Corte di Cassazione, sezione tributaria, ordinanza n. 24995 depositata il 17 settembre 2024

autorizzazione accesso domiciliare – segreto ex art.329 c.p.p. – principio di diritto

Rilevato che:

Con sentenza della Commissione Tributaria Regionale dell’Umbria veniva parzialmente accolto l’appello di S.M. avverso la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Terni n. 92/2/14 con la quale il giudice aveva rigettato il ricorso introduttivo. Il contribuente, dottore commercialista, impugnava gli avvisi di accertamento nn. T3Q010601441, T3Q010601833 e T3Q010601979 emessi dall’Agenzia delle Entrate di Terni con riferimento agli anni di imposta 2007, 2008 e 2009.

Nella sentenza impugnata si legge che con detti avvisi l’Agenzia contestava, sotto un primo profilo, costi portati da fatture emesse nei confronti di S.M., persona fisica, dalla società Studio M.S. S.r.l., per attività di elaborazione e gestione dei dati contabili, in quanto ritenuti relativi ad operazioni inesistenti.

Una seconda ripresa, relativa agli anni 2008 e 2009, era disposta per compensi non dichiarati rispettivamente per euro 58.079,00 e per euro 165.616,00, risultanti dai versamenti e prelevamenti sul conto corrente rispetto ai quali il contribuente non era stato in grado di fornire giustificazione.

Gli accertamenti erano fondati sulle risultanze di una verifica della Guardia di Finanza nell’ambito della quale venivano disposte indagini bancarie ex art. 32, comma 1, n. 2, d.P.R. 600/1973 e contestate operazioni come inesistenti.

Il giudice di prime cure rigettava il ricorso confermando integralmente le riprese. Il giudice d’appello teneva conto che, nelle more, l’Agenzia delle Entrate in via di autotutela, adeguandosi alla pronuncia della Corte costituzionale n. 228/2014, aveva riconosciuto la non rilevanza dei prelevamenti dal conto corrente ai fini della ricostruzione dei ricavi, per un importo di euro 44.343,00 per l’anno 2008 e di euro 111.331,00 per l’anno 2009, disapplicando le relative sanzioni. Per l’effetto, accoglieva l’appello del contribuente entro tali limiti e nel resto rigettava l’impugnazione.

Avverso tale sentenza S.M. ha proposto ricorso per Cassazione, articolato in quattro censure, al quale l’Agenzia delle Entrate ha replicato con controricorso.

Considerato che:

1. Il primo motivo deduce, in riferimento all’art. 360, comma 1, 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art.12, comma 5, l. n.212/2000 da parte dei verificatori, con conseguente invalidità dell’avviso di accertamento di cui la CTR non avrebbe tenuto conto.

2. Il motivo è infondato. Va data ulteriore continuità alla condivisibile giurisprudenza della Sezione (cfr. Cass. Sez. 5 – , Ordinanza n. 6779 del 01/03/2022) secondo cui, in tema di verifiche tributarie, la violazione del termine di permanenza degli operatori dell’Amministra- zione finanziaria presso la sede del contribuente, previsto dall’art. 12, comma 5, della l. n. 212 del 2000, non determina la sopravvenuta carenza del potere di accertamento ispettivo, né l’invalidità degli atti compiuti o l’inutilizzabilità delle prove raccolte, atteso che nessuna di tali sanzioni è stata prevista dal legislatore, la cui scelta risulta razionalmente giustificata dal mancato coinvolgimento di diritti del contribuente costituzionalmente tutelati. Non vi sono ragioni per discostarsi nella fattispecie da tale condivisibile principio.

