Corte di Cassazione, sezione tributaria, ordinanza n. 23592 depositata il 3 settembre 2024
GIUDIZIO RESCISSORIO MODIFICA ORIENTAMENTO GIURISPRUDENZIALE – AVVISO DI ACCERTAMENTO E DELEGA DI FIRMA – COMPENSAZIONE SPESE DI LITE – GRAVI ED ECCEZIONALI RAGIONI.
Considerato che:
1. Gli avv.ti P.P., P.I., F.P., in proprio e nella qualità di rappresentanti dell’associazione professionale denominata STUDIO AVV. A.P. – ASSOCIAZIONE PROFESSIONALE TRA GLI AVVOCATI P.P., P.I. E F.P. (d’ora in poi cd. Associazione Professionale), nonché gli avv.ti P.I. e F.P. hanno impugnato, davanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Napoli, l’avviso di accertamento n. TF3020804909/2014, notificato dall’Agenza delle entrate Direzione provinciale di Napoli I, con il quale è stato chiesto il pagamento, in solido, dell’importo di Euro 3.433,00 per maggiore IRAP e di Euro 13.815,00 per maggiore IVA in merito all’annualità 2010.
Con sentenza n. 4477 del 24/02/2016 la Commissione Tributaria Provinciale di Napoli accolse il ricorso, annullando l’atto impugnato.
2. L’Agenza delle entrate – Direzione provinciale di Napoli I impugnò la sentenza davanti alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, davanti alla quale fu riunito anche il giudizio d’impugnazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Caserta, che aveva annullato, a sua volta, gli avvisi di accertamento emessi nei confronti di P.I. e F.P., a seguito dell’avviso di accertamento emesso nei confronti dell’Associazione Professionale.
3. La CTR della Campania accolse i ricorsi dell’Agenzia delle entrate, con sentenza n. 8256/2017 emessa in data 29/09/2017 e gli avv.ti P.P., P.I., F.P. in proprio e quali rappresentanti dell’Associazione Professionale, nonché gli ti P.I., P.P. e F.P. proposero ricorso in cassazione.
4. Questa Corte, con sentenza n. 13313 del 2019 accolse il ricorso proposto dall’odierna parte ricorrente, cassando la sentenza impugnata, con rinvio alla CTR della Campania in diversa composizione. In tale pronuncia si legge che: «Questa Corte (Cass.22803/2015) ha, di recente, precisato che “in tema di accertamento tributario, la delega di firma o di funzioni di cui all’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 deve necessariamente indicare il nominativo del delegato, pena la sua nullità, che determina, a sua volta, quella dell’atto impositivo, sicché non può consistere in un ordine di servizio in bianco, che si limiti ad indicare la sola qualifica professionale del delegato senza consentire al contribuente di verificare agevolmente la ricorrenza dei poteri in capo al sottoscrittore”. La Corte ha ritenuto, nella controversia esaminata, la delega “nulla in quanto, come già rilevato, priva del nominativo del dirigente delegato, non potendo la delega essere fatta “per relationem” con riferimento a un soggetto incerto, ben potendo i capi uffici o capi team al momento della delega non essere più tali al momento della sottoscrizione degli atti impositivi (per trasferimento, pensionamento etc) e non potendo essere sostituiti dei soggetti eventualmente subentranti neanche individuabili al momento del conferimento della delega a cui non può riconoscersi ultrattività con riferimento a possibili mutamenti di qualifica di soggetti individuati, al momento del conferimento della delega, solo per relationem con riferimento all’incarico ricoperto. La cd delega in bianco, priva del nominativo del soggetto delegato deve quindi essere considerata nulla non essendo possibile verificare agevolmente da parte del contribuente se il delegatario avesse il potere di sottoscrivere l’atto impugnato e non essendo ragionevole attribuire al contribuente una tale indagine amministrativa ai fine di verificare la legittimità dell’atto”. Occorre, in sostanza, una delega “nominativa”, perché solo in tal modo si radica il rapporto di fiducia tra delegante e delegato. Nella specie, dalla trascrizione della delega contenuta nel ricorso, in osservanza del principio di autosufficienza si evince che il soggetto che firma l’avviso (giudizio 9981/16) non è indicato nella delega. Sussiste il difetto di motivazione. Le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. 7 aprile 2014, n. 8053), hanno chiarito che, ai fini della configurabilità del vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. quale riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83/2012, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 134/2012, l’omesso esame deve riferirsi a fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dalla sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti ed abbia carattere decisivo, tale cioè, ove esaminato, da determinare un esito diverso della controversia.
