) inserimento stabile del personale nel ciclo produttivo del committente; c) proprietà in capo al committente delle attrezzature necessarie per l’espletamento dell’attività ovvero prese a noleggio dallo stesso committente; d) organizzazione da parte del committente dell’attività del personale; e) mancanza di assunzione del rischio di impresa da parte della M..
Di qui il fumus della ipotesi di intermediazione illecita di manodopera di cui all’art. 18, comma 1 e 2 del d.lgs 276/2003 e dei reati tributari di cui agli artt. 2 ed 8 d.lgs 74/2000 per inesistenza giuridica delle operazioni sottese alle fatture emesse.
2. Avverso tale ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione B.A., M.M. e L.C., a mezzo del difensore di fiducia, articolando sei motivi di seguito enunciati.
Con il primo motivo deducono violazione degli artt. 416 cod.pen. e 321 cod. proc. pen.
Argomentano che il Tribunale del riesame aveva espresso una motivazione carente in ordine al fumus commissi delicti in relazione al reato di cui all’art. 416 cod.pen,. valorizzando unicamente due elementi – asserita unicità dell’attività svolta dalla M. S. s.r.l. e la sussistenza in capo agli indagati B.A., M.M. e L.C. dell’accordo associativo, in virtù del vincolo sociale, omettendo ogni analisi fattuale sul punto; di qui, l’apparenza della motivazione.
Con il secondo motivo deducono difetto di motivazione in ordine al fumus commissi delicti in relazione agli illeciti di cui all’art. 18 d.lgs 276/2003 e 2 d.lgs 74/2000.
Argomentano che il Tribunale non aveva valutato alcuni elementi di fatto decisivi, emergenti dalla documentazione acquisita al fascicolo delle indagini preliminari e posti a fondamento della richiesta di misura ablatoria avanzata dal pubblico ministero; del pari, non aveva valutato compiutamente le dichiarazioni rilasciate dalle persone informate sui fatti, senza considerare che esse coinvolgevano un numero limitatissimo di lavoratori; tali risultanze probatorie comprovavano tutte che lo schema di contratto di appalto utilizzato dalla M. S. s.r.l. era legittimo ed univa in sé le caratteristiche tanto degli appalti endoaziendali quanto quelli del cd labour intensive.
Con il terzo motivo deducono violazione di legge in relazione all’art. 416 cod.pen. per carenza del fumus commissi delicti.
Argomentano che il Tribunale non aveva considerato che, sulla base delle imputazioni provvisorie, gli attuali ricorrenti avevano fatto parte della compagine sociale, quali legali rappresentanti, in periodi diversi e, quindi, la l’associazione a delinquere sarebbe stata composta solo da due associati e, pertanto, era insussistente.
Con il quarto motivo deducono vizio di motivazione in relazione all’art. 416 cod.pen. per carenza del fumus commissi delicti.
Argomentano che erroneamente il Tribunale aveva assimilato la società ad una struttura criminosa sorta allo scopo specifico di commettere reati, essendo assenti il vincolo permanente e l’indeterminatezza del programma criminoso; al più, poteva configurarsi un’ipotesi di concorso di persone nel reato ai sensi dell’art. 110 cod.pen.
Con il quinto motivo deducono violazione dell’art. 2 d.lgs 74/2000.
Argomentano che non era condivisibile l’assunto del Tribunale che i contratti di noleggio avevano natura simulata perché accessori ai contratti simulati di appalto; anche ponendosi nell’ottica accusatoria, secondo cui la natura simulata dei contratti di appalto avrebbe celato l’illecita somministrazione di manodopera, tale simulazione non poteva riverberarsi anche sul noleggio delle attrezzature; i beni strumentali erano effettivamente utilizzati dai dipendenti ed i canoni di noleggio erano regolarmente versati e, quindi, l’operazione non poteva configurarsi come inesistente.
Con il sesto motivo deducono violazione degli artt. 321 cod.proc.pen. e 322- ter cod.pen.
Argomentano che il Tribunale aveva disposto il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente di somme oggetto di annullamento della pretesa erariale da parte del Giudice tributario, interpretando in maniera non condivisibile l’annullamento dell’avviso di accertamento disposto in autotutela della Agenzia delle Entrate come non riferibile ai costi di noleggio.
Chiedono, pertanto, l’annullamento della ordinanza impugnata.
Considerato in diritto
1. Il ricorso va rigettato.
2. Va osservato, in premessa, che, in tema di sequestro preventivo, la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare da parte del tribunale del riesame o della corte di cassazione non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale, rimanendo preclusa ogni valutazione riguardo alla sussistenza degli indizi di colpevolezza ed alla gravità degli stessi (Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Rv.215840 – 01); non è necessario, quindi, valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico della persona nei cui confronti è operato il sequestro, essendo sufficiente che sussista il fumus commissi delicti, vale a dire la astratta sussumibilità in una determinata ipotesi di reato del fatto contestato (Sez. 1, n. 18491 del 30/01/2018,Rv.273069 – 01; Sez. 1,n. 18491 del 30/01/2018, Rv.273069 – 01), con la precisazione che il Giudice deve, comunque, verificare in modo puntuale e coerente gli elementi in base ai quali desumere l’esistenza del reato astrattamente configurato, in quanto la “serietà degli indizi” costituisce presupposto per l’applicazione delle misure cautelari reali (Sez.3, n.37851 del 04/06/2014, Rv.260945 Sez.5,n.3722 del 11/12/2019, dep.29/01/2020, Rv.278152 – 01).
