CORTE di CASSAZIONE, sezione tributaria, Ordinanza n. 30900 depositata il 3 dicembre 2024
Tributi – Avvisi di accertamento – Pregresso PVC della Guardia di Finanza – IVA – Contabilizzazione e utilizzo fatture per operazioni soggettivamente inesistenti – Rigetto
Rilevato che
– La società contribuente impugnava gli avvisi di accertamento notificati per gli anni 2009-2011 sulla base del pregresso PVC della Guardia di Finanza con i quali l’Ufficio contestava ai fini IVA la contabilizzazione e l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti emesse dalla società U.F. Srl per l’anno 2009 e dalla società S.E.D. Srl;
– la CTP accoglieva i ricorsi;
– appellava l’Amministrazione Finanziaria;
– con la sentenza qui gravata la CTR ha riformato la sentenza di primo grado ritenendo effettivamente inesistenti dal punto di vista soggettivo le operazioni contestate;
– ricorre a questa Corte la società contribuente con atto affidato a sei motivi di ricorso;
– resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.
Considerato che
– Va esaminato per primo il sesto motivo di ricorso, che lamenta il mancato rilievo da parte della sentenza impugnata della nullità delle rettifiche per la mancata allegazione di atto alle quali le stesse rinviano ovverosia il PVC redatto a carico della U.F. Srl in violazione e/o falsa applicazione dell’art. 56 c. 5 del D.P.R. n. 633 del 1972 ai sensi dell’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c.;
– secondo parte ricorrente, la sentenza erroneamente avrebbe considerato unicamente il rinvio delle rettifiche al PVC del 5 marzo 2013 redatto a carico della contribuente, senza considerare che il PVC stilato a carico della U.F. Srl – recante gli elementi di prova della natura di “cartiera” della stessa – e rimasto non conosciuto dalla società ricorrente;
– il motivo, in quanto diretto nel concreto a colpire direttamente un vizio dell’avviso di accertamento, risulta invero inammissibile in quanto sprovvisto di collegamento con la ratio decidendi della sentenza di appello;
– in ogni caso, il motivo è privo di fondamento;
– dalle stesse trascrizioni operate in ricorso a pagina 28 dell’atto specialmente alla nota numero 8 si evince come gli avvisi di accertamento impugnati (tutti e tre quelli oggetto del presente giudizio) abbiano fatto riferimento al PVC in argomento – ancorché erroneamente riportata la data negli atti dell’8 Marzo 2013 anziché quella corretta del 5 Marzo 2013 – nel quale è vero non risultano trascritti nella loro integralità tutti gli accertamenti istruttori svolti dai militari nei confronti della U.F. Srl, ma nondimeno risultano anche trascritti in via sintetica nei singoli avvisi di accertamento i risultati di tali operazioni istruttorie, il cui contenuto fattuale e le cui valutazioni consentivano alla contribuente di svolgere efficacemente le proprie difese avendo piena conoscenza dei fatti contestati e delle ragioni poste dai militari della Guardia di Finanza prima e dagli accertatori dell’Agenzia delle entrate poi a base delle pretese per maggiori tributi;
– come è noto, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 6914 del 25 marzo 2011; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 13110 del 25 luglio 2012; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9582 del 19 aprile 2013) il regime introdotto dall’art. 7 della L. n. 212 del 2000 prevede che l’obbligo di motivazione degli atti tributari possa essere adempiuto anche “per relationem”, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione che questi ultimi siano allegati all’atto notificato ovvero che lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, per tale dovendosi intendere l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento che risultino necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, e la cui indicazione consente al contribuente – ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento;
