CORTE di CASSAZIONE, sezione tributaria, Ordinanza n. 5318 depositata il 28 febbraio 2025
Avviso di accertamento – Società di capitali – Deducibilità – Compensi – Amministratori – Compatibilità – Subordinazione – Mansioni
Rilevato che
1. L’Agenzia delle entrate, direzione provinciale di Isernia, notificava alla F. di Co.Ge. Srl (d’ora in avanti, per brevità, F.) l’avviso di accertamento n. (…), con il quale procedeva, per l’anno 2005, alla ricostruzione induttiva del reddito della società ai fini IRES ed IVA, disconoscendo quattro categorie di costi: a) per migliorie su beni di terzi; b) per manutenzione autoveicoli; c) per ricambi ed accessori; d) per compensi degli amministratori.
La Commissione tributaria provinciale di Isernia accoglieva parzialmente il ricorso proposto dalla F., confermando l’avviso di accertamento solo con riferimento al rilievo sub d).
2. La F. proponeva gravame innanzi alla Commissione tributaria regionale del Molise chiedendo l’accertamento della deducibilità anche del costo relativo ai compensi degli amministratori. L’Ufficio si costituiva contestando l’avverso assunto e spiegando appello incidentale volto alla riforma della sentenza di primo grado nella parte a sé sfavorevole.
La CTR accoglieva totalmente l’appello principale ed in parte quello incidentale, ritenendo, per quanto qui ancora interessi, la deducibilità del costo relativo ai compensi degli amministratori della società.
3. Avverso la decisione della Commissione tributaria regionale ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate, affidandosi ad un unico motivo con cui contesta la deducibilità del costo per i compensi degli amministratori. La contribuente ha resistito con controricorso, eccependo preliminarmente l’inammissibilità del ricorso perché carente della sommaria esposizione dei fatti ex art. 366, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.
È stata, quindi, depositata una proposta di definizione accelerata del giudizio dal seguente contenuto:
in relazione all’amministratore di società di capitali non costituisce requisito essenziale la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato ai fini della deducibilità del compenso;
la questione circa l’indeducibilità delle somme corrisposte a titolo di compenso per l’amministratore della società di capitali, equiparato all’imprenditore, nasce dalla formulazione dell’art. 62 del T.u.i.r., in vigore fino al 31 dicembre 2003, che limitava la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per quello dipendente e per i compensi spettanti agli amministratori di società di persone; a seguito delle modifiche apportate al T.u.i.r. dal D.Lgs. 344/2003, in vigore dal 10 gennaio 2004, l’art. 95 prevede esplicitamente che i compensi erogati agli amministratori di società di capitali, o meglio delle società e degli enti di cui all’art. 73 comma 1 del T.u.i.r., sono deducibili secondo il principio di cassa;
nel caso di specie, avente ad oggetto i compensi dell’amministratore per l’anno di imposta 2005, nessuna violazione dell’art. 60 TUIR può essere ravvisata, essendo entrata in vigore la nuova disciplina, che espressamente ne rappresenta la deducibilità (così Cass. n. 5661/2020).
La ricorrente ha chiesto fissarsi l’udienza di discussione della causa.
È stata, quindi, fissata l’adunanza camerale per il 07/02/2025.
Le parti hanno depositato memorie ex art. 380-bis1 cod. proc. civ..
Considerato che
1. Va, preliminarmente, delibata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, proposta dalla controricorrente, per difetto di autosufficienza per la mancata esposizione sommaria dei fatti di causa ex art. 366, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.. Precisamente, la ricorrente avrebbe omesso di indicare “le ragioni di fatto e di diritto che avevano sostenuto le posizioni delle parti in causa nel corso del giudizio di secondo grado” (pag. 2 del controricorso).
L’eccezione è infondata.
L’art. 366, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., nella formulazione vigente ratione temporis, prevedeva che il ricorso per cassazione dovesse contenere, a pena di inammissibilità, tra gli altri: n. 3) l’esposizione sommaria dei fatti di causa.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte il ricorrente che censuri la violazione o falsa applicazione di norme di diritto ha l’onere di indicare anche gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività della violazione, al fine di consentire alla Corte la corretta sussunzione del fatto concreto nelle norme che si assumono violate o erroneamente applicate (ex multis, Cass. 23/11/2016, n. 23886).