Va, poi, ricordato che il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli errores in iudicando o in procedendo, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e, quindi, inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692 Sez. 5, n. 43068 del 13.10.2009, Rv. 245093; sez. 6, n. 6589 del 10.1.2013, Rv. 254893).
Il ricorso per cassazione per violazione di legge, a norma dell’art. 325, comma 1 cod. proc. pen., quindi, può essere proposto solo per mancanza fisica della motivazione o per la presenza di motivazione apparente, ma non per mero vizio logico della stessa; il vizio logico, infatti, va distinto dalla motivazione meramente apparente essendo il primo configurabile solo in relazione ad una motivazione presente (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, Rv. 226710; Sez. 5, n. 35532 del 25/06/2010, Angelini, Rv. 248129).
3. Tanto premesso, i primi quattro motivi di ricorso, che vanno esaminati congiuntamente in quanto oggettivamente connessi perché tutti afferenti alla sussistenza del fumus commissi delicti, sono infondati.
Il fumus commissi delicti è stato ben valutato dal Tribunale, che, in aderenza alla imputazione ed alle risultanze istruttorie (verifica della Guardia di Finanza, dichiarazioni rese da persone informate sui fatti), ha rimarcato, quanto agli illeciti di cui all’art. 18 d.lgs 276/2003 e 2 d.lgs 74/2000, i seguenti elementi: la società M. S. s.r.l. aveva posto in essere, in un arco temporale dall’anno 2013 all’anno 2016, un’attività di illecita somministrazione di manodopera in favore di varie imprese del settore turistico e della ristorazione, attività dissimulata attraverso la stipulazione di fittizi contratti di appalto di servizi, ex art. 29 d.lgs n. 276/2003; la simulazione dei contratti di appalto emergeva dalla circostanza che la M. si era limitata alla mera gestione amministrativa della posizione relativa ai lavoratori impiegati presso le società committenti senza svolgere una reale organizzazione della prestazione lavorativa, che, in realtà, veniva diretta totalmente dai vari committenti; le fatturazioni effettuate dalla M. in relazione alla attività in questione rilevavano ai fini della responsabilità per il reato di cui all’art. 2 d.lgs 74/2000 perché relative ad operazioni inesistenti stante la diversità tra il soggetto che aveva realmente effettuato la prestazione e quello indicato in fattura.
La valutazione del Tribunale è giuridicamente corretta, alla luce dei principi di diritto di seguito enunciati.
Va ricordato che, in tema di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro, la distinzione tra contratto di appalto e quello di somministrazione di manodopera è determinata non solo dalla proprietà dei fattori di produzione, ma anche dalla organizzazione dei mezzi e dalla assunzione effettiva del rischio d’impresa, in assenza dei quali si configura una mera fornitura di prestazione lavorativa che, se effettuata da soggetti non autorizzati, è sottoposta alla sanzione penale di cui all’art. 18 del D.Lgs. 10 settembre 2003 n. 276 (Sez.3,n.27866 del 05/06/2015, Rv.264200 – 01).
È configurabile, inoltre, il concorso fra la contravvenzione di cui all’art. 18 d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 ed il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti ai fini dell’IVA, nel caso di utilizzo di fatture rilasciate da una società che ha effettuato interposizione illegale di manodopera (Sez.3,n.20901 del 26/06/2020, Rv.279509 – 02). In particolare, si è costantemente affermato il principio secondo cui il reato di utilizzazione fraudolenta in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti (art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000) è integrato, con riguardo alle imposte dirette, dalla sola inesistenza oggettiva, ovvero quella relativa alla diversità, totale o parziale, tra costi indicati e costi sostenuti, mentre, con riguardo all’IVA – ciò che rileva nella vicenda in esame – esso comprende anche la inesistenza soggettiva, ovvero quella relativa alla diversità tra soggetto che ha effettuato la prestazione e quello indicato in fattura (Sez. 3, n. 6935 del 23/11/2017, dep. 13/02/2018, Rv. 272814; Sez. 3, n. 27392 del 27/04/2012, Rv. 253055; Sez. 3, n. 10394 del 14/01/2010, Rv. 246327); l’indicazione di elementi passivi fittizi nella dichiarazione, avvalendosi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, anziché relative ad operazioni oggettivamente inesistenti, non incide, infatti, sulla configurabilità del reato di dichiarazione fraudolenta previsto dall’art. 2 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il quale, nel riferirsi all’uso di fatture o altri documenti concernenti operazioni inesistenti, non distingue tra quelle che sono tali dal punto di vista oggettivo o soggettivo (Sez. 3, n. 4236 del 18/10/2018 – dep. 29/01/2019, Rv. 27569201; Sez. 3, n. 30874 del 02/03/2018, Rv. 273728); ne consegue che il delitto ex art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 è astrattamente configurabile nel caso di intermediazione illegale di manodopera, stante la diversità tra il soggetto emettente la fattura e quello che ha fornito la prestazione. Si tratta di una conclusione coerente con il principio affermato da questa Corte, secondo cui è configurabile il concorso fra la contravvenzione di intermediazione illegale di mano d’opera (art. 18 d.lgs. n. 276 del 2003) ed il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000), nel caso di utilizzo di fatture rilasciate da una società che ha effettuato interposizione illegale di manodopera (Sez. 3, n. 24540 del 20/03/2013, Rv. 25642401).