La CTR non ha dato conto di aver esaminato le censure riferite agli accertamenti individuali, riuniti al ricorso dell’Associazione anche con riferimento all’assenza di ogni delega di firma.»
5. La CTR della Campania, con sentenza n. 5922/2020 depositata il 10/12/2020, in parziale accoglimento dell’appello dei contribuenti, ha dichiarato legittimo l’avviso di accertamento nei confronti dell’Associazione Professionale, mentre ha annullato l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate di Caserta nei confronti dei soci. Nella sentenza impugnata si legge che: «Dalla documentazione prodotta, tra cui anche la delega conferita al funzionario da parte del Direttore Provinciale, questo Collegio ritiene valido l’Avviso di Accertamento emesso nei confronti dell’Associazione, anche alla luce dell’Ordinanza n. 5200/18 con cui la Corte di Cassazione ha stabilito che “l’avviso di accertamento non sottoscritto dal titolare dell’Ufficio è valido ove l’Amministrazione produca, anche in giudizio, l’ordine di servizio recante l’indicazione del nominativo del delegato e dei limiti oggettivi della delega”».
6. Avverso la sentenza n. 5922/2020 del 10/12/2020 hanno proposto ricorso per cassazione, affidandosi a tre motivi, gli avv.ti P.P., P.I., F.P., in proprio e nella qualità di rappresentanti dell’associazione professionale denominata STUDIO A.P. – ASSOCIAZIONE PROFESSIONALE tra gli avvocati P.I., P.P. e F.P., nonché gli avv.ti P.I. e F.P.. L’Agenza delle entrate ha resistito con controricorso.
Ritenuto che:
1. In via preliminare occorre evidenziare come la sentenza impugnata sia passata in giudicato con riferimento alla statuizione di annullamento dell’avviso di accertamento emesso, individualmente, nei confronti dei singoli L’Agenzia delle entrate, soccombente sul punto, non ha, infatti, proposto ricorso in cassazione.
2. Con il primo motivo di ricorso la parte ricorrente ha contestato, con riferimento all’avviso di accertamento emesso nei confronti dell’Associazione professionale, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 e 384, comma 2, cod. proc. civ. e dell’art. 42 d.P.R. 29/09/1973, n. 600, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 4, proc. civ., per avere il giudice d’appello violato, disatteso e non applicato il principio di diritto sancito all’esito del giudizio rescindente n. 10587/19, con l’ordinanza n. 13313 pubblicata in data 17/05/2019, che ha affermato la nullità della delega (ordine di servizio n. 26/14), in base alla quale è stato firmato l’avviso di accertamento impugnato dall’Associazione Professionale, perché privo dell’indicazione del delegato.
Secondo la parte ricorrente la sentenza pronunciata nella fase cd. rescissoria «in dispregio del decisum della Cassazione, ha ritenuto, invece, valida la delega di firma, tra l’altro con motivazione assente, generica, e contraddittoria e, conseguentemente, ha dichiarato la legittimità dell’avviso di accertamento riferito all’Associazione Professionale».
