CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, Sentenza n. 9610 depositata il 7 marzo 2023
Credito IVA derivante da un acquisto immobiliare – Fatturazioni per poste passive – Furto d’identità – Effettività dei rapporti commerciali – Inammissibilità
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 28/4/2022, la Corte di appello di L’Aquila confermava la pronuncia emessa il 27/5/2020 dal Tribunale di Vasto, con la quale (…) era stato giudicato colpevole del delitto di cui all’art. 10, d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74, e condannato alla pena di un anno di reclusione.
2. Propone ricorso per cassazione (…), a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
– inosservanza o erronea applicazione della legge penale. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna con motivazione viziata, a fronte di un’istruttoria che non avrebbe fornito alcuna affidabile prova circa l’effettivo svolgersi di relazioni commerciali tra la ” .”, della quale il ricorrente era amministratore, e società terze; il mancato ritrovamento di documenti di fatturazione, presso la prima, non potrebbe attestare da solo la consumazione del reato, emergendo piuttosto che la contabilità dell’ente non fosse mai stata istituita.
Ne deriverebbe, in ogni caso, la radicale mancanza di prova quanto al profilo soggettivo del reato, nei termini del dolo specifico, del quale non emergerebbe alcuno degli elementi sintomatici richiesti dalla giurisprudenza di questa Corte. A conferma di ciò, peraltro, si sottolinea che la società non avrebbe neppure utilizzato a fini tributari le presunte fatturazioni per poste passive, e che, in ogni caso, la stessa avrebbe goduto di un credito IVA derivante da un acquisto immobiliare e non ancora esaurito all’epoca dei fatti;
– si contesta alla Corte di appello, poi, la mancata assunzione di una prova decisiva, oggetto di richiesta di rinnovazione istruttoria, quale una perizia contabile. Questa, in particolare, sarebbe risultata necessaria alla luce della lacunosità, incongruenza e contraddittorietà delle risultanze investigative, che si afferma palesemente emerse alla luce di plurime allegazioni fattuali indicate, nel ricorso, dalla pagina 14 alla pagina 26. Ne risulterebbe che nessuna prova sarebbe emersa quanto all’effettiva verifica dell’esistenza degli scambi commerciali tra la ” ed altre società, così rendendosi necessaria la perizia richiesta;
– mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, di seguito, sono dedotte ancora con riguardo ai profili sopra citati, ossia l’effettività delle relazioni commerciali e la configurabilità del dolo specifico richiesto dalla norma, delle quali non sarebbero risultati indizi sufficienti;
– infine, si lamenta l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale con riguardo all’entità della pena, al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.
Considerato in diritto
3. Il ricorso risulta manifestamente infondato.
4. Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247).
In tal modo individuato il perimetro di giudizio proprio della Suprema Corte, osserva allora il Collegio che le prime tre censure mosse dal ricorrente sono inammissibili; dietro la parvenza di una violazione di legge o di un vizio motivazionale, infatti, le stesse tendono ad ottenere in questa sede una nuova ed alternativa lettura delle medesime emergenze istruttorie già esaminate dai Giudici di merito, sollecitandone una valutazione diversa e più favorevole quanto all’effettività dei rapporti commerciali tra (…) ed altre società, alla reale istituzione delle scritture contabili e al dolo specifico in capo (…).
Il che, come riportato, non è consentito.
4. La doglianza, peraltro connotata da un ampio richiamo a numerose “allegazioni fattuali” che attesterebbero i limiti delle indagini (pagg. 14-26), trascura inoltre che la Corte di appello – pronunciandosi proprio sulla questione qui riprodotta – ha steso una motivazione del tutto congrua, fondata su oggettive risultanze dibattimentali e non manifestamente illogica; come tale, quindi, non censurabile.
4.1. La sentenza, in particolare, ha evidenziato che i rapporti commerciali tra la “(…) ed altre società avevano ottenuto plurimi riscontri, a cominciare dalle fatture emesse dalla prima e rinvenute (soltanto) nella contabilità delle altre.