Il requisito in commento è comunemente correlato al principio di autosufficienza in base al quale il ricorso deve contenere tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa. Il requisito in commento è, quindi, soddisfatto quando il contenuto del ricorso consenta di avere una chiara e completa cognizione dei fatti sostanziali e processuali che hanno originato la controversia e dell’oggetto dell’impugnazione (Cass. 02/08/2016, n. 16103).
Con particolare riferimento alle reciproche pretese delle parti questa Corte costantemente afferma che il ricorso deve indicare l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica e particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, qualora siano funzionali alla comprensione del motivo di ricorso da parte della Corte (Cass. 13/11/2015, n. 23249).
1.1. Nella specie il ricorso soddisfa il detto requisito, atteso che, pur non riportando analiticamente le posizioni assunte dalle parti in sede di appello, la vicenda fattuale e processuale è chiaramente esposta; del resto, la controricorrente nemmeno deduce quale sia il nesso di funzionalità delle dette posizioni alla comprensione del motivo di ricorso, limitandosi a richiamare una decisione di questa Corte in materia.
2. Con l’unico strumento di impugnazione l’Ufficio denuncia, con riferimento alla ripresa relativa ai compensi degli amministratori, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la “violazione e falsa applicazione dell’articolo 60 del D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR)” per avere la CTR erroneamente ritenuto deducibile, ai fini IRES, il detto costo.
In particolare, l’art. 60 del t.u.i.r. prevede la deducibilità dei compensi degli amministratori di società solo se la loro attività sia svolta sotto la direzione di altro organo sociale (il CdA); nella specie gli amministratori della contribuente svolgevano attività imprenditoriale autonoma: “esprimono ciascuno in modo autonomo la volontà propria della società, hanno entrambi pieni poteri, a firma disgiunta, di ordinaria e straordinaria amministrazione, di controllo e di comando” (pag. 6 del ricorso).
Pertanto, difettavano le condizioni per la deducibilità dei loro compensi.
3. Il motivo è fondato.
La CTR ha affermato la deducibilità dei compensi corrisposti agli amministratori di società di capitali, in quanto espressamente prevista dalla legge (art. 95 t.u.i.r.); nella sentenza difetta qualsiasi valutazione (e rilevanza ai detti fini) delle modalità in cui venga svolta l’attività dagli amministratori, ovvero in via autonoma o sotto la direzione di un altro organo sociale.
La decisione non può essere condivisa.
3.1. Premesso che per questa Corte è del tutto compatibile la posizione di socio di società di capitali con quella di amministratore della stessa, tranne le ipotesi di amministratore unico, presidente del consiglio di amministratore o di socio “sovrano” (Cass., 28/04/2021, n. 11161), la qualità di socio ed amministratore di una società di capitali composta da due soli soci, entrambi amministratori, è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato, anche a livello dirigenziale, ove il vincolo della subordinazione risulti da un concreto assoggettamento del socio – dirigente alle direttive ed al controllo dell’organo collegiale amministrativo formato dai medesimi due soci (Cass., 21/05/2002, n. 7465; Cass., 21/01/1993, n. 706; Cass., 25/05/1991, n. 5944).
La qualità di amministratore di una società di capitali è, dunque, compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato della stessa, ove sia accertato in concreto lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita, con l’assoggettamento ad effettivo potere di supremazia gerarchica e disciplinare (Cass., 26/10/1996, n. 9368; Cass., 25/05/1991, n. 5944; Cass., 11/11/1993, n. 11119; anche Cass., 28/04/2021, n. 11161). Pertanto, potendo in astratto coesistere nella stessa persona la posizione di socio di una società e quella di lavoratore subordinato della medesima, pure un socio, componente del consiglio di amministrazione di una società, può essere legato a quest’ultima da un rapporto di lavoro subordinato, purché appunto risulti in concreto assoggettato ad un potere disciplinare e di controllo esercitato dagli altri componenti dell’organo cui egli appartiene; mentre, in mancanza di siffatto assoggettamento, l’osservanza di un determinato orario di lavoro e la percezione di una regolare retribuzione non sono sufficienti da sole a far ritenere la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato (Cass., 15/02/1985, n. 1316).