La ricorrente, in merito ai limiti del giudizio di rinvio, ha richiamato Cass. n. 27373 del 2018 e Cass. n. 8225 del 2013, rilevando, quanto all’efficacia della sentenza rescindente, che la stessa è «equiparata al giudicato, partecipando della qualità dei comandi giuridici, con la conseguenza che la sua interpretazione deve essere assimilata, per l’intrinseca natura e per gli effetti che produce, all’interpretazione delle norme giuridiche». Ha quindi richiamato i contenuti dell’avviso di accertamento recante la sottoscrizione di un soggetto diverso dal Direttore Provinciale e l’ordine di servizio n. 26/14, evidenziando come quest’ultimo, in quanto contenente una delega in bianco, deve considerarsi nullo, rendendo tale anche l’avviso di accertamento.
3. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente ha contestato, in via subordinata (sempre con riferimento all’avviso di accertamento emesso nei confronti dell’Associazione professionale), la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 42 d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere il giudice d’appello erroneamente negato la nullità dell’avviso di accertamento in quanto privo della sottoscrizione del capo dell’ufficio o di un dirigente da lui validamente delegato, nonché l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., per non avere il giudice d’appello motivato in ordine alle ragioni per cui ha ritenuto valida la delega prodotta nel giudizio R.G.A. n. 9981/16.
Rileva che la motivazione della sentenza impugnata non avrebbe in alcun modo motivato in ordine al contenuto della delega e all’eccezione di nullità di quest’ultima, perché in bianco e carente dei requisiti di legge. Rileva, poi, che: «in questa ottica, la scarna motivazione adottata, limitata alla mera e sintetica affermazione dell’avvenuta produzione in giudizio della delega senza alcun approfondimento circa il suo contenuto e la sua conformità o meno al modello legale, si traduce nell’ulteriore vizio della sentenza di cui all’art. 360, comma 1, n. 5 apparendo evidente l’omesso esame da parte della CTR circa un fatto decisivo che era stato oggetto di discussione tra le parti».
Rileva, infine, che il giudice d’appello, omettendo l’esame dell’eccezione di nullità della delega, si sarebbe limitato ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie e cumulative, senza considerare che il Fisco non avrebbe dimostrato, come suo onere, la validità della delega.
4. L’Agenzia delle entrate nel controricorso ha svolto le proprie difese in modo cumulativo (con riferimento ai primi due motivi di ricorso). In particolare, richiamati i limiti dei poteri del giudice di rinvio (a seconda che il motivo di accoglimento del ricorso per cassazione sia incentrato sull’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. piuttosto che sull’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ.), ha evidenziato come la sentenza della CTR non avrebbe affatto violato il principio di diritto affermato da Cass. n. 13313 del 2019, essendo stata prodotta in giudizio valida delega conferita dal Direttore provinciale al firmatario dell’atto. Ha rilevato che «ben poteva il giudice di rinvio valutare nuovamente i fatti, anche alla luce delle più recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità in materia di delega di Si evidenzia infatti che l’orientamento a seguito della sentenza n. 22803/2015, citato nell’ordinanza della Cassazione 13313/19, risulta ampiamente superato da più recente giurisprudenza di legittimità della stessa Suprema Corte la quale ha ritenuto legittima la delega di firma all’incarico e non alla persona. È questo l’innovativo principio sancito con la sentenza n. 8814 del 29 marzo 2019. Secondo la suprema Corte, il conferimento della delega di firma può avvenire attraverso l’emanazione di ordini di servizio che individuino il soggetto delegato con riferimento all’incarico ricoperto nell’ambito delle articolazioni interne all’ufficio, senza l’indicazione delle generalità, purché sia consentita la successiva verifica, in sede giurisdizionale, della corrispondenza fra il sottoscrittore e il destinatario della delega.» Evidenzia, quindi, che l’art. 42 