Corte di Cassazione, sezione tributaria, ordinanza n. 16493 depositata il 13 giugno 2024
operazioni inesistenti – prova – art. 7, comma 5bis, d.lgs. n. 546 del 1992 – disposizione di natura sostanziale – irretroattività
Rilevato che:
1. In controversia avente ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento per IVA, IRES ed IRAP relativo all’anno d’imposta 2007, che l’Agenzia delle entrate emetteva nei confronti della L. s.p.a. sulla scorta delle risultanze di un processo verbale di constatazione della G.d.F., contestando alla predetta società l’indebita deduzione di costi e la detrazione dell’IVA relative ad operazioni ritenute inesistenti, con la sentenza impugnata la CTR (ora Corte di giustizia tributaria di secondo grado) della Lombardia rigettava l’appello della società contribuente avverso la sfavorevole sentenza di primo grado sostenendo:
a) che la contestazione dell’inesistenza soggettiva ed oggettiva delle prestazioni fatturate dai fornitori G.M. a.s., T.I. s.r.l, M.G. s.r.l. e M.M.I. s.r.l., giustificava il raddoppio dei termini di accertamento;
b) che, «come motivato nella sentenza impugnata e ammesso dalla stessa appellante L. p.a., non risulta provata l’effettività dei costi, data la [mancata] dimostrazione dell’operatività gestionale delle Società fornitrici, delle quali l’appellante non fornisce le dovute informative sulla struttura, né fornisce alcuna prova in merito a chi effettivamente avrebbe fornito le presunte lavorazioni»;
c= che, «ai fini di considerare deducibili fiscalmente i costi necessita che il contribuente provi l’effettività delle forniture/prestazioni; non spetta all’A.F. provare, come vorrebbe parte appellante, che queste siano oggettivamente esistenti, effettive ed inerenti».
3. Avverso tale statuizione la società contribuente propone ricorso per cassazione affidato a sei motivi, illustrati con memoria, cui replica l’intimata con controricorso.
Considerato che:
1. Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, 3, cod. proc. civ., la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. sostenendo che «la CTR, nel pronunciarsi sull’onere della prova, avrebbe dovuto tener conto del fatto che l’Ufficio non avesse fornito elementi di prova idonei a ritenere oggettivamente inesistenti i servizi prestati alla società L., bensì semplicemente elementi presuntivi da cui dedurre la natura artificiosa delle quattro ditte in esame».
1.1 Precisa che «alla luce della consolidata giurisprudenza di questa Ecc.ma Corte, la sentenza d’appello è illegittima laddove, a fronte della domanda della Società di un sindacato giudiziale sull’onere probatorio (incombente sull’Ufficio) in ordine all’esistenza di operazioni “oggettivamente” inesistenti, pur mancando l’allegazione da parte dell’Ufficio di prove idonee a dimostrare la natura “oggettivamente” fittizia delle prestazioni, nonché in presenza dell’allegazione da parte della L. di circostanze di fatto (accertate storicamente dalla stessa F.) attestanti l’usuale impiego di personale estraneo all’azienda (outsourcing), afferma che incombeva sulla Società un onere di provare “l’effettività delle forniture/prestazioni”, con conseguente illegittima inversione dell’onere della prova».
2. Il motivo è manifestamente infondato alla stregua del principio giurisprudenziale secondo cui «In tema di IVA, una volta che l’Amministrazione finanziaria dimostri, anche mediante presunzioni semplici, l’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e/o della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, non potendo tale onere ritenersi assolto con l’esibizione della fattura, ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, in quanto essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia» (Cass. n. 28628 del 2021; in termini Cass. n. 9851 del 10/04/2018 seguita da molte altre; v. Cass. n. 5339 del 27/02/2020; Cass. n. 15369 del 20/07/2020; da ultimo Cass. n. Cass. 25891/2023; in linea con Corte di giustizia, 22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14 e, recentemente, 11 novembre 2021, Kemwater ProChemie s.r.o., C-281/20, in base al quale grava sull’amministrazione finanziaria l’onere di provare l’oggettiva fittizietà del fornitore e la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, con la precisazione che la prova può essere anche solo indiziaria e, quanto alla “consapevolezza del destinatario”, l’oggetto specifico dell’onere incombente sull’amministrazione finanziaria non è costituito dalla prova della partecipazione del soggetto all’accordo criminoso né dalla prova della sua piena consapevolezza della frode ma solo che il contribuente “sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale”.
