Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 8995 depositata il 5 marzo 2020
sequestro preventivo – reati tributari – prima casa
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 14 giugno 2019, il Tribunale di Varese, in sede di riesame, ha confermato l’ordinanza del Gip del Tribunale di Busto Arsizio del 15 aprile 2019, con la quale era stato disposto il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca diretta, delle giacenze attive sui conti della società della quale l’indagato era legale rappresentante, nonché alla confisca per equivalente su beni dello stesso indagato, fino alla concorrenza di euro 957.696,17, quale profitto del reato di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000.
2. Avverso l’ordinanza l’indagato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si censura la mancanza assoluta della motivazione in relazione agli indizi del reato. Si sostiene che il Tribunale non si sarebbe confrontato con quanto argomentato dalla difesa in relazione alla documentazione depositata, ovvero 53 documenti (riferiti a pagamenti, trasporti, certificati di conformità della merce e ulteriori elementi a dimostrazione dell’oggettiva esistenza delle operazioni fatturate).
2.2. Si deduce, in secondo luogo, la mancanza assoluta della motivazione in relazione alla non confiscabilità dell’abitazione “prima casa”. La difesa ricorda che il sequestro è stato eseguito per equivalente anche sui beni dell’indagato, fra cui l’abitazione, da considerare “prima casa” in base a quanto documentato con copia del rogito di acquisto e con le dichiarazioni di legge. Secondo la prospettazione difensiva, tale abitazione non potrebbe essere sottoposta a confisca, per il disposto dell’art. 52 del d.l. n. 69 del 2013, come sostanzialmente affermato dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 22581 del 2019, la quale non sarebbe stata presa in adeguata considerazione dal Tribunale.
2.3. Si deduce, in terzo luogo, la violazione dell’art. 52 del d.l. n. 69 del 2013, sul rilievo che tale disposizione impedirebbe la confisca e, dunque, il prodromico sequestro della “prima casa” in relazione a reati fiscali.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
1.1. Il primo motivo di doglianza – riferito alla mancata considerazione della documentazione della depositata dalla difesa, ai fini della valutazione della non fittizietà delle operazioni oggetto delle fatture utilizzati in dichiarazione – è inammissibile per genericità.
Il ricorrente non spiega – neanche con il ricorso per cassazione – quale sarebbe la rilevanza probatoria della documentazione in questione, di cui non riporta il contenuto. Non specifica, in particolare, come tale documentazione possa inficiare i, risultati della complessa attività di indagine posta in essere dalla Guardia di Finanza, da cui – secondo quanto riportato nel provvedimento impugnato – era emerso che la società dell’indagato aveva intrattenuto rapporti commerciali con altre imprese, da queste ricevendo fatture fittizie per operazioni inesistenti, e successivamente aveva emesso, nei confronti delle società originariamente emittenti, fatture di vendita non imponibili Iva al fine di eseguire compensazioni di partite ed annullare il pagamento dovuto (meccanismo fraudolento ampiamente descritto alle pagg. 1-2 dell’ordinanza impugnata).
1.2. Il secondo e il terzo motivo di doglianza, che possono essere trattati congiuntamente, perché attengono entrambi alla pretesa impignorabilità della “prima casa” dell’indagato, sono infondati, perché l’art. 52 (in particolare, comma 1, lettera g) del d.l. n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni dalla legge n. 98 del 2013, non può trovare applicazione nel caso in esame, contrariamente a quanto affermato in un obiter dictum dalla sentenza Sez. 3, n. 22581 del 13/01/2019 (punto 4.1.), richiamata dalla difesa.
In particolare, per quanto qui rileva, la disposizione in questione ha modificato il comma 1, lettera a), dell’art. 76 (Espropriazione immobiliare) del d.P.R. n. 602 del 1973 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), inserito nella sezione IV (Disposizioni particolari in materia di espropriazione immobiliare) di tale testo normativo, nei seguenti termini: «Ferma la facoltà di intervento ai sensi dell’articolo 499 del codice di procedura civile, l’agente della riscossione: a) non dà corso all’espropriazione se l’unico immobile di proprietà del debitore, con esclusione delle abitazioni di lusso aventi le caratteristiche individuate dal decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 agosto 1969, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 218 del 27 agosto 1969, e comunque dei fabbricati classificati nelle categorie catastali A/8 e A/9, è adibito ad uso abitativo e lo stesso vi risiede anagraficamente».
1.2.1. Da tale formulazione letterale emerge, in primo luogo, che il limite posto dal legislatore all’espropriazione immobiliare non riguarda la “prima casa”, ma “l’unico immobile di proprietà del debitore”. Si tratta di un concetto evidentemente diverso da quello di “prima casa”, perché ha a che vedere con la consistenza complessiva del patrimonio del debitore e non semplicemente con la qualificazione del singolo immobile oggetto di pignoramento. Ne consegue che, per invocare l’applicazione della disposizione in tema di espropriazione immobiliare, il debitore non può limitarsi a prospettare che l’immobile pignorato è la sua “prima casa”, perché una tale prospettazione non esclude di per sé che lo stesso debitore sia proprietario di altri immobili.