d.P.R. n. 600 del 1973 non contiene alcuna specificazione in ordine alle modalità di rilascio della delega, alla sua funzione e ai requisiti di invalidità, sanzionando con la nullità (art. 42, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973) l’avviso di accertamento che non rechi la firma del titolare dell’ufficio o di altro delegato. Di conseguenza è ammissibile la delega che non indichi le generalità del delegato, ma solamente l’incarico ricoperto nell’ambito delle articolazioni interne all’ufficio. A conferma del superamento dell’indirizzo contenuto nel provvedimento che ha definito la fase cd. rescindente (Cass. n. 13313 del 2019), ha richiamato Cass. 19/04/2019, n. 11013 e Cass. 09/09/2020, n. 18675. Nel caso di specie il deposito delle disposizioni di servizio consentiva l’individuazione del funzionario sottoscrittore. Non si potrebbe, inoltre, parlare di delega in bianco, dal momento che il nominativo del delegato sarebbe individuabile, il suo ruolo di capo team sarebbe a termine sarebbe stato puntualmente verificato e rinnovato. Ha poi richiamato le dimensioni e la complessità della Direzione provinciale di Napoli I dell’Agenzia delle entrate, con la conseguente necessità di regolare il rilascio delle deleghe secondo principi organizzativi di ordine sistematico, nella specie articolati attraverso: 1) la ripartizione tra i diversi uffici (Ufficio controlli; Ufficio legale; Uffici territoriali); 2) l’individuazione degli atti di competenza dei singoli uffici; 3) la fissazione dei criteri per stabilire il valore economico degli atti; 4) l’individuazione delle soglie economiche gradate in relazione alle diverse funzioni di responsabilità, che partono dai Capi Team, passano dai Capi Area e finiscono ai Capi degli Uffici, mentre il Direttore provinciale si riserva il potere di firma assoluto ed esclusivo su atti di particolare rilevanza economica.
In particolare, dalla tabella B, allegata all’ordine di servizio n. 26/14 sarebbe possibile rilevare, dall’incrocio del tipo di atto indicato nell’apposita riga della prima colonna con la corrispondente casella della colonna intestata “Capo Team Accertamento”, che quest’ultimo avrebbe la delega alla firma per gli avvisi di accertamento e rettifica con MIA (maggior imposta accertata) fino a Euro 30.000. L’ordine di servizio n. 26/14 riporterebbe, quindi, la carica del funzionario delegato e la lettura coordinata dell’incarico nominativo al dr. Montefusco quale capo-team (cui sarebbe collegata la delega alla sottoscrizione dell’avviso di accertamento in base all’ordine di servizio n. 26/14) con effetto, dapprima, dal 01/07/2011 fino al 30/06/2013, poi fino al 31/12/2013 e, infine, fino al 31/12/2016 (prot. 2014/36 del 31/01/2014).
5. Il primo motivo di ricorso è fondato, con conseguente assorbimento del secondo motivo di ricorso.
È bene precisare che questa Corte è chiamata a pronunciarsi sulla vicenda in esame in sede di ricorso avverso la sentenza pronunciata nella fase cd. rescissoria, successivamente a Cass. n. 13313 del 2019. Dalla lettura di tale pronuncia è agevolmente individuabile un’interpretazione dell’art. 42, primo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, secondo la quale la delega di firma richiede, necessariamente, l’indicazione nominativa del soggetto delegato, che non può essere individuato neppure mediante la sola menzione della qualifica rivestita, come quella di capo team. Nell’ambito del perimetro ermeneutico delineato dalla pronuncia resa nella fase rescindente il giudice del rinvio avrebbe dovuto verificare, in fatto, la presenza di una delega nominativa, riferita al firmatario dell’avviso di accertamento. Tale conclusione, che discende dall’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ. (secondo il quale il giudice di rinvio «deve uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte») non viene meno in ragione del superamento – ad opera della giurisprudenza successiva, anche tra le stesse parti del presente giudizio, v. Cass. 3014 del 2020 – dei principi affermati da Cass. n. 13313 del 2019, dal momento che quest’ultima, nel caso di specie, assume efficacia di giudicato e non già di mero precedente.