3. Con il secondo motivo si prospetta, in riferimento all’art. 360 comma 1 n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art.52 del P.R. n.633/1972 per aver il giudice ritenuto legittimo il diniego opposto dalla Guardia di Finanza alla richiesta di consegna dell’atto con cui è stato autorizzato l’accesso domiciliare, motivato ex art. 52 d.P.R. 633/72 in riferimento alla presenza di “gravi indizi di violazione del presente decreto”, con la motivazione che l’atto in questione costituiva fascicolo segretato ex art. 329 c.p.p., in ciò trovando conferma nell’ugualmente opposto diniego da parte della competente Procura.

4. Il motivo è infondato. 

La decisione della questione richiede una breve ricostruzione della disciplina applicabile alla fattispecie.

4.1 In linea generale, in tema di accessi, ispezioni e verifiche per l’accertamento dell’IVA e delle imposte dirette, l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica – prescritta in materia di IVA dall’art. 52 del P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e richiamata per le imposte dirette dall’art. 33 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 – legittima solo lo specifico accesso autorizzato. Infatti, l’autorizzazione del P.M. all’accesso domiciliare, prevista in presenza di gravi indizi di violazione delle norme tributarie, dall’art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972 in materia di I.V.A., e applicabile anche ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi in forza del richiamo operato dall’art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973, costituisce un provvedimento amministrativo che si inserisce nella fase preliminare del procedimento di formazione dell’atto impositivo. Essa assolve allo scopo di consentire dall’esterno la verifica del fatto che gli elementi offerti dall’ufficio tributario siano consistenti ed idonei ad integrare gravi indizi. Da tale natura e funzione dell’autorizzazione discende (cfr. Cass. Sez. 5, ordinanza n. 23824 del 11/10/2017) che il giudice tributario, davanti al quale sia in contestazione la pretesa impositiva avanzata sui risultati dell’accesso domiciliare, può essere chiamato a controllare l’esistenza del decreto del P.M. e la presenza in esso degli indispensabili requisiti, tenendo conto quanto a quello motivazionale che l’apprezzamento della gravità degli indizi è esternabile anche in modo sintetico, oppure indiretto, tramite il riferimento ai dati allegati dall’autorità richiedente.

Infatti,  non  vi  è  dubbio  (v.  Cass.  Sez. 5, sentenza n. 10275 del 12/04/2019) che l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’accesso domiciliare nell’ambito di un accertamento tributario, in presenza di gravi indizi di violazione delle norme tributarie dagli artt. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 52 del d.P.R. n. 633 del 1972, è provvedimento necessario per la legittimità dell’atto di accertamento.

4.2 Ciò premesso, con riferimento al diritto al controllo della legalità dell’accesso anche in punto di provvedimento autorizzatorio, il Collegio osserva che ai sensi del primo comma dell’art. 329 c.p.p., gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, le richieste del pubblico ministero di autorizzazione al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste sono coperti dal segreto istruttorio, fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari.

Sulle conseguenze dell’apposizione del segreto, è già stato statuito dalla Corte in tema di accertamenti tributari (cfr. Cass. Sez. 5, sentenza n. 12549 del 17/06/2016) che l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria alla trasmissione all’Amministrazione finanziaria degli atti d’indagine penale, ai sensi degli artt. 33, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 63, comma 1, del d.P.R. n. 633 del 1972, non va allegata, a pena di nullità, all’avviso di accertamento. Infatti, si tratta di un atto che mira a salvaguardare gli interessi protetti dal segreto istruttorio, ma non anche a rendere conoscibili le ragioni della pretesa tributaria, sicché la sua mancata conoscenza, da parte del contribuente, non viola l’art. 7 della l. n. 212 del 2000.

