CORTE di CASSAZIONE, sezione tributaria, ordinanza depositata il 12 giugno 2024, n. 16387
Avviso d’accertamento – Socio occulto – Amministratore di fatto – Maggior imponibile ai fini Irpef – Condotte frodatorie – Falsi crediti Iva – Recupero degli utili extracontabili
Rilevato che
Dalla sentenza emerge che il ricorrente propose impugnazione avverso l’avviso d’accertamento con cui l’Agenzia delle entrate, sulla premessa del ruolo di socio occulto (nella misura del 50% del capitale sociale appartenendo l’altra metà a Po.Ma., altro socio occulto, estraneo al presente giudizio -), nonché di amministratore di fatto rivestito da Ga.Pa. nella società Ca. Srl – Unipersonale, rideterminò il maggior imponibile relativo all’anno 2010 ai fini Irpef, richiedendo al contribuente maggiori imposte.
L’accertamento trovava genesi in una verifica compiuta da militari della GdF, interessante più anni d’imposta, che aveva rilevato l’esistenza di condotte frodatorie nel settore edilizio, ai danni dell’erario e di enti previdenziali, attuate attraverso varie società, tra cui la Ca. Srl, consistenti nel compensare oneri, imposte e tributi con falsi crediti iva, relazionati alla contabilizzazione di costi inesistenti. Il Ga.Pa., unitamente al Po.Ma., era stato identificato come amministratore di fatto e socio occulto di tale società.
Il ricorso avverso l’atto impositivo, con il quale il Ga.Pa. aveva contestato il ruolo di socio occulto della Ca. Srl, asserendo di essere un mero dipendente, che rivestiva nella compagine sociale solo il ruolo di mero referente tecnico della società nei confronti della clientela, fu accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Verona con sentenza n. 299/04/2016.
La Commissione tributaria regionale della Veneto, sull’appello dell’Agenzia delle entrate, riformò la decisione di primo grado, rigettando il ricorso introduttivo del contribuente. Il giudice regionale, dopo aver ricostruito la vicenda, ha rilevato che dalla verifica della GdF, le cui emergenze erano state poste a base dell’atto impositivo, era emerso un quadro probatorio inequivoco sulla gestione della società, sul piano decisionale, gestorio, operativo e finanziario da parte del ricorrente (e del Po.Ma.), con la tenuta di condotte che provavano l’assoluto controllo ed interesse economico del contribuente nella compagine sociale. Ha anche evidenziato che ulteriore riscontro agli addebiti dell’ufficio era stato desunto dalla circostanza che il ruolo di amministratore della società era ricoperto da un soggetto di origini straniere, nullatenente e risultato del tutto irreperibile.
Da queste premesse ha ritenuto corretto il recupero degli utili extracontabili rilevati formalmente in capo alla società, ma imputati nella misura del 50% al Ga.Pa., attesa la natura artificiosa della Ca. Srl – società unipersonale con un rappresentante legale solo testa di legno -, rispetto alla quale l’odierno ricorrente si poneva non solo quale amministratore di fatto e dominus, ma anche come socio occulto. A tal fine ha peraltro richiamato la giurisprudenza di legittimità in tema di società di capitali a ristretta base partecipativa e le regole sulla presunzione.
Per la cassazione della sentenza il ricorrente ha proposto ricorso, affidato a quattro motivi. L’Agenzia delle entrate non ha inteso resistere.
All’esito dell’adunanza camerale del 20 dicembre 2023 la causa è stata riservata e decisa.
Considerato che
Con il primo motivo il Ga.Pa. ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 2639 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ. La Commissione regionale, nell’attribuirgli la qualità di amministratore di fatto per la continua e sistematica attività decisionale in seno alla società, avrebbe errato e mal applicato l’art. 2639 cod. civ., non emergendo dalla segnalazione della GdF quelle funzioni che la disciplina civilistica richiede per lo svolgimento di tale ruolo all’interno della compagine sociale.
Con il secondo motivo ha lamentato la violazione e falsa applicazione degli artt. 5 e 47 del d.P.R. 31 dicembre 1986, n. 917, e dell’art. 2247 cod. cod., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ.
Erroneamente il giudice d’appello avrebbe identificato nel Ga.Pa. una persona fisica come socio di fatto di una società di capitali, così come altrettanto erroneamente avrebbe ricondotto presuntivamente al ricorrente gli utili sociali.