L’interpretazione dell’art. 42, primo comma, d.P.R. n. 600 del 1973 da parte della Corte di cassazione nel presente giudizio passa, quindi, dalla necessaria (e vincolante) intermediazione dei principi affermati da Cass. n. 13313 del 2019 e si riduce, conseguentemente, all’individuazione della loro portata all’interno del giudizio che ha definito la cd. fase rescissoria (con un’attività assimilabile a quella dell’interpretazione delle norme giuridiche, v. Cass. 05/03/2019, n. 5344), senza che possano assumere, in alcun modo, rilievo i (diversi) principi e le (diverse) interpretazioni dell’art. 42, primo comma, d.P.R. n. 600 del 1973 rese dalla giurisprudenza di legittimità successiva alla pronuncia resa nella fase cd. rescindente. Quest’ultima ha, quindi, definito, con efficacia di giudicato (Cass. 05/03/2019, n. 5344), la regula iuris destinata a disciplinare il caso di specie, che vede dipendere la validità e l’efficacia dell’avviso di accertamento sottoscritto da un soggetto delegato dal capo dell’ufficio dalla presenza di una delega che indichi nominativamente il soggetto delegato, senza che possa supplire l’individuazione per relationem attraverso la qualifica ricoperta. Dell’interpretazione dell’art. 42, primo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, ormai cristallizzata nella pronuncia resa nella fase rescindente (non essendo intervenuta, medio tempore, alcuna modifica normativa o declaratoria di illegittimità costituzionale della norma appena richiamata) non ha fatto, invece, buon governo il giudice di rinvio, che si è limitato a far riferimento alla documentazione prodotta, «tra cui anche la delega conferita al funzionario da parte del Direttore provinciale» e ha poi richiamato due pronunce di legittimità regolative di due fattispecie diverse: la prima (Cass. n. 5200 del 2018) riguarda l’ipotesi di un ordine di servizio recante l’indicazione nominativa del delegato e dei limiti oggettivi della delega; la seconda (Cass. 09/09/2020, n. 18765) è stata richiamata per le seguenti considerazioni contenute nella sentenza impugnata: «la Corte di Cassazione ha confermato che la delega per la sottoscrizione degli atti impositivi è una delega di firma e non di funzioni, non essendo quindi necessario che indichi la sua validità ed il nominativo del delegato. Tali dati possono infatti ben essere riportati nel conseguente ordine di servizio. I giudici hanno ribadito che la delega per la sottoscrizione dell’avviso di accertamento è una delega di firma e non di funzioni. Conseguentemente il relativo provvedimento non deve necessariamente contenere né la durata della delega stessa né il nominativo del delegato». Con quest’ultima affermazione – per quanto conforme alla giurisprudenza successiva alla pronuncia resa nella fase cd. rescindente – la CTR della Campania si è posta, tuttavia, al di fuori del solco tracciato da Cass. n. 13313 del 2019, la cui interpretazione dell’art. 42 d.P.R. n. 600 del 1973 non può essere oggetto di revisione – oltre che da parte del giudice di rinvio (v. 28/02/2024, n. 5253 – neppure dalla presente Corte nell’ambito del giudizio di impugnazione avverso la sentenza pronunciata nella fase cd. rescissoria.
6. Con il terzo motivo di ricorso la parte ricorrente ha contestato, con riferimento agli avvisi di accertamento individuali relativi agli avv.ti F.P. e P.I., la violazione degli artt. 15 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e 91, 92 e 384, comma 2, cod. proc. civ., nonché l’omessa motivazione, per avere il giudice d’appello compensato le spese di lite, nonostante la soccombenza totale in primo grado, in secondo grado e davanti al giudice di legittimità.
Nell’illustrare tale motivo di ricorso la parte ricorrente ha richiamato l’art. 15 d.lgs. n. 546 del 1992 che consente la compensazione delle spese di lite solo «qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate».