L’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, richiesta dal d.P.R. n. 633 del 1972, art. 63, comma 1, per la trasmissione, agli Uffici delle imposte, dei documenti, dati e notizie acquisiti dalla Guardia di finanza nell’ambito di un procedimento penale, è posta a tutela della riservatezza delle indagini penali, e non dei soggetti coinvolti nel procedimento medesimo, o di terzi. Ne discende che la sua mancanza, se può avere riflessi anche disciplinari a carico del trasgressore, non tocca l’efficacia probatoria dei dati trasmessi, né implica l’invalidità dell’atto impositivo adottato sulla scorta degli stessi. L’autorizzazione in parola è stata, infatti, introdotta per realizzare una maggiore tutela degli interessi protetti dal segreto istruttorio (cfr. sentenza della Corte costituzionale n. 51/92), piuttosto che per filtrare ulteriormente l’acquisizione di elementi significativi a fini fiscali (in tal senso è la consolidata giurisprudenza, v. Cass. n. 15049/2014; Cass. n.27149/11; Cass. n. 27947/09; Cass. n. 11203/07).

4.3 Del resto, l’interpretazione secondo cui il segreto può essere validamente opposto nel processo tributario, trova conferma nella giurisprudenza della Corte in altri casi in cui il diritto all’accesso del documento ha dovuto confrontarsi con il segreto opposto ai fini dell’esercizio del diritto di difesa.

Ad esempio, con riferimento al rapporto tra il segreto opposto e l’esercizio del diritto di difesa, questa Corte si è pronunciata in materia di sanzioni amministrative irrogate dalla Consob ex art. 195 del d.lgs. n. 58 del 1998 (v. ad es. Cass. Sez. 2, ordinanza n. 29745 del 12/10/2022). La Cassazione ha affermato che, seppure gli atti del relativo procedimento non possano ritenersi sottoposti al segreto d’ufficio nei confronti dell’interessato, non viola il diritto di accesso il rifiuto all’ostensione di documenti secondari, acquisiti nel corso dell’ispezione e che non siano stati utilizzati dall’amministrazione per fondare gli addebiti, in quanto neppure astrattamente la loro messa a disposizione risulta funzionale a garantire il diritto di difesa del ricorrente.

È stato anche statuito, quanto all’accesso alla documentazione in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, che il diritto di accesso alle informazioni sottostanti l’emissione dell’atto impugnato non è illimitato, e può essere esercitato solo se, e nella misura in cui, sia strumentale all’esercizio del diritto di difesa (Cass. Sez. 5, sentenza n. 36852 del 15/12/2022). Quest’ultimo può dirsi violato solo ove il contribuente illustri come e in che termini la tempestiva ostensione degli elementi di fatto a lui favorevoli, e non contenuti negli atti impositivi impugnati, avrebbe potuto influenzare l’esito dell’accertamento nei propri confronti.

4.4 Tale giurisprudenza è pienamente coerente con quella delle corti europee internazionali in materia di diritti fondamentali, particolarmente con riferimento al diritto di accesso a documenti dell’amministrazione all’imposizione armonizzata. Non vi è infatti dubbio che il diritto di accesso sia protetto sotto l’angolo civile dell’art.6 § 1 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo (Corte EDU, Loiseau c. Francia, decisione del 18 novembre 2003). Egualmente, l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e il principio del rispetto dei diritti della difesa trovano applicazione allorquando sia adottato un atto lesivo. Essi però vanno interpretati, in riferimento alla direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto sono stati interpretati (cfr., ad es., CGUE, Sez. V, Sentenza 16 ottobre 2019, C-189/18) nel senso che il diritto del contribuente può essere soggetto a restrizioni, allorquando queste rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile, in grado di ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti.

4.5 Il diritto alla consegna del decreto del Procuratore della Repubblica con cui è stato autorizzato l’accesso mirato e consequenzialmente lo scrutino della sua legittimità, non è quindi un diritto assoluto e dev’essere contemperato con la legittimità del segreto opposto e la strumentalità di questo all’effettivo raggiungimento degli effetti cui è preposto, trovando un punto di caduta nella necessità di allegare e dimostrare la concreta lesione del diritto di difesa eventualmente intervenuta.