Il rapporto organico che lega il socio o l’amministratore ad una società di capitali non esclude la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato a contenuto dirigenziale tra il primo e la seconda (Cass., 3/12/1998, n. 12283). Solo, quindi, nel caso di amministratore unico di società di capitali datrice di lavoro non è configurabile il vincolo di subordinazione perché mancherebbe la soggezione del prestatore ad un potere sovraordinato di controllo e disciplina, escluso dalla immedesimazione in unico soggetto della veste di esecutore della volontà sociale e di quella di unico organo competente ad esprimerla (Cass., 29/05/1998, n. 5352; Cass., 05/04/1990, n. 2823; anche Cass., n. 11161/2021 cit.).
3.2. Le medesime considerazioni valgono anche in caso di pagamento dei contributi previdenziali, in quanto si è affermato che, qualora il socio amministratore di una società a responsabilità limitata partecipi al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza, ha l’obbligo di iscrizione alla gestione commercianti, mentre, qualora si limiti ad esercitare l’attività di amministratore, deve essere iscritto alla sola gestione separata, operando le due attività su piani giuridici differenti; ciò in quanto la prima è diretta alla concreta realizzazione dello scopo sociale, attraverso il concorso dell’opera prestata dai soci e dagli altri lavoratori, e la seconda alla esecuzione del contratto di società sulla base di una relazione di immedesimazione organica volta, a seconda della concreta delega, alla partecipazione alle attività di gestione, di impulso e di rappresentanza (Cass., 02/05/2018, n. 10426; con richiamo a Cass., Sez. U., n. 17076/2011; Cass., 03/04/2017, n. 8613).
Si è, infatti, osservato che occorre distinguere tra prestazione di lavoro ed attività di amministratore, anche quando la prima attività si esplichi al livello più elevato dell’organizzazione e della direzione. Si tratta di due attività che rimangono su piani giuridici differenti, dal momento che l’attività di amministratore si basa su una relazione di immedesimazione organica o al limite di mandato ex art. 2260 c.c.; sicché comporta, a seconda della concreta delega, la partecipazione ad un’attività di gestione, l’espletamento di un’attività di impulso e di rappresentanza che è rivolta ad eseguire il contratto di società assicurando il funzionamento dell’organismo sociale e, sotto certi aspetti, la sua stessa esistenza.
L’attività lavorativa, invece, è rivolta alla concreta realizzazione dello scopo sociale, al suo raggiungimento operativo, attraverso il concorso dell’opera prestata a favore della società dai soci e dagli altri lavoratori subordinati o autonomi.
3.3. Si è, poi, ritenuto che, in tema di imposte sui redditi e con riferimento alla determinazione del reddito d’impresa, l’art. 62 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (vigente fino al 31 dicembre 2003, ora art. 60 del Tuir), il quale esclude l’ammissibilità di deduzioni a titolo di compenso per il lavoro prestato o l’opera svolta dall’imprenditore, limitando la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per lavoro dipendente e per compensi spettanti agli amministratori di società di persone, non consente di dedurre dall’imponibile il compenso per il lavoro prestato e l’opera svolta dall’amministratore unico di società di capitali; la posizione di quest’ultimo è infatti equiparabile, sotto il profilo giuridico, a quella dell’imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorrendo quindi l’assoggettamento all’altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, che costituisce il requisito tipico della subordinazione (Cass., 13/11/2006, n. 24188).