2.1 Orbene, con riferimento al caso di specie, la circostanza che è la stessa parte ricorrente ad ammettere che l’amministrazione finanziaria aveva fornito «elementi presuntivi da cui dedurre la natura artificiosa delle quattro ditte in esame», ovvero delle società fornitrici, rende evidente che, a prescindere dalla contestazione mossa dall’Agenzia delle entrate di inesistenza oggettiva, piuttosto che soggettiva – come sostiene la ricorrente -, delle operazioni verificate, comunque spettava alla società contribuente fornire la prova dell’effettività di quegli scambi, che la CTR ha escluso essere stata fornita.
2.2 Peraltro, è appena il caso di osservare che la circostanza che le operazioni commerciali contestate siano soggettivamente e non oggettivamente inesistenti non è affatto decisiva ai fini del recupero dell’indebita detrazione dell’imposta sul valore aggiunto, in quanto il principio di neutralità che governa il sistema dell’iva richiede che l’imposta sia versata a chi ha eseguito operazioni imponibili, perché la compensi con l’imposta a sua volta corrisposta per l’acquisto di beni e servizi, di guisa che l’erario acquisisce, ad ogni passaggio del ciclo produttivo–distributivo, soltanto l’eventuale differenza tra l’imposta sulle operazioni attive e quella sugli acquisti, ossia l’importo maturato a debito del soggetto passivo obbligato, nella periodica sommatoria di Iva a credito ed a debito (fra varie, vedi, in particolare, 14 dicembre 2012, n. 23074 e Cass. 13 marzo 2013, n. 6229, nonché Cass. n. 8533, n. 8534 e n. 8535 del 2020, non massimate).
2.3 «Il versamento dell’iva ad un soggetto che non sia la genuina controparte, aprendo la strada ad un indebito recupero dell’imposta, mina, con effetti dirompenti, il meccanismo di compensazione tra iva a valle ed iva a monte. Sul punto, la giurisprudenza comunitaria insiste sulla necessità, ai fini della configurabilità del diritto di detrazione, di un nesso diretto tra operazioni a valle ed operazioni a monte (tra le più recenti, Corte giust. 21 febbraio 2013, C-104/12, Wolfram Becker, punto 19; Corte giust. 6 settembre 2012, C-496/11, Portugal Telecom SGPS, punto 36); ed anche la giurisprudenza di questa Corte segnala che, in caso di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, pur essendo i beni o il servizio effettivamente entrati nella disponibilità dell’impresa utilizzatrice, la falsa indicazione di uno dei soggetti del rapporto determina l’evasione del tributo relativo alla diversa operazione, effettivamente realizzata da altri soggetti (Cass. 16 maggio 2012, n. 7672)» (così in Cass. n. 8533 del 2020, n. 8534 del 2020 e n. 8535 del 2020, non massimate).
2.5 Va, altresì, precisato che la qualificazione delle operazioni inesistenti come soggettive od oggettive ha rilevanza solo ai fini della deducibilità dei costi, ammessi a determinate condizioni nel primo caso (cfr. n. 10167 del 2012; conf., ex multis, Cass. n. 24426 del 2013; Cass. n. 26461 del 2014; Cass. n. 25429 del 2016; Cass. n. 17788 del 2018; Cass. n. 32587 del 2019; Cass. n. 4645 del 2020; Cass. n.8480 del 2022), ed escluse nel secondo (cfr. Cass. n. 25249 del 2016; Cass. n. 33915 del 2019; Cass. n. 8480 del 2022).
2.5 Quanto all’incidenza al caso di specie della nuova previsione in materia di onere probatorio, di cui al comma 5-bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, introdotto dall’art. 6 della legge n. 130 del 2022, cui la ricorrente ha fatto riferimento nella memoria deve osservarsi che questa Corte (Cass. 31878 del 2022) ha già chiarito che, «In tema di onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio, l’art. 7, comma 5 bis, del d.lgs. n. 546 del 1992, introdotto dall’art. 6 della legge n. 130 del 2022, non stabilisce un onere probatorio diverso, o più gravoso, rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale».
2.6 D’altro canto, la nuova formulazione legislativa, che prevede che «L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni», non costituisce abrogazione, neppure implicita, dell’utilizzo delle presunzioni non legali in materia tributaria e, precisamente, delle presunzioni semplici aventi i requisiti di cui all’art. 2729 cod. civ., ma detta al giudice tributario le regole di valutazione della prova, stabilendo che se questa, anche presuntiva, fornita dall’amministrazione finanziaria, quando ne è onerata, è contraddittoria o insufficiente, allora il giudice deve annullare l’atto impositivo, e allo stesso modo dovrà fare quando addirittura essa manchi, come, invero superfluamente, pure prevede la disposizione in esame.