Con il terzo motivo si è doluto della violazione e falsa applicazione dell’art. 37, 3° comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3) cod. proc. civ. La commissione regionale avrebbe ricondotto al Ga.Pa. la percezione dei redditi, implicitamente evocando l’art. 37, 3° comma, del d.P.R. n. 600 cit. secondo cui “in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”, con ciò cadendo in un ulteriore errore di diritto.
I motivi, pur censurando da distinte prospettazioni giuridiche la sentenza impugnata, sono tutti privi di pregio.
Deve innanzitutto rilevarsi, dalla piana lettura della pronuncia, che il giudice regionale ha apprezzato gli elementi su cui l’ufficio accertatore ha fondato le sue contestazioni, individuate negli esiti della verifica operata dalla guardia di finanza, dalla quale era emersa la messa in atto di un sistema finalizzato a frodare il fisco, con società unipersonali, come la Ca. Srl, la cui rappresentanza legale era affidata a soggetti stranieri e nullatenenti, con sedi legali formali, a volte corrispondenti a meri domicili postali, con operatività limitata a pochi mesi e continue sostituzioni nelle cariche sociali.
In particolare, si è rilevata la continua e costante attività decisionale del ricorrente, formalmente riconducibile alla società, di cui in realtà ne era il dominus, in grado di condizionare totalmente le scelte della società, per la gestione degli aspetti economici, operativi e finanziari nei rapporti con clienti e dipendenti”. In quest’ottica sono state apprezzate le dichiarazioni assunte dai soggetti che operavano con la Ca. Srl, nonché dai dipendenti di questa.
Il quadro che ne emerge è inequivocabilmente quello di una società che, integralmente o meno interposta dal ricorrente, e dunque paravento o meno delle operazioni illecite poste in essere dal Ga.Pa., operava a suo esclusivo interesse.
In tale contesto, in punto di diritto, il richiamo al controllo sociale, proprio della fattispecie riconducibile all’amministrazione di fatto, ed inoltre il richiamo alle regole di attribuzione ai soci dei maggiori redditi accertati in capo alla compagine sociale, sulla base dei principi elaborati a proposito della ristretta base partecipativa nella società di capitali (nel concreto il solo Ga.Pa. e il Po.Ma.), risultano del tutto pertinenti al caso concreto.
Le difese del ricorrente pretendono di riportare i presupposti del riconoscimento dell’amministratore di fatto (questione qui neppure controversa) e del socio occulto, ad elementi esteriori e formali, del tutto estranei all’oggetto del contendere, che parte proprio dalla condotta in fatto e occulta del Ga.Pa., preoccupato, al contrario, di evitare l’emersione della posizione giuridica contestatagli dall’erario.
D’altronde, proprio con riguardo al richiamato art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, si è affermato che, in tema di accertamento dei redditi, la suddetta norma non distingue tra interposizione fittizia e interposizione reale, nella quale non vi è un accordo simulatorio tra le persone che prendono parte all’atto, ma richiede la prova, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti e che possono consistere, in caso di reddito di impresa, anche nella gestione uti dominus dell’impresa e delle sue risorse finanziarie, che il contribuente sia l’effettivo possessore del reddito del soggetto interposto; spetta, poi, al contribuente dare la prova contraria dell’assenza di interposizione, o della mancata percezione, in tutto o in parte, dei redditi del soggetto interposto (Cass., 17 febbraio 2022, n. 5276).
E si è altrettanto significativamente affermato che in tema di accertamento su IVA e imposte dirette, ai sensi dell’art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, nei confronti del soggetto che abbia gestito uti dominus una società di capitali si determina la traslazione del reddito d’impresa, e delle relative imposte, quale effettivo possessore del reddito della società interposta, e si instaura, inoltre, un rapporto di mandato senza rappresentanza, dove il mandatario è il gestore uti dominus e la mandante è la società, sicché, ove le prestazioni di servizi cui il primo abbia partecipato per conto della seconda siano soggette a Iva, vi è soggetto pure il rapporto giuridico tra il mandatario e la società interposta, incombendo sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, il totale asservimento della società interposta all’interponente, ed al contribuente quello di fornire la prova contraria dell’assenza di interposizione, ovvero della mancata percezione dei redditi del soggetto interposto (Cass., 25 luglio 2022, n. 23231).