– e nel presente caso, la CTR ha correttamente deciso (ritenendo infondata l’eccezione in argomento) in quanto “… l’obbligo di allegazione ai sensi dell’art. 7 legge 212/2000) non trova applicazione per gli atti in cui il contribuente abbia già avuto integrale legale conoscenza, come nel caso del suddetto p.v.c., consegnato in copia al contribuente … Inoltre, il semplice richiamo – per motivi di economia e di scrittura – al contenuto di detto p.v.c., è sufficiente a delimitare l’ambito della pretesa.”;
– il primo motivo di ricorso deduce la violazione dell’art. 19 del D.P.R. n. 633 del 1972 e dell’art. 2697 c.c. e dei principi sul riparto degli oneri probatori in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c. per avere la sentenza impugnata mal governato i principi in materia di onus probandi;
– il motivo è infondato;
– nel caso di specie il giudice di appello ha rilevato come a fronte degli elementi indiziari dedotti e provati dall’Amministrazione Finanziaria la società contribuente da un lato abbia evidenziato “la regolarità delle proprie scritture contabili, in particolare della registrazione delle fatture contestate, e dei pagamenti effettuati tramite bonifici bancari; sostiene inoltre di aver operato i necessari controlli formali sull’esistenza della U.F.”;
– tali elementi come giustamente ha ritenuto il giudice del merito, non sono decisivi ai fini di provare la correttezza del comportamento tenuto dalla contribuente;
– infatti, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte (tra molte, si vedano le considerazioni espresse da Cass. Sez. 5, Sentenza n. 24471 del 9 agosto 2022; ivi anche giurisprudenza) in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare, anche in via indiziaria, non solo che il fornitore era fittizio, ma anche che il destinatario era consapevole, disponendo di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto, che l’operazione era finalizzata all’evasione dell’imposta, essendo sostanzialmente inesistente il contraente; incombe, invece, sul contribuente la prova contraria di aver agito nell’assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato, per non essere coinvolto in una tale situazione, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi;
– inoltre la società appellata, come ha accertato il giudice di secondo grado “nulla ha precisato in ordine ai contatti tenuti con la U.F. Srl, né in relazione al legale rappresentante di questa o ad altri soggetti delegati, né se avvenuti mediante posta (anche elettronica) o solo telefonicamente, né se alcuno si fosse mai recato, nel triennio considerato (2009/2011) presso la sede legale della stessa”; con riferimento poi alla determinazione del prezzo delle operazioni contestate, la sentenza impugnata ha accertato come “le ditte richiamate da parte contribuente come soggetti su cui raffrontare il prezzo di mercato (la P.T. Srl, la E.M. Srl e la T. di Ru.Sa.), sono state anch’esse accertate come partecipi a frodi carosello”;
– pertanto, tali elementi sono stati debitamente valutati dalla CTR nell’ambito dei compiti spettante al giudice del merito; il risultato di tale valutazione resta naturalmente precluso a questa Corte di legittimità;
– il secondo motivo di ricorso si incentra sulla nullità della pronuncia impugnata avendo la stessa negato qualunque rilevanza probatoria all’accertamento compiuto dal giudice penale ai fini della dimostrazione della buona fede della contribuente ex art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c.;
– il motivo è infondato;
– in primo luogo, va rilevato che la pronuncia della quale si intende far valere la rilevanza e gli effetti in questo giudizio tributario è stata emessa dal Gip presso il Tribunale di Napoli; non si tratta quindi di sentenza emessa a seguito di dibattimento per la quale potrebbe invocarsi l’applicazione dell’art 21 bis del D.Lgs. n. 74 del 2000; tale disposizione (rubricata “efficacia delle sentenze penali nel processo tributario e nel processo di Cassazione”), inserito dall’art. 1, comma 1, lettera m), del D.Lgs. n. 87 del 2024, prevede che “la sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, ha, in questo, efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi.
La sentenza penale irrevocabile di cui al comma 1 può essere depositata anche nel giudizio di Cassazione fino a quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio.
Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano, limitatamente alle ipotesi di sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, anche nei confronti della persona fisica nell’interesse della quale ha agito il dipendente, il rappresentante legale o negoziale, ovvero nei confronti dell’ente e società, con o senza personalità giuridica, nell’interesse dei quali ha agito il rappresentante o l’amministratore anche di fatto, nonché nei confronti dei loro soci o associati”;
– il citato articolo non viene, tuttavia, comunque in rilievo nel caso di specie, non risultando pronunciata, in relazione ai fatti di evasione fiscale di cui qui si discute, sentenza dibattimentale di assoluzione con formula piena (per quanto emerge “ex actis”, il procedimento penale si è concluso nella fase delle indagini preliminari con provvedimento di archiviazione del GIP (in termini Cass. Ord. Sez. 5 n. 22433 del 9 luglio 2024);
– con riguardo poi alla valutazione della pronuncia in esame, in realtà la sentenza impugnata ha preso espressamente posizione sull’esistenza e sul contenuto della stessa, ritenendo che la circostanza relativa all’avere il Co. An. tenuto contatti diretti con La.Sa. titolare della U.F. Srl, “non costituisce elemento probatorio della carenza di consapevolezza della natura dichiarativa di quest’ultima anzi costituisce un periodo indizio del contrario apparendo quanto mai improbabile che un imprenditore “di lungo corso” non si sia accorto di nulla pure in presenza di reiterati contatti diretti”;
– dalla lettura della sentenza si evince quindi come il giudice di merito abbia in realtà tenuto in debito conto le risultanze evidenziate nella pronuncia del GIP presso il Tribunale di Napoli, traendone autonomamente e criticamente elementi per le proprie valutazioni;
– così pronunciando, la CTR si è allineata ai principi espressi da questa Corte (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 27814 del 04 dicembre 2020) secondo i quali in caso di operazioni soggettivamente inesistenti incluse in una frode carosello, il giudice tributario, nel verificare se il contribuente fosse consapevole dell’inserimento dell’operazione in un’evasione di imposta, non può riferirsi alle sole risultanze del processo penale, ancorché riguardanti i medesimi fatti, ma, nell’esercizio dei suoi poteri, è tenuto a valutare tali circostanze sulla base del complessivo materiale probatorio acquisito nel giudizio tributario; ciò in quanto non può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile su reati tributari alcuna automatica autorità di cosa giudicata, attesa l’autonomia dei due giudizi, la diversità dei mezzi di prova acquisibili e dei criteri di valutazione;
– il terzo motivo di ricorso censura la pronuncia impugnata per aver erroneamente escluso che la società contribuente abbia fornito prova della propria buona fede, esprimendo sul punto una motivazione perplessa segnata da criticità che la rendono abnorme, così violando l’art. 111 c. 5 Cost., e l’art. 36 c. 2 n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c.;
– il motivo è privo di fondamento;
– dalla lettura della articolata e chiara motivazione della sentenza impugnata è in realtà possibile evincere senza difficoltà le ragioni che hanno condotto la CTR alla decisione presa, risultando quindi chiaramente espresso tutto l’iter- logico giuridico seguito;
– come è noto per giurisprudenza costante di questa Corte “la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture” (così Cass. Sez. Un. n. 22232 del 03 novembre 2016; conf. Cass. n. 13977 del 23 maggio 2019);
– nel presente caso, invece, la motivazione si colloca al di sopra del c.d. “minimo costituzionale”, avendo la CTR espresso con chiarezza le ragioni del suo decidere;
– il motivo, poi, aggredisce anche, sia pure in alcuni suoi passaggi, la valutazione delle prove operata dal giudice di appello con riferimento alla rilevanza probatoria attribuita ad alcuni atti del processo e alla valutazione di determinate circostanze di fatto quali, ad esempio, le valutazioni del giudice penale e la determinazione del prezzo di acquisto praticato da fornitori diversi dei tre ritenuti partecipi ad operazione fraudolente;
– sotto questo profilo, il motivo è invece inammissibile;
– esso, infatti, si risolve in censure di natura meritale che non sono consentite nel presente giudizio di legittimità;
– come più volte chiarito da questa Corte (per tutte si veda Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 4699 del 28 febbraio 2018) la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità non in riferimento all’apprezzamento delle risultanze probatorie operato dal giudice di merito, ma solo sotto due profili: qualora il medesimo, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza; ovvero quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale;
– in ogni caso, inammissibile è poi la pretesa violazione dell’art. 115 c.p.c.; in tema di ricorso per cassazione, per dedurre tale vizio, occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. Sez. Un. n. 20867 del 22 settembre 2020);
– il quarto motivo di ricorso lamenta la erronea valorizzazione da parte della sentenza impugnata di documenti depositati dall’ufficio appellante nel solo giudizio relativo al 2011 anche al fine di decidere le cause relative alle annualità dal 2009 al 2010; si duole quindi della violazione dell’art. 32 c. 1 e dell’art. 61 del D.Lgs. n. 546 del 1992 in relazione all’art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c.;