2.7 A quanto detto aggiungasi che tale disposizione ha chiaramente natura sostanziale posto che, in base al consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, sono tali le norme che, come quella in esame, consistono in regole di giudizio la cui applicazione comporta una decisione di merito, di accoglimento o di rigetto della domanda, mentre hanno carattere processuale le disposizioni che disciplinano i modi di deduzione, ammissione e assunzione delle prove (cfr. , Sez. 5, sentenza n. 18912 del 17/07/2018, Rv. 649717 – 01). Ne consegue che la disposizione in esame, di natura sostanziale e senza alcuna valenza interpretativa di altre disposizioni in tema di valutazione delle risultanze probatorie, non ha efficacia retroattiva e, quindi, si applica, ai giudizi introdotti successivamente al 16 settembre 2022, data di entrata in vigore dell’art. 6 della legge n. 130 del 2022 che l’ha introdotta, per la quale il successivo art. 8, dettato in materia di «disposizioni transitorie e finali», non prevede una diversa decorrenza.
3. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 43, commi 1 e 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo vigente ratione temporis, censurando la sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto valida la notifica dell’avviso di accertamento, ai fini dell’IRES, oltre il termine ordinario di decadenza, erroneamente applicando il cd. “raddoppio” dei termini pur in mancanza dei presupposti dell’obbligo di denuncia per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti.
4. Premesso, preliminarmente che nel caso di specie l’avviso di accertamento impugnato è stato notificato alla società contribuente in data 14 marzo 2013, per come ammesso a pag. 4 del ricorso, va fatta applicazione del principio giurisprudenziale secondo cui «In tema di accertamento tributario, i termini previsti dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 per l’IRPEF e dall’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’IVA, come modificati dall’art. 37 del d.l. n. 223 del 2006, conv., con modif., in l. n. 248 del 2006, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, già notificati, incidano le modifiche introdotte dall’art. 1, commi da 130 a 132, della l. n. 208 del 2015, attesa la disposizione transitoria, ivi introdotta, che richiama l’applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 128 del 2015, nella parte in cui sono fatti salvi gli effetti degli avvisi già notificati» (Cass. n. 11620 del 2018; conf. Cass. n. 33793 del 2019).
5. Quanto alla dedotta insussistenza dei presupposti per il raddoppio dei termini di accertamento, in particolare del dell’obbligo di denuncia penale, la ricorrente sostiene che «in presenza di costi effettivamente sostenuti e, dunque, in assenza di elementi fittizi indicati nella dichiarazione, si deve escludere che fossero sussistenti i presupposti dell’obbligo di denuncia penale e, dunque, non è applicabile il “raddoppio” dei termini ai fini dell’accertamento IRES» (ricorso, pag. 15).
5.1 La censura è infondata.
5.2 Va premesso che, ai sensi delle sopra citate disposizioni, nei testi applicabili “ratione temporis” (e, quindi, prima delle modifiche apportate dal lgs. n. 128 del 2015 e dalla successiva legge n. 208 del 2015, vertendosi nel caso di specie di avviso di accertamento emesso e notificato nell’anno 2013 – cfr., ex multis, Cass. n. 16728 del 2016, Cass. n. 26037 del 2016 e le pronunce sopra citate), il raddoppio dei termini presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen., per uno dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, tanto da essere del tutto indifferente l’effettiva presentazione della denuncia (cfr. Corte Cost. n. 247 del 2011, Cass. n. 1171 del 2016 e n. 27629 del 2018) e non rilevando né la configurabilità di una causa di estinzione del reato come la prescrizione, né l’intervenuta archiviazione della denuncia, «né l’esercizio dell’azione penale da parte del p.m., ai sensi dell’articolo 405 c.p.p., mediante la formulazione dell’imputazione, né la successiva emanazione di una sentenza di condanna o di assoluzione da parte del giudice penale, anche in considerazione del doppio binario tra giudizio penale e procedimento e processo tributario» (in termini, Cass. n. 9974 del 2015, n. 16728 del 2016 e più recentemente Cass. n. 22337 del 2018 e n. 5228 del 2019).