Peraltro questa Corte, con orientamento ormai consolidato, ha affermato che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà per il contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, ma siano stati invece accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti, non essendo tuttavia a tal fine sufficiente la mera deduzione che l’esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili (cfr. Cass., 2 marzo 2011, n. 5076 ; 12 aprile 2013, n. 8954 ; 22 novembre 2017, n. 27778 ; 9 luglio 2018, n. 18042). Ciò vale anche in ipotesi di assenza di rapporti di parentela, in quanto la ristrettezza della base sociale implica di per sé un elevato grado di compartecipazione dei soci, la conoscenza degli affari sociali e la consapevolezza dell’esistenza di utili extra-bilancio (Cass., 18 novembre 2014, n. 24572).
Ciò che rileva dunque è la ristrettezza dell’assetto societario, che implica un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, con la conseguenza che, una volta ritenuta operante detta presunzione, spetta poi al contribuente fornire la prova contraria che i ricavi extracontabili non siano stati distribuiti tra i soci (Cass., 24 gennaio 2019, n. 1947). La forma partecipativa consente dunque di riconoscere, ai fini della prova presuntiva, i requisiti richiesti dall’art. 2729 cod. civ., senza tuttavia ricondurne il fondamento nell’alveo dell’art. 5 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, applicabile invece alle sole società di persone.
Quanto alle questioni che si pongono in ordine al divieto della doppia presunzione, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che in tema di accertamento il principio praesumptum de praesumpto non admittitur (o divieto di doppie presunzioni o divieto di presunzioni di secondo grado o a catena) è in realtà inesistente, non essendo riconducibile agli artt. 2729 e 2697 cod. civ., né a qualsiasi altra norma dell’ordinamento. Si è in particolare affermato che la prova inferenziale, che sia caratterizzata da una serie lineare di inferenze, ciascuna delle quali sia apprezzata dal giudice secondo criteri di gravità, precisione e concordanza, fa sì che il fatto “noto” attribuisca un adeguato grado di attendibilità al fatto “ignorato”, il quale cessa pertanto di essere tale per divenire noto, ciche risolve l’equivoco logico che si cela nel divieto di doppie presunzioni (Cass., 16 giugno 2017, n. 15003 ; 7 dicembre 2020, n. 27982). Pertanto, si è chiarito, ben può il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituire la premessa di un’ulteriore presunzione idonea, per essere a sua volta adeguata, a fondare l’accertamento del fatto ignoto (Cass., 1° agosto 2019, n. 20748).
Nel caso di specie il giudice regionale ha fatto corretta applicazione dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità.
Ma soprattutto, a fronte della valutazione in fatto operata dalla commissione regionale, le difese articolate nei tre motivi di ricorso, laddove pretendono di criticare la pronuncia in punto di errore giuridico nell’applicazione o nella interpretazione delle norme richiamate, in realtà sottendono una sollecitazione alla rivalutazione dell’impianto probatorio.
Le critiche, infatti, soffermandosi sul contenuto e sugli esiti degli accertamenti riportati nell’atto impugnato, o sulle dichiarazioni rese dai terzi sentiti dai militari verificatori, oppure, ancora, sulle condotte e sul ruolo dei ricorrenti, impingono nel merito, così richiedendo al giudice di legittimità un intervento inammissibile in questa sede, perché appartenente al solo giudice di merito.
Né la motivazione della sentenza può essere denunciata per vizi logici o errori materiali, soli vizi per i quali il giudice di legittimità ha potere d’intervento per sanzionarne la non rispondenza ai parametri di valutazione degli elementi probatori che sono richiesti al giudice di merito nel sindacato sui fatti.
I tre motivi vanno in definitiva rigettati, non riuscendo ad intaccare la correttezza giuridica della pronuncia, né la logica argomentativa utilizzata dal giudice d’appello nel vagliare i fatti di causa.
Il rigetto dei primi tre motivi assorbe il quarto, con cui la difesa del contribuente ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3) cod. proc. civ., quanto alla valutazione attribuita dalla commissione regionale alle dichiarazioni rese dai terzi ai militari della GdF, che a detta della difesa sarebbe priva della gravità, precisione e concordanza richiesta per la prova presuntiva.
Il ricorso va dunque rigettato. Nulla va statuito in ordine alle spese, stante la mancata costituzione dell’ufficio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quella prevista per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.