Si è anche chiarito che, in tema di rapporto di lavoro alle dipendenze di una società di capitali, come non sussiste alcuna incompatibilità di principio tra la qualità di componente (non unico) dell’organo di gestione e quella di lavoratore subordinato alle dipendenze della società, allo stesso modo non vi sono ostacoli alla configurabilità di un siffatto rapporto fra la società e il socio titolare della maggioranza del capitale sociale, neppure quando la percentuale del capitale detenuto corrisponda a quella minima prevista per la validità delle deliberazioni dell’assemblea, attesa la sostanziale estraneità dell’organo assembleare all’esercizio del potere gestorio; ferma restando, comunque, la non configurabilità di un rapporto di lavoro con la società quando il socio (a prescindere dalla percentuale di capitale posseduto e dalla formale investitura a componente dell’organo amministrativo) abbia di fatto assunto, nell’ambito della società, l’effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione (Cass., 17/11/2004, n. 21759). La qualità di socio, anche “maggioritario”, di una società di capitali, non è, allora, di per sé di ostacolo alla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra socio e società, allorché possa in concreto ravvisarsi il vincolo di subordinazione, almeno potenziale, tra il socio medesimo e l’organo societario preposto all’amministrazione, vincolo che in generale è da escludere unicamente nelle ipotesi di socio “amministratore unico”, o di socio “unico azionista” o di “socio sovrano” (Cass., 19/05/1987, n. 4586).
4. Pertanto, nella specie, poiché Co.Ge. ricopriva l’incarico di presidente del consiglio di amministrazione della società, va del tutto esclusa, limitatamente alla sua posizione, la possibilità di svolgere un’attività di lavoro subordinato in favore della stessa società.
Invece, con riferimento a Co.Ge., amministratore delegato, il giudice d’appello avrebbe dovuto verificare in concreto (non essendo all’uopo sufficiente il dato meramente formale delle delibere che escludano la subordinazione) l’esistenza di un parallelo rapporto di lavoro subordinato, fondato sulla esistenza o meno del potere direttivo, gerarchico e disciplinare nei suoi confronti. Inoltre, per questa Corte la qualità di amministratore di una società di capitali è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato della medesima solo ove sia accertata l’attribuzione di mansioni diverse dalle funzioni proprie della carica sociale rivestita. Nell’ipotesi in cui la suddetta diversità non sussista e si verifichi l’attribuzione soltanto delle funzioni proprie del rapporto organico la nullità del rapporto di lavoro avente ad oggetto tali funzioni non esclude il diritto al compenso eventualmente pattuito in favore degli amministratori della società (Cass., 12/01/2002, n. 329), con la ulteriore precisazione che, in caso di svolgimento di mansioni identiche, quindi quelle proprie della carica di amministratore, non vi è alcuna possibilità di deducibilità dei costi da attività di lavoro subordinato (Cass., n. 11119/1993 cit.). Il giudice del rinvio, dunque, dovrà anche accertare se le prestazioni lavorative espletate da Co.Ge. siano, in primo luogo, diverse o meno dall’attività svolta quale componente del consiglio di amministrazione e se, in caso positivo, esse siano caratterizzate dalla subordinazione, condicio sine qua non della deducibilità del relativo compenso (in tali termini cfr. Cass. 23/11/2021, n. 36362 e Cass. 28/04/2021, n. 11161).
5. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Molise, in diversa composizione, perché proceda a nuovo esame adeguandosi al seguente principio di diritto: “in tema di imposte sui redditi, sussiste l’assoluta incompatibilità tra la qualità di lavoratore dipendente di una società di capitali e la carica di presidenza del consiglio di amministrazione o di amministratore unico della stessa, in quanto il cumulo nella stessa persona dei poteri di rappresentanza dell’ente sociale, di direzione, di controllo e di disciplina rende impossibile quella diversificazione delle parti del rapporto di lavoro e delle relative distinte attribuzioni che è necessaria perché sia riscontrabile l’essenziale ed indefettibile elemento della subordinazione, con conseguente indeducibilità dal reddito della società del relativo costo da lavoro dipendente. La compatibilità della qualità di socio amministratore, membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali, con quella di lavoratore dipendente della stessa società, ai fini della deducibilità del relativo costo dal reddito di impresa, non deve essere verificata solo in via formale, con riferimento esclusivo allo statuto e alle delibere societarie, occorrendo invece accertare in concreto la sussistenza o meno del vincolo di subordinazione gerarchica, del potere direttivo e di quello disciplinare e, in particolare, lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita“. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Molise, in diversa composizione, per un nuovo esame alla luce dei principi esposti e per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.