Con riferimento, poi, al contestato reato associativo, il Tribunale, ha richiamato il principio di diritto, secondo cui l’associazione per delinquere si caratterizza per tre fondamentali elementi, costituiti da un vincolo associativo tendenzialmente permanente, o comunque stabile, destinato a durare anche oltre la realizzazione dei delitti concretamente programmati, dall’indeterminatezza del programma criminoso che distingue il reato associativo dall’accordo che sorregge il concorso di persone nel reato, e dall’esistenza di una struttura organizzativa, sia pur minima, ma idonea e soprattutto adeguata a realizzare gli obiettivi criminosi presi di mira (Sez 2,n.16339 del 17/01/2013, Rv.255359 – 01). In conformità a tale principio ed in aderenza alla imputazione ed alle risultanze processuali, ha, quindi, ritenuto sussistente il fumus del reato: la struttura organizzativa è stata individuata in quella societaria e, quale elemento che faceva emergere l’accordo associativo avente ad oggetto un duraturo programma criminoso, è stata valorizzata la circostanza la che società M. risultava svolgere, quale unica attività, quella della gestione amministrativa dei contratti di appalto disvelatisi meramente fittizi (attraverso la creazione di una realtà fiscale non corrispondente alla realtà commerciale, in quanto realizzata attraverso un’attività contrattuale simulata); è stata, quindi, tratta la conseguente considerazione che gli intranei alla compagine sociale, quali soci-amministratori, avevano aderito all’accordo associativo, coincidendo totalmente l’attività sociale con quella di natura illecita.
Né coglie nel segno la deduzione difensiva secondo cui i ricorrenti avrebbero fatto parte della compagine sociale, quali legali rappresentanti, in periodi diversi e non coincidenti, e ché, quindi, l’associazione a delinquere non sarebbe nemmeno astrattamente configurabile difettando il requisito del vincolo associativo continuativo composto da almeno tre persone.
Dalla stessa imputazione cautelare si evince come la contestazione si riferisce, per tutti i ricorrenti, ad un arco temporale che va dal 2013 al 2017, nel quale la condotta associativa risulta, dunque, perdurante; risultano, poi, ulteriormente specificati i singoli periodi in cui gli stessi hanno ricoperto il ruolo di legali rappresentanti o sono stati promotori della società ovvero firmatari delle dichiarazioni fiscali presentate ai fini II.DD. e IVA (il B. legale rappresentante nel periodo 2.10.2010/01.01.2016, firmatario delle dichiarazioni fiscali per gli anni di imposta 2013 e 2014, promotore dal 2013 al 2015; il M. legale rappresentante dal 1.1.2016, firmatario delle dichiarazioni fiscali per gli anni di imposta 2015,2016,2017 e promotore dal 2016 al 2017; L.C. legale rappresentante, vice presidente del Cda e promotore per gli anni dal 2013 al 2017).
Il fumus commissi delicti, in definitiva, risulta sorretto da adeguata motivazione, in linea con i principi di diritto che regolano la materia cautelare reale; le censure prospettate sono, dunque, destituite di fondamento,
4. Il quinto ed il sesto motivo hanno ad oggetto doglianze non proponibili in sede di legittimità.
Attraverso formali doglianze di violazione di legge, i ricorrenti propongono, in sostanza, censure di merito, afferenti alla motivazione esposta dal Tribunale.
Il Collegio cautelare nell’ordinanza impugnata ha ampiamente e congruamente argomentato in relazione al carattere fittizio dei contratti di noleggio ed alla irrilevanza dell’annullamento dell’avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2013( cfr per il primo aspetto pag. 7, ove si rimarca la natura accessoria del contratto di noleggio rispetto al contratto di appalto di servizi, e per il secondo aspetto pag 11, ove si evidenzia che l’annullamento dell’avviso di accertamento relativo all’annualità 2013 da parte della Commissione tributaria per la pretesa relativa ai canoni di noleggio non affrontava la problematica rilevante, a fini penali, dell’inesistenza degli elementi passivi rappresentati).
5. Al rigetto del ricorso consegue, in base al disposto dell’art. 616 cod.proc.pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
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