Il Collegio ritiene che ciò, a maggior ragione, debba valere nel caso del segreto di cui all’art.329 c.p.p., relativo alla fase delle indagini penali, il quale è circoscritto nel tempo, venendo meno di regola al momento di chiusura delle indagini preliminari. È vero che, ai sensi del penultimo comma dell’art.329 c.p.p., anche quando gli atti non sono più coperti dal segreto il pubblico ministero, in caso di necessità per la prosecuzione delle indagini, può disporre con decreto motivato l’obbligo del segreto e il divieto di pubblicazione per singoli atti, ma il verificarsi di tale ulteriore e peculiare ipotesi dev’essere allegato e dimostrato dall’interessato.

4.6 Tirando le fila dalla ricostruzione che precede, la regola di diritto in tema di accessi, ispezioni e verifiche, sia per l’accertamento dell’IVA ai sensi dell’art.52 del P.R. n. 633 del 1972 sia per l’accertamento delle imposte dirette, in forza del richiamo operato dall’art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973, è nel senso che la conoscenza da parte del ricorrente della motivazione del decreto di autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’accesso domiciliare, prevista in presenza di gravi indizi di violazione delle norme tributarie, non è un diritto assoluto, bensì relativo, il quale dev’essere contemperato con gli interessi protetti dal segreto istruttorio.

Da questa premessa discendono due conseguenze. Innanzitutto, di per sé, il diniego opposto dall’Amministrazione non comporta la nullità dell’avviso di accertamento, in assenza di espressa previsione normativa.

In secondo luogo, al fine di contestare in giudizio il diniego opposto, dev’essere allegato e sostanziato dal ricorrente il concreto apprezzabile nocumento al diritto di difesa per effetto dell’opposto segreto ex art.329 c.p.p., alla luce anche del fatto che la durata del segreto opposto è limitata nel tempo e, dunque, dev’esser fornita evidenza di come abbia potuto influenzare in modo significativo l’esito dell’accertamento nei propri confronti.

4.7 Da quanto precede discende il seguente principio di diritto:

«In tema di accessi, ispezioni e verifiche, sia con riferimento all’accertamento dell’IVA ai sensi dell’art.52 del d.P.R. n. 633 del 1972 sia delle imposte dirette, in forza del richiamo operato dall’art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973, l’esigenza di conoscenza da parte del ricorrente della motivazione del decreto di autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’accesso domiciliare, in presenza di gravi indizi di violazione delle norme tributarie, dev’essere contemperata con gli interessi protetti dal segreto istruttorio opposto ex art.329 c.p.p. e, per l’effetto, il diniego non comporta di per sé la nullità dell’avviso di accertamento, in assenza di espressa previsione normativa, ma può essere contestato dal ricorrente dimostrando, tenuto conto anche del fatto che la durata del segreto è limitata, come abbia potuto influenzare l’esito dell’accertamento nei propri confronti mediante un concreto apprezzabile nocumento al diritto di difesa.».

In applicazione del principio di diritto suddetto, considerato che nel caso concreto nessun significativo nocumento al diritto di difesa è stato specificamente allegato e sostanziato dal ricorrente, la censura va disattesa in quanto logicamente il giudice ha ritenuto che il segreto istruttorio sia stato validamente opposto.

5. Con il terzo motivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 19 d.P.R. 600/1973. Secondo il ricorrente, per effetto dell’abrogazione, ad opera dell’art. 32, terzo comma, d.l. 25.6.2008 n. 112, convertito, con modificazioni, nella l. 6.8.2008, n. 133, del terzo comma dell’art. 19 d.P.R. 600/1973 come modificato dall’art. 35, comma 12 del d.l. 4.7.2006, n. 223 convertito, con modificazioni, nella legge 4.8.2006 n. 248, non essendo più obbligato alla tenuta di uno o più conti dedicati, gli eventuali rapporti bancari in essere dovrebbero essere ormai considerati comunque estranei rispetto alla specifica attività professionale ed accesi a titolo esclusivamente per- sonale. Per l’effetto, l’attività ispettiva fiscale non avrebbe potuto tenere conto di dette situazioni bancarie, formalmente e giuridica- mente estranee all’esercizio professionale e le cui movimentazioni non debbono essere giustificate in sede di verifica od accertamento relativo all’attività professionale.