1.2.2. Deve poi rilevarsi che – contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente – la disposizione in questione non fissa un principio generale di impignorabilità, perché si riferisce solo alle espropriazioni da parte del fisco per debiti tributari e non a quelle promosse da altre categorie di creditori per debiti di altro tipo. Né, a ben vedere, la disposizione in questione può trovare applicazione in relazione alla confisca penale, sia essa diretta o per equivalente, perché l’oggetto della confisca è il profitto del reato e non il debito verso il fisco. E i due concetti devono essere tenuti distinti, perché il profitto di delitti consistenti nell’evasione dell’imposta per mezzo di omessa, infedele o fraudolenta dichiarazione o di omesso versamento, che può essere oggetto di sequestro preventivo funzionale alla confisca, è costituito dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale e non comprende né le sanzioni dovute a seguito dell’accertamento del debito, che rappresentano, invece, il costo del reato stesso, derivante dalla sua commissione (Sez. 3, n. 17535 del 06/02/2019, Rv. 275445; Sez. 3, n. 28047 del 20/01/2017, Rv. 270429), né gli interessi maturati in favore dello Stato (Sez. 3, n. 40358 del 05/07/2016, Rv. 268329); mentre il debito verso il fisco è sempre comprensivo dell’originario debito tributario, degli interessi e delle sanzioni (sostanzialmente in tal senso, Sez. 3, n. 7359 del 04/02/2014, Rv. 261500).
1.2.3. Tali conclusioni si pongono in consapevole parziale contrasto con quanto già affermato da questa Corte di cassazione, oltre che con la citata sentenza n. 22581 del 2019, anche con la sentenza Sez. 3, n. 3011 del 05/07/2016, dep. 20/01/2017, Rv. 268797, la quale afferma che, in tema di reati tributari, la disposizione di cui all’art. 52, comma 1, lettera g), del di. n. 69 del 2013 – che vieta all’agente della riscossione, in specifiche ipotesi e condizioni, di procedere all’espropriazione della “prima casa” del debitore – preclude l’applicazione del sequestro preventivo, finalizzato alla confisca diretta, dell’abitazione di soggetto indagato per il delitto di cui all’art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 74 del 2000, commesso mediante l’alienazione simulata del cespite immobiliare. La pronuncia giunge a tale conclusione evidenziando che il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte – cui la stessa si riferisce – è reato di pericolo concreto ed esige, pertanto, che la condotta sia idonea a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva, sull’assunto che la stessa sia ex ante non consentita, per mancanza dei relativi presupposti normativi. Si rileva, in particolare, che il principio espresso da Sez. 3, n. 7359 del 04/02/2014 – secondo cui la preclusione fissata dall’art. 52, comma 1, lettera g), del d.l. n. 69 del 2013 non trova applicazione nell’ambito del processo penale e, pertanto, non impedisce il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, dell’abitazione dell’indagato – era riferito a una fattispecie concreta in cui l’imputato rispondeva del reato di cui all’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000 e la questione riguardava esclusivamente la possibilità di sottoporre a sequestro penale l’immobile destinato ad abitazione del contribuente, il cui valore costituiva l’equivalente delle imposte non versate. Mentre, nella vicenda oggetto della sentenza n. 3011 del 2016, l’immobile rileva di per sé quale oggetto materiale della condotta e la norma violata prevede espressamente che la condotta sia idonea a rendere inefficace la procedura esecutiva. Si giunge così – senza espressamente contestare il principio espresso dalla sentenza n. 7359 del 2014 – alla conclusione che «consentire la confisca diretta di un bene che non può più essere oggetto di espropriazione immobiliare e che dunque non costituisce più profitto del reato, equivale a consentire in modo surrettizio quel che il legislatore espressamente esclude», perché la confisca costituirebbe, «di fatto, una misura inutilmente punitiva e ingiustamente afflittiva che si aggiungerebbe alla pena principale prevista per il reato, trasformandosi in una vera e propria confisca di valore».
Come anticipato, tali conclusioni non possono essere condivise, perché – pur non ponendosi in contrasto con il principio dell’inapplicabilità del limite dell’espropriazione nel procedimento penale per reati tributari – si basano sull’assunto che la disposizione limitativa dell’espropriazione esprima un principio generale applicabile alla “prima casa” del debitore tributario. Bisogna, invece, ribadire che il limite alla pignorabilità fissato dal comma 1, lettera a), dell’art. 76 del d.P.R. n. 602 del 1973 – nel testo introdotto dall’art. 52, comma 1, lettera g), del d.l. n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni dalla legge n. 98 del 2013: si riferisce solo alle espropriazioni da parte del fisco e non a quelle promosse da altre categorie di creditori; non riguarda la “prima casa”, ma “l’unico immobile di proprietà del debitore; non trova comunque applicazione alla confisca penale, sia essa diretta o per equivalente, né al sequestro preventivo ad essa preordinato.
2. Da quanto precede consegue che il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.