CORTE di CASSAZIONE, sezione tributaria, ordinanza n. 15519 depositata il 4 giugno 2024

Tributi – Cartella di pagamento – Credito di imposta per investimenti in aree svantaggiate – Indebito utilizzato in compensazione – Proposizione di un “non motivo” – Vizio di motivazione non più censurabile – Rigetto

Rilevato che

1. M.F. Srl in persona del legale rappresentante pro tempore propone ricorso affidato a cinque motivi per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe con cui la Commissione Tributaria Regionale della Campania aveva rigettato l’appello proposto nei confronti dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore avverso la sentenza n. 2177/37/2020 della Commissione Tributaria Provinciale di Napoli con la quale era stato rigettato il ricorso della suddetta società avverso cartella di pagamento con la quale l’Ufficio, in seguito a controllo automatizzato, ai sensi dell’art. 36-bis del D.P.R. n. 600/73, del Modello Unico 2016, per l’anno di imposta 2015, aveva recuperato il credito di imposta per investimenti in aree svantaggiate per l’ammontare complessivo di Euro 70.413,00 ritenuto indebitamente utilizzato in compensazione in quanto inesistente, con irrogazione delle sanzioni nella misura del 30%.

2. In punto di diritto, per quanto di interesse la CTR ha affermato che la cartella di pagamento in questione – con la quale era stato recuperato un credito di imposta inesistente (in quanto non concesso come da interrogazione dell’AT) utilizzato dalla società in compensazione – era legittima in quanto, da un lato, la pretesa dell’Ufficio si fondava sull’elenco delle compensazioni incontestabilmente effettuate dalla società tra il 16.7.2015 e il 30.10.2015 con il codice tributo 6742 (crediti di imposta per investimenti in aree svantaggiate) per l’importo complessivo di Euro 70.413,00 e dall’altro la società non aveva provato l’eccepita duplicazione di imposta, atteso che, per il 2013, risultavano effettuati recuperi solo per compensazioni operate tra il 1° gennaio 2013 e il 31 dicembre 2013, mentre per il 2014, era stato menzionato altro giudizio deciso dalla CTR della Campania con sentenza n. 5233/1/2020, la quale non rilevava, in quanto, in disparte la tardiva produzione di tale documentazione, ai sensi dell’art. 32, comma 1, del D.Lgs. n. 546/92, non vi era prova del passaggio in giudicato della stessa.

3. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

4. La società contribuente ha depositato memoria illustrativa.

Considerato che

Preliminarmente in ordine alla istanza di riunione del presente procedimento a quello RG 12389/2021 pendente dinanzi a questa sezione tra le stesse parti ed afferente all’impugnativa di altra cartella di pagamento avente ad oggetto il recupero, per il 2014, di credito d’imposta per investimenti in aree svantaggiate indebitamente compensato, va osservato che nel giudizio di cassazione, le finalità di economia processuale e di uniformità delle decisioni relative a casi identici, cui è ispirato l’obbligo della riunione previsto dall’art. 151 disp. att. cod. proc. civ., come sostituito dall’art. 19, lett. f), del D.Lgs. n. 40 del 2006, possono utilmente essere perseguite, in mancanza di un espresso riferimento della predetta disposizione al giudizio di legittimità, anche attraverso la trattazione nella medesima udienza e davanti allo stesso giudice di più cause riunibili, verificandosi in tale evenienza una situazione sostanzialmente assimilabile a quella del “simultaneus processus” in senso tecnico (Cass., 30 novembre 2017, n. 28686; Cass., 23 febbraio 2010, n. 4357 del 23/02/2010), situazione nella specie sussistente, posto che le cause, per le quali la riunione è stata richiesta, sono state fissate per la medesima udienza innanzi a questa Sezione, con la conseguenza che, anche per ragioni di speditezza processuale, non appare necessario disporre la riunione dei procedimenti;

– con il primo motivo, si denuncia “l’erronea decisione circa la mancata detrazione dell’importo di Euro 23.155,00 relativa all’utilizzo dell’anno 2013 che era stato pagato provvisoriamente per regolarizzare la dichiarazione di quell’anno nel ravvedimento operoso e che doveva essere riaccreditato in compensazione come era stato fatto nella dichiarazione del 2015 assieme al riaccredito dell’utilizzo del 2014 per Euro 28.340,00 pure pagato nel ravvedimento operoso e riconosciuto dalla CTR nell’altra sentenza n. 5233/2020. Illogicità e irragionevolezza della motivazione della sentenza emessa in ordine alla dichiarazione dell’inesistenza del credito d’imposta per investimenti in aree svantaggiate laddove invece, per l’anno 2013, Euro 23.155,00 e per l’anno 2014 Euro 28.340,00 erano stati pagati con il ravvedimento operoso a seguito della dichiarazione errata fatti per questi anni e comunque dovevano essere recuperati nel 2015-2016 perché dovuti e dell’eliminazione delle sanzioni e delle penali, fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti” (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.);

– con il secondo motivo si denuncia, “violazione e/o falsa applicazione del principio dell’autotutela (art. 2-quater del D.L. n. 564/1994) in relazione al ravvedimento operoso operato per l’anno 2013 e 2014 e al pagamento provvisorio dell’intero importo per l’anno 2013 (Euro 23.155) e per l’anno 2014 (Euro 28.340) dei due utilizzi dei crediti d’imposta a seguito di errore nella dichiarazione che comportava il pagamento e poi il riaccredito nella somma complessiva di Euro 51.495,00 (23.155+28.340) nel 2015 in applicazione della normativa di cui all’art. 13 del D.Lgs. n. 472/1997 che prevede il ravvedimento operoso”;