5.3 La Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011 ha affermato che l’unica condizione per il raddoppio dei termini è costituita dalla sussistenza dell’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorga ed indipendentemente dal suo adempimento, sicché «il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta «prognosi postuma») circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento», con la precisazione però che «il correlativo tema di prova ‒ e, quindi, l’oggetto della valutazione da effettuarsi da parte del giudice tributario ‒ è circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale e non riguarda l’accertamento del reato» (§ 5.3. della sentenza della Corte costituzionale). Da ciò discende che il contribuente, ove voglia contestare l’accertamento compiuto oltre il termine ordinario, dovrà denunciare la carenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia e non potrà mettere in discussione la sussistenza del reato, né sotto il profilo dell’elemento oggettivo, né sotto quello dell’elemento soggettivo, né infine dal punto di vista del suo autore, posto che tale accertamento è precluso al giudice tributario (Cass., Sez. 5^, 30 ottobre 2018, n. 27629; Cass., Sez. 6^-5, 28 giugno 2019, n. 17586; Cass., Sez. 5^, 2 luglio 2020, n. 13481). Infatti, sulla scorta della citata sentenza della Corte Costituzionale, in caso di denuncia presentata oltre gli ordinari termini di decadenza o addirittura di accertamento compiuto senza denuncia, il giudice tributario, al fine di verificare l’uso pretestuoso del raddoppio dei termini, dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta «prognosi postuma») circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità, con la precisazione, però, che il correlativo tema di prova ‒ e, quindi, l’oggetto della valutazione da effettuarsi da parte del giudice tributario ‒ è circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale e non riguarda l’accertamento del reato.
5.4 Ciò precisato, osserva il Collegio che, diversamente da quanto sostenuto nel ricorso, il reato di cui all’art. del d.lgs. n. 74 del 2000 che, nella versione vigente all’epoca dell’accertamento, prevedeva la punibilità di «chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi passivi fittizi», non si applica soltanto alle ipotesi di utilizzo da parte dell’autore del reato di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, ma, a determinate condizioni, anche a quelle relative ad operazioni soggettivamente inesistenti.
5.5 In tal senso si è espressa la giurisprudenza penale di questa Corte in particolare nella sentenza 50314 del 27/09/2023, Rv. 285675 – 01.
5.6 In tale pronuncia si è affermato che «L’indicazione di elementi passivi fittizi nella dichiarazione, avvalendosi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, non incide, […], sulla configurabilità del reato in esame, che, nel riferirsi all’uso di fatture o altri documenti concernenti operazioni inesistenti, non distingue tra quelle che sono tali dal punto di vista oggettivo o soggettivo (Sez. 3, 4236 del 18/10/2018, Rv. 27569201; Sez. 3, n. 30874 del 02/03/2018, Rv. 273728)», e che nella motivazione ha anche richiamato «i principi espressi in motivazione da Sez. 3, n. 50362 del 12.12.2019, dep. 2020, Pollice, Rv. 277938, non massimata sul punto, e da Sez. 3, n. 42994 del 07/07/2015, De Angelis, Rv. 265154 – 01, da cui traggono spunto tutte le altre sentenze successive, che affermò il principio secondo cui, in tema di reati tributari, la regola della indeducibilità dei componenti negativi del reddito relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di delitti non colposi (prevista dall’art. 14, comma 4-bis, l. n. 537 del 1993, come modificato dall’art. 8 del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, conv. in l. n. 44 del 2012), trova applicazione anche per i costi esposti in fatture che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi nell’ambito di una frode c.d. carosello, trattandosi di costi comunque riconducibili ad una condotta criminosa».
5.7 Si è dato altresì atto di un diverso orientamento, che esclude il reato, in relazione alle imposte sui redditi, nel caso di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, ritenendo deducibile il costo (cfr., ad esempio, pen., Sez. 3, n. 12920 del 11/2/2022, Currò, non massimata; Cass. pen., Sez. 4, n. 471 del 26/10/2021, De Pasquale, non massimata, oltre a Cass. pen., Sez. 3, n. 7039 del 2012, citata dalla ricorrente).
5.8 Ma quella della deducibilità del costo non è affatto la regola perché, così come correttamente affermato nella sentenza penale in esame (n. 50314 del 2023) l’art. 8, comma 1, del l. n. 16 del 2012, conv. dalla legge n. 44 del 2012, che ha modificato il comma 4-bis dell’art. 14 della legge n. 537 del 1993, ha introdotto ««la regola della indeducibilità dei componenti negativi del reddito relativi a beni o servizi «direttamente» utilizzati per il compimento di delitti non colposi»» (sentenza in esame, par. 4.2.4.).