Ha richiamato Cass. 24/02/2020 n. 4764 che impone di esplicitare motivazioni su tali ragioni, che devono trovare riferimento in specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa (Cass. 15/12/2011, n. 26987; Cass. 13/07/2011, n. 15413; Cass. 20/10/2010, n. 21521).
4.1. Per l’esame di tale censura occorre partire dalla formulazione dell’art. 15, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 che regola, ratione temporis, la presente fattispecie. Si tratta, più precisamente, della versione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 9, comma 1, lett. f), n. 2), d.lgs. 24/09/2015, n. 156 (applicabili dal 01/01/2016, ai sensi dell’art. 12, comma 1, del testo normativo appena citato), in base al quale: «i commi 2 e 2-bis sono sostituiti dai seguenti: «2. Le spese di giudizio possono essere compensate in tutto o in parte dalla commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate.» L’art. 9, comma 1, lett. f), n. 1) d.lgs. 24/09/2015, n. 156, al contempo, ha eliminato nell’art. 15, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992 il secondo periodo che rinviava all’art. 92, comma 2, cod. proc. civ.
Trovano, invece, applicazione ai giudizi instaurati «in primo e in secondo grado, nonché in Cassazione» a decorrere dal 04/01/2024 le modifiche apportate all’art. 15, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 ad opera dell’art. 1, comma 1, lett. e), n. 1) d.lgs. 30 dicembre 2023, n. 220 («Le spese del giudizio sono compensate, in tutto o in parte, in caso di soccombenza reciproca e quanto ricorrono gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate ovvero quando la parte è risultata vittoriosa sulla base di documenti decisivi che la stessa ha prodotto solo nel grado di giudizio»).
Nella formulazione applicabile, ratione temporis, alla presente controversia (senza che il risultato interpretativo si diversifichi in ragione delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 220 del 2023) il tenore letterale dell’art. 15, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 (nel richiamare le «gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate») trova riscontro nell’art. 92, comma 2, cod. proc. civ., a seguito dell’intervento additivo di C. cost. n. 77 del 2018, che ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale – nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del d.l. 12/09/ 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile) – nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni. La stessa dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 92, comma 2, cod. proc. civ. ha trovato, quale riferimento sistematico, le modifiche apportate all’art. 15, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 ad opera del d.lgs. 156 del 2015 («Per la riconduzione a legittimità della disposizione censurata può anche considerarsi che più recentemente lo stesso legislatore, in linea di continuità con l’azione riformatrice degli ultimi anni, è ritornato alla tecnica normativa della clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni». Infatti, dopo l’introduzione della disposizione attualmente censurata, il legislatore ha novellato alcune norme del processo tributario. In particolare l’art. 9, comma 1, lettera f), numero 2), del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156 (Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli articoli 6 e 10, comma 1, lettere a e b, della legge 11 marzo 2014, n. 23), ha sostituito gli originari commi 2 e 2-bis dell’art. 15 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega governativa nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991 n. 413) ed ha, tra l’altro, previsto che le spese del giudizio possono essere compensate in tutto o in parte, oltre che in caso di soccombenza reciproca, anche «qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni» che devono essere espressamente motivate. Ciò orienta la pronuncia di illegittimità costituzionale che si va a rendere nel senso che parimenti le ipotesi illegittimamente non considerate dalla disposizione censurata possono identificarsi in quelle che siano riconducibili a tale clausola generale e che siano analoghe a quelle tipizzate nominativamente nella norma, nel senso che devono essere di pari, o maggiore, gravità ed eccezionalità»).
Proprio dalla pronuncia resa da C. Cost. n. 77 del 2018 si traggono le coordinate ermeneutiche che possono condurre alla compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 15, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 e 92, comma 2, cod. proc. civ. (alla luce dell’intervento additivo appena richiamato).