– con il terzo motivo si denuncia “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2-quater del D.L. n. 564/1994 in relazione al principio di autosufficienza e di presunzione di cui all’art. 12 delle preleggi circa la compensazione da operare dei crediti di imposta valutando come rilevanti i dati in compensazione forniti con il dovere da parte dell’AE di bilanciare gli elementi presuntivi favorevoli e quelli contrari e di conseguenza la CTR doveva in sede di ricorso tributario tenere in considerazione le presunzioni indicate dal ricorrente circa i crediti d’imposta di detti anni anche in considerazione delle dichiarazioni degli anni precedenti dove il credito d’imposta alla M.F. era acclarato e conclamato” (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.);

– con il quarto motivo si denuncia “la violazione e/o falsa applicazione della legge n. 388/2000, art. 8, del D.L. n. 138/2002 (legge 178/2002) con le innovazioni dell’art. 62 della legge n. 289/2002, art. 4, comma 132, della legge finanziaria per il 2004 (legge n. 350/2003), art. 16 del decreto-legge n. 63 del 2013 conv. con mod. dalla legge n. 90/2013, art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997 – legge n. 160/2019 dove non si applicano i limiti annuali di compensazione di cui all’art. 1, comma 53, l. n. 244/2007 e di cui all’articolo 34 della L. 388/2000 e non si applica la preclusione dell’autocompensazione del credito in presenza di debiti iscritti a ruolo di ammontare superiore a 1.500 Euro di cui all’articolo 31 del D.L. 78/2010” (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.);

– con il quinto motivo si denuncia “la violazione del principio di valutazione della sentenza n. 5233/1/2020 della CTR Campania emessa il 6.11.2020 che è stata ritenuta rientrante tra i documenti di cui all’art. 32, comma 1, del D.Lgs. 546/92 mentre trattasi di sentenza tra le stesse parti, stesso oggetto, in contraddittorio, proveniente da altro processo e di conseguenza non soggetta all’inammissibilità del deposito avvenuto nei cinque giorni prima dell’udienza di discussione avendo come applicazione analogica la conciliazione c.d. abbreviata di cui all’art. 48, comma 2, del D.Lgs. n. 546/92 che è possibile depositarla fino alla discussione come da Cass. civ. sez. VI 24.5.2018 n. 12886” (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. e in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. per mancata o insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia);

– in disparte una non marginale approssimazione e confusione espositiva, che impedisce di leggere compiutamente la ratio censuratoria (v. Cass. Cass., sez. 2, n. 121 del 2019), i motivi dal primo al quarto sono inammissibili per difetto di specificità e autosufficienza;

– va osservato che, in base all’art. 366, comma 1, n. 4 c.p.c., il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronuncia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione, restando estranea al giudizio di cassazione qualsiasi doglianza non riguardante il “decisum” della sentenza gravata (così ad es. sez. 5 n. 17125 del 2007 e sez. 1 n. 4036 del 2011; ex multis,Cass., Sez. V, 16 febbraio 2022, n. 5021; Cass., Sez. V, 1° febbraio 2022, n. 2940). In altri termini, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si traducano in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo.

In riferimento al ricorso per cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi della citata disposizione (così Cass., sez. 5, n. 20152 del 2021; n. 21296 del 2016; Sez. 6 – 5, n. 187 del 08/01/2014; Sez. 5, n. 17125 del 03/08/2007; sez. 3, n. 359 del 2005 e altre); le Sezioni Unite di questa Corte hanno ribadito che “in tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni

– la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa” (Cass. Sez. U., Sentenza n. 23745 del 28/10/2020); come chiarito nella motivazione della citata sentenza, “quando nel ricorso per cassazione è denunziata violazione o falsa applicazione di norme di diritto, il vizio della violazione o della falsa applicazione della legge, di cui all’art. 360, primo comma n. 3, cod. proc. civ., giusta il disposto di cui all’art. 366, primo comma n. 4, cod. proc. civ. deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità, mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla Corte di Cassazione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass., Sez. 3, n. 15177 del 28/10/2002; Cass., Sez. 2, n. 1317 del 26/01/2004; Cass., Sez. 6 – 5, n. 635 del 15/01/2015)”; alla luce di tali principi, le doglianze della ricorrente non aggrediscono specifiche argomentazioni logico-giuridiche contenute nella sentenza impugnata, risolvendosi in “non motivi”;

– peraltro, la censura formulata con il primo motivo di ricorso, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. in termini di “illogicità e irragionevolezza della motivazione” è in ogni caso inammissibile in quanto trattasi di vizio non più censurabile in virtù della nuova formulazione dell’art. 360 n.5 cpc, come modificato dal decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis; invero, anche a volere ricondurre la censura al vizio specifico denunciabile per cassazione in base alla nuova formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., lo stesso concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo

(vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c. e dell’art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c. il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., sez. un., n. 8053 e n. 8054 del 2014; Cass. n. 14324 del 2015); nella specie, la ricorrente non ha assolto il suddetto onere;

– il quinto motivo si profila inammissibile in quanto non si attaglia al decisum atteso che la CTR ha ritenuto irrilevante nel giudizio in questione l’esame della richiamata sentenza n. 5233/1/2020 emessa in altro giudizio dalla CTR della Campania, “a parte la tardività e dunque l’inammissibilità di tale documentazione ai sensi dell’art. 32, comma 1, del D.Lgs. n. 546/92 (in quanto depositata cinque giorni prima dell’udienza)” per la ragione sostanzialmente assorbente della mancanza di prova agli atti del passaggio in giudicato della medesima.

– in conclusione, il ricorso va rigettato;

– le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo;

P.Q.M.

 Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 5.800,00 per compensi oltre spese prenotate a debito.

Dà atto, ai sensi dell’art.13 comma 1-quater D.P.R. n. 115/2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.