– il motivo è privo di fondamento;
– in realtà la CTR ha basato la sua decisione non solo sulle rilevanze accertate dalle interrogazioni del sistema informativo dell’anagrafe tributaria, ma anche sulle risultanze di altri atti istruttori, primo tra tutti il processo verbale di constatazione emesso il 5 marzo 2013 dalla Guardia di finanza di Napoli con il quale veniva imputata la contabilizzazione di fatture soggettivamente inesistenti emesse dalla società U.F. Srl e – per il solo 2009 – da altre società;
– le risultanze di tale PVC contenevano invero rilievi aventi incidenza su tutti e tre i periodi di imposta oggetto del contendere ed è a tali elementi che si è richiamato ogni singolo avviso di accertamento per indicare e provare i fatti e le circostanze poste a fondamento della pretesa tributaria;
– il quinto motivo di ricorso deduce la illegittimità della sentenza in quanto resa in violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 2700 c.c. in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c. avendo la sentenza di appello ritenuto, erroneamente, che il PVC della Guardia di finanza fosse assistito da fede privilegiata in ordine alle valutazioni in esso contenute;
– il motivo è manifestamente infondato;
– in realtà la sentenza gravata ha correttamente preso in esame e valutato in conformità a legge il contenuto dell’atto istruttorio in argomento; per costante giurisprudenza di questa Corte (per tutte, si veda Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 18420 del 5 luglio 2024 e pronunce ivi richiamate) in tema di accertamento tributario, il processo verbale di constatazione ha un valore probatorio diverso a seconda della natura dei fatti da esso attestati, assumendo così un triplice livello di attendibilità:
a) ha fede privilegiata, ai sensi dell’art. 2700 c.c., relativamente ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti in sua presenza o che ha conosciuto senza alcun margine di apprezzamento o di percezione sensoriale e quanto alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale o alle dichiarazioni a lui rese;
b) fa fede fino a prova contraria quanto alla veridicità sostanziale delle dichiarazioni a lui rese dalle parti o da terzi ed anche del contenuto di documenti formati dalla stessa parte e/o da terzi, che è fornita quando la specifica indicazione delle fonti di conoscenza consente al giudice ed alle parti il controllo e la valutazione del contenuto delle dichiarazioni;
c) è comunque un elemento di prova in mancanza della indicazione specifica dei soggetti le cui dichiarazioni vengono riportate nel verbale, che il giudice in ogni caso valuta, in concorso con gli altri elementi, e disattende solo in caso di sua motivata intrinseca inattendibilità o di contrasto con altri elementi acquisiti nel giudizio, considerata la certezza, fino a querela di falso, che quei documenti sono comunque stati esaminati dall’agente verificatore;
– nel presente caso, il giudice dell’appello ha attribuito rilevanza probatoria indiziaria alle circostanze di fatto oggetto di valutazione da parte dei militari, distinguendole dalle mere operazioni compiute (aventi sì queste ultime forza probatoria di pubblica fede), le ha poste a confronto con gli elementi di prova introdotti nel processo dalla società contribuente e, all’esito, ha tratto le proprie conclusioni in ordine alla prova dei fatti oggetto di contestazione;
– è indice in particolare di quanto sopra quella parte di motivazione nella quale la CTR scrive: “dal p.v.c. della Guardia di Finanza – che, si ricorda, fa piena prova fino a querela di falso di quanto avvenuto in presenza dei verificatori o da loro compiuto – è emerso che il “sottocosto” della merce acquistata dalla U.F. risulta dal raffronto tra le fatture passive ed attive, comparando per ogni prodotto il prezzo di acquisto con quello di vendita, operazione assolutamente incontestabile ed ulteriormente provata dalla produzione di due fatture, ove lo stesso telefono Nokia 5230 risulta venduto dalla ditta T.P. per Euro 127,00, mentre risulta ceduto dalla U.F. per Euro 110,00″;
– risulta evidente quindi come la CTR abbia ben distinto quanto avvenuto in presenza di verificatori e da loro compiuto (l’avere gli stessi compiuto materialmente le operazioni di confronto dei prezzi), dalle valutazioni che gli stessi militari hanno tratto in ordine ai fatti accertati (il compimento delle operazioni di acquisto e poi di rivendita sottocosto), elementi di fatto dedotti dai precedenti fatti in via presuntiva e posti ancora in via indiziaria – salva la prova contraria da parte del contribuente – a base della pretesa per maggiori tributi in sede di redazione da parte dell’Ufficio dell’avviso di accertamento conseguente il PVC in argomento;
– in conclusione, quindi, il ricorso va rigettato;
– le spese sono regolate dalla soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 5.800,00 oltre a spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 2012, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, con onere a carico della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.