La Corte costituzionale ha rilevato, in primo luogo, che la regola generale è quella della liquidazione delle spese in favore della parte vittoriosa («La regolamentazione delle spese di lite è processualmente accessoria alla pronuncia del giudice che la definisce in quanto tale ed è anche funzionalmente servente rispetto alla realizzazione della tutela giurisdizionale come diritto costituzionalmente garantito (art. 24 Cost.). Il «normale complemento» dell’accoglimento della domanda – ha affermato questa Corte (sentenza n. 303 del 1986) – è costituito proprio dalla liquidazione delle spese e delle competenze in favore della parte vittoriosa»). Tale regola non ha, tuttavia, carattere assoluto e inderogabile («Ampia, quindi, è la discrezionalità di cui gode il legislatore nel dettare norme processuali (ex plurimis, sentenze n. 270 del 2012, n. 446 del 2007 e n. 158 del 2003) e segnatamente nel regolamentare le spese di lite. Sicché è ben possibile – ha affermato questa Corte (sentenza n. 157 del 2014) − «una deroga all’istituto della condanna del soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa, in presenza di elementi che la giustifichino (sentenze n. 270 del 2012 e n. 196 del 1982), non essendo, quindi, indefettibilmente coessenziale alla tutela giurisdizionale la ripetizione di dette spese (sentenza n. 117 del 1999)»).
In secondo luogo, nel perimetrare l’evoluzione normativa che ha interessato l’originaria formulazione dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. (cui rinviava anche l’art. 15, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992, prima delle modifiche ad opera del d.lgs. n. 156 del 2015) con il passaggio dalla clausola generale che ammetteva la compensazione per «gravi motivi» a quella – che connotava la formulazione dell’art. 92, comma 2, cod. proc. civ. anteriormente alle modifiche ad opera del d.l. n. 132 del 2014 e attualmente inserita nell’art. 15, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 – che impone, invece, la presenza di «gravi ed eccezionali ragioni», finisce per restringere i margini del sindacato giurisdizionale, riducendo, in tal modo, le possibili deroghe alla regola generale della soccombenza («I «giusti motivi» sono diventati le «gravi ed eccezionali ragioni»: ciò significava che il perimetro della clausola generale si era ridotto, ritenendo il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità − che si è già rilevato essere ampia, secondo la giurisprudenza di questa Corte − che una più estesa applicazione della regola di porre a carico del soccombente totale le spese di lite rafforzasse il principio di responsabilità di chi promuoveva una lite, o resisteva in giudizio, con conseguente effetto deflativo sul contenzioso civile.», C. cost. n. 77 del 2018).
In tal modo il legislatore non solo accentua i rapporti tra la regola cd. della soccombenza (art. 15, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992) e quella speciale della compensazione (art. 15, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992) in termini di norma generale-norma eccezionale, ma costruisce la seconda come una sorta di correttivo alla prima, di cui finisce per modulare l’applicazione secondo il principio di proporzionalità.
Il principio di responsabilità che integra la ratio della regola generale sulla soccombenza, trova, quindi, in virtù di una clausola generale («gravi ed eccezionali ragioni») un correttivo che scongiura esiti interpretativi contrari al principio di ragionevolezza.
La gravità ed eccezionalità (cui il legislatore fa riferimento in via cumulativa) delle ragioni che inducono il giudice a compensare le spese è correlata alla condotta processuale complessivamente tenuta dalla parte soccombente nell’agire e resistere in giudizio, da valutare in relazione all’incidenza di fattori esterni e non controllabili che rendano contraria al principio di proporzionalità l’applicazione della regola della soccombenza sancita nell’art. 15, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992 nella liquidazione delle spese.
Un’ipotesi di ragione grave ed eccezionale è quella tipizzata ad opera del d.lgs. 220 del 2023 – applicabile ai processi instaurati dal 04/04/2024, v. supra – con la quale è stato inserito nell’art. 15, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992, il riferimento alla l’ipotesi in cui «la parte sia risultata vittoriosa sulla base di documenti decisivi che la stessa ha prodotto solo nel corso del giudizio».