5.9 Inoltre, ««nel caso della corruzione, il costo non può mai essere dedotto; non può essere dedotto il costo che sia consistito nel «compenso» versato all’emittente il falso documento»» (sentenza penale citata, par. 4.2.3.) e di certo non sono deducibili i costi quando siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (Cass. pen., Sez. 3, n. 45114 del 28/10/2022, Testa, Rv. 283771).
5.10 Pertanto, ai fini delle imposte dirette, non può escludersi l’applicabilità del raddoppio dei termini di accertamento nelle ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti, attesa la non automatica deducibilità dei costi relativi a tali operazioni, la cui prova grava sul contribuente. Pertanto, per quello che si è detto all’inizio dell’esame del motivo, l’oggetto della valutazione da effettuarsi da parte del giudice tributario non riguarda l’accertamento del reato, ma è circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta «prognosi postuma») circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento e la parte non può contestare la sussistenza del reato, né sotto il profilo dell’elemento oggettivo, né sotto quello dell’elemento soggettivo.
5.11 Alla stregua delle considerazioni svolte, il motivo va rigettato dovendosi escludere un comportamento imparziale dell’amministrazione finanziaria o una errata valutazione da parte del giudice di merito, avuto riguardo anche alla circostanza che nel caso di specie, per come accertato dalla CTR, tra le operazioni contestate ce n’erano anche di oggettivamente inesistenti.
6. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, 4, cod. proc. civ., la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. per avere la CTR omesso di pronunciare sulla domanda di annullamento dell’avviso di accertamento, ai fini dell’IRAP, in quanto notificato oltre gli ordinari termini di decadenza, senza che vi fossero i presupposti per l’applicabilità del raddoppio dei termini.
7. Il motivo è infondato e va rigettato giacché i giudici di appello, diversamente da quanto dedotto nel motivo, ritenendo «infondati e pretestuosi i motivi del parziale appello, rilevando in ordine alla contestata inapplicabilità del raddoppio dei termini per l’accertamento, che l’Ufficio ha contestato, sia nel PVC che in accertamento, l’inesistenza oggettiva e soggettiva delle prestazioni fatturate dai fornitori […]», ha sostanzialmente ritenuto applicabile il raddoppio dei termini anche all’IRAP, rigettando l’eccezione sollevata sul punto dalla società appellante. Ne consegue che la ricorrente avrebbe dovuto dedurre una violazione di legge e non invece, come ha fatto, un’omessa pronuncia.
8. Con il quarto motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. per avere la CTR omesso di pronunciare sulla domanda di annullamento dell’avviso di accertamento «in quanto l’effettiva esistenza delle operazioni fatturate risulta provata dal fatto che le medesime prestazioni sono state poi addebitate al cliente della società LAZ».
9. Il motivo è infondato in quanto l’affermazione fatta in sentenza dai giudici di appello, secondo cui nella specie, per come risultava dalla sentenza di primo grado e per stessa ammissione dell’appellante L. s.p.a., «non risulta provata l’effettività dei costi, data la [mancata] dimostrazione dell’operatività gestionale delle Società fornitrici, delle quali l’appellante non fornisce le dovute informative sulla struttura, né fornisce alcuna prova in merito a chi effettivamente avrebbe fornito le presunte lavorazioni», costituisce implicito rigetto della domanda dedotta nel motivo in esame.
10. Con il quinto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. per avere la CTR omesso di pronunciare sulla domanda di annullamento dell’avviso di accertamento, ai fini delle imposte dirette, per l’omessa esclusione da imposizione dei ricavi afferenti i presunti costi fittizi.
11. Il motivo è inammissibile per difetto di specificità della censura non avendo la parte ricorrente neppure dedotto se la domanda posta al giudice di appello fosse stata proposta già nel ricorso dinanzi al giudice di primo grado così da non incorrere nell’inammissibilità del motivo per novità della domanda (Cass. n. 28072 del 2021; Cass. n. 17049 del 2015).
12. Per le medesime ragioni deve ritenersi inammissibile il sesto motivo di ricorso, anch’esso proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., con cui la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. per avere la CTR omesso di pronunciare sulla domanda di annullamento dell’avviso di accertamento, ai fini dell’IVA, per mancanza di prove della partecipazione della ricorrente all’asserita attività fraudolenta delle quattro ditte fornitrici; domanda che la ricorrente avrebbe dovuto provare di aver proposto con l’originario ricorso mediante la sua riproduzione nel ricorso per cassazione, la sua precisa localizzazione o mediante allegazione del relativo atto.
13. In estrema sintesi, il ricorso va rigettato e la ricorrente condannata al pagamento delle spese processuali nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.800,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.