6. Il motivo è infondato. 

La sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014 ha ritenuto irragionevole e contraria al principio di capacità contributiva la presunzione secondo la quale i prelievi ingiustificati dai conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo sono destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo sia a sua volta produttivo di reddito. Sulla scorta di tale principio di diritto, la Corte di Cassazione ha più volte affermato (da ultimo, v. Cass. Sez. 5, ordinanza n. 9403 del 08/04/2024), anche in riferimento all’imprenditore individuale, sia in tema d’imposte sui redditi che di IVA, che la presunzione relativa della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari, giusta l’art. 32, comma 1, n. 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, è innanzitutto riferibile ai titolari di reddito di impresa, anche individuale, quale è il contribuente. Si estende inoltre al lavoro autonomo e alla generalità dei contribuenti, come si ricava dal successivo art. 38 del decreto, riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche, che rinvia allo stesso art. 32, comma 1, n. 2. Ciò premesso, all’esito della sentenza della Corte cost. n. 228 del 2014, le operazioni bancarie di prelevamento hanno valore presuntivo nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa, anche individuale, mentre quelle di versamento nei confronti di tutti i contribuenti, i quali possono contrastarne l’efficacia dimostrando che le stesse sono già incluse nel reddito soggetto ad imposta o sono irrilevanti. Bene, dunque, ha fatto la sentenza impugnata a ritenere applicabili le presunzioni nel caso di specie.

Inoltre, al fine di superare la presunzione posta a carico del contribuente dall’art. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (in virtù della quale i prelevamenti ed i versamenti operati su conto corrente bancario vanno imputati a ricavi conseguiti nell’esercizio dell’attività d’impresa), non è sufficiente una prova generica circa ipotetiche distinte causali dell’affluire di somme sul proprio conto corrente. È necessario che il contribuente fornisca la prova analitica della riferibilità di ogni singola movimentazione alle operazioni già evidenziate nelle dichiarazioni, ovvero dell’estraneità delle stesse alla sua attività (cfr., tra le molte, Cass. Sez. 5, sentenza n. 4829 del 11/03/2015). Il giudice ha accertato che tale onere della prova non è stato assolto con riferimento alle operazioni contestate, attraverso una articolata motivazione non censurabile in questa sede nei termini proposti.

7. Con il quarto motivo, viene prospettato, ai fini dell’art. 360, primo comma, 5 cod. proc. civ., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di contraddittorio con l’Ufficio con riferimento alla qualificazione dello Studio Tributario S.M. S.r.l. come soggetto organizzativamente inesistente.

8. Il motivo è inammissibile per doppia conforme con riferimento al paradigma del prospettato vizio motivazionale, alla luce del doppio rigetto della prospettazione di parte contribuente e accertamento dell’inesistenza oggettiva delle operazioni sia in primo sia secondo grado. Infatti, l’abrogazione dell’art. 348-ter proc. civ., già prevista dalla legge delega n.206/2021 attuata per quanto qui interessa dal d.lgs. n.149/2022, ha comportato il collocamento all’interno dell’art. 360 cod. proc. civ. di un terzo comma, con il connesso adeguamento dei richiami, il quale ripropone la disposizione dei commi quarto e quinto dell’articolo abrogato e prevede l’inammissibilità del ricorso per cassazione per il motivo previsto dal n. 5 dell’art. 360 citato, ossia per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Il ricorrente non ha dimostrato che le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello sono state tra loro diverse.

9. Il ricorso è conclusivamente rigettato. Le spese di lite sono regolate come da dispositivo e seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di lite, liquidate in euro 8.200 per compensi, oltre a spese prenotate a debito.

Si dà atto che, ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis, se dovuto.