Un’altra ipotesi, emersa nella giurisprudenza di legittimità (Cass. 23/12/2021, n. 41360) è invece riconducibile al mutamento sopravvenuto di giurisprudenza (v. anche C. cost. n. 77 del 2018, la quale precisa altresì che: «tale ratio può rinvenirsi anche in altre analoghe fattispecie di sopravvenuto mutamento dei termini della controversia senza che nulla possa addebitarsi alle parti: tra le più evidenti, una norma di interpretazione autentica o più in generale uno ius superveniens, soprattutto se nella forma di norma con efficacia retroattiva; o una pronuncia di questa Corte, in particolare se di illegittimità costituzionale; o una decisione di una Corte europea; o una nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione europea; o altre analoghe sopravvenienze. Le quali tutte, ove concernenti una “questione dirimente” al fine della decisione della controversia, sono connotate da pari “gravità” ed “eccezionalità”, ma non sono iscrivibili in un rigido catalogo di ipotesi nominate: necessariamente debbono essere rimesse alla prudente valutazione del giudice della controversia.»).
In ogni caso, come già evidenziato da questa Corte (Cass., 08/04/2024, n. 9312; Cass., 24/01/2022, n. 1950) tali ragioni gravi ed eccezionali devono essere espressamente indicate nella sentenza, dove il giudice deve dare puntuale riscontro, pur nell’ambito del parametro di sinteticità sancito nell’art. 36, comma 1, n. 4) d.lgs. n. 546 del 1992. L’onere di motivazione non risponde, peraltro, a un requisito meramente formale, ma consente, oltre all’assolvimento di esigenze di trasparenza, alla funzione di verificare se le ragioni (che hanno condotto alla compensazione delle spese di lite) siano effettivamente gravi ed eccezionali, al punto che l’applicazione della regola generale della soccombenza porterebbe, in concreto, a un esito interpretativo e applicativo contrario al principio di proporzionalità e in antitesi con gli artt. 24 e 111 Cost.
Nel caso in esame, tuttavia, la decisione della CTR, in punto di spese, è totalmente priva di motivazione e non tiene conto dell’esito complessivo della vicenda che ha visto l’Agenzia delle entrate totalmente soccombente sui ricorsi individuali degli avv.ti Francesco Paolo e P.I., con la conseguente violazione dell’art. 15, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992.
Ne consegue che anche il terzo motivo di ricorso è fondato, tenuto conto che: «Nel processo tributario, la compensazione delle spese processuali, ex art. 15, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, come modificato dall’art. 9, comma 1, lett. f, del d.lgs. n. 156 del 2015, è consentita esplicitando nella motivazione le gravi ed eccezionali ragioni che la sorreggono, che non possono essere illogiche o erronee, configurandosi altrimenti un vizio di violazione di legge, denunciabile in sede di legittimità» (Cass., 08/04/2024, n. 9312).
Il giudice del rinvio si atterrà, pertanto, al seguente principio di diritto:
«l’art. 15, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 – nella formulazione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 9, comma 1, lett. f), n. 2) del d.lgs. n. 156 del 2015 – deve essere interpretato, nel senso che la compensazione delle spese di lite, oltre che nell’ipotesi di soccombenza reciproca, è ammissibile solo in presenza di ragioni gravi ed eccezionali, da enunciare espressamente nella decisione. In particolare, il giudice deve tener conto della condotta processuale della parte soccombente nell’agire e resistere in giudizio, nonché dell’incidenza di fattori esterni e non controllabili, tali da rendere, nel caso concreto, contraria al principio di proporzionalità l’applicazione del criterio generale della soccombenza».
7. Alla luce di quanto sin qui evidenziato, vanno accolti il primo e il terzo motivo di ricorso, assorbito il secondo; la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti e rinviata alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, per nuovo esame e per le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e il terzo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.