Ancora, i Giudici del merito hanno sottolineato le dichiarazioni rese dai legali rappresentanti di queste clienti, così come la documentazione bancaria riguardante talune di esse (con prova degli ordinativi di bonifico disposti a favore della “(…) come la stessa società interessata. A fronte di questi elementi documentali, la Corte d’appello ha, dunque, affermato non potersi revocare in dubbio l’effettività dei rapporti commerciali dai quali era derivata l’emissione delle fatture, riscontrandosi la prova del pagamento del corrispettivo da parte delle clienti. Di seguito sul punto, il Collegio di merito ha smentito le congetturali rivendicazioni circa una sorta di furto d’identità che sarebbe stato compiuto a danni della “(…) se era vero, infatti, che i legali rappresentanti delle contraenti avevano affermato di aver avuto quale interlocutore, nelle trattative e nella conclusione degli affari, tale (…), è altresì vero che la tesi difensiva (peraltro non ripresa dal ricorso) era risultata del tutto indimostrata, oltre che palesemente incompatibile con il documentato incasso – da parte di “(…) dei proventi delle transazioni relative alle fatture di cui si tratta. Da ultimo sul punto, la sentenza ha preso in esame la deposizione del teste (…), apparente commercialista della società, e ne ha confutato le dichiarazioni (nell’ottica della inattività dell’ente nel periodo di interesse) con affermazioni del tutto congrue e non manifestamente illogiche, dunque non censurabili in questa sede.
5. Con riferimento, poi, al dolo del reato, la sentenza ha riconosciuto la sicura consapevolezza, in capo all’amministratore della società, delle operazioni imponibili, dell’emissione delle fatture e della finalizzazione dell’atto illecito contestato, volto cioè all’evasione dell’obbligo tributario conseguente alla illecita produzione di reddito. Al riguardo, peraltro, ed ancora con argomento del tutto adeguato, è stata ritenuta irrilevante la presenza di un credito IVA (peraltro non specificato) in favore della società, in quanto l’evasione in oggetto riguardava anche l’imposta sul reddito e, comunque, l’emersione delle operazioni avrebbe implicato quantomeno una compensazione con detto eventuale credito, non avvenuta anche grazie alla condotta illecita accertata.
5.1. L’ampia censura in punto di responsabilità, dunque, deve essere dichiarata inammissibile. Al riguardo, peraltro, non può essere accolta neppure la doglianza relativa alla mancata assunzione di prova decisiva, quale una perizia contabile volta a colmare le presunte lacune istruttorie riportate (in termini di puro merito) alle pagg. 14-26 del ricorso; sul punto, basti richiamare il costante e condiviso principio per il quale la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art.606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove l’articolo citato, attraverso il richiamo all’art. 495, comma 2, cod. proc. pen., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (per tutte, Sez. U., n. 39746 del 23/3/2017, A., Rv. 270936).
6. Alle stesse conclusioni, infine, la Corte giunge anche quanto all’ultimo motivo di ricorso, che coinvolge complessivamente il trattamento sanzionatorio.
6.1. La Corte di appello, al riguardo, ha sottolineato che la pena non poteva certo ritenersi eccessiva, che l’imputato era gravato da precedenti penali specifici, sebbene risalenti, e che nessuna evidenza di segno positivo giustificava il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
6.2. A fronte di questa motivazione, il ricorso si affida a considerazioni del tutto vaghe, come tali inammissibili, in ordine sia all’entità della pena che alle stesse attenuanti innominate, invocate “in riferimento alle modalità della condotta contestata all’imputato, alle altre condizioni dell’azione, all’intensità del dolo ed alle conseguenze della condotta medesima”. Del tutto apodittico e privo di un qualunque argomento, infine, è il richiamo alla causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.
7. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
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