CORTE di CASSAZIONE, sezione tributaria, Sentenza depositata n. 21936 il 2 agosto 2024
Tributi – Avviso di accertamento – IRES – IRAP – IVA – Legale rappresentante – Operazioni oggettivamente inesistenti – Maggiori ricavi e ritenute non effettuate – Erogazione di retribuzioni per lavoro dipendente non contabilizzate – Notifica – Potere di operare verifiche della Giardia di finanza – Legittimo affidamento del contribuente – Esclusione della buona fede del cessionario o committente – Rigetto
Fatti di causa
1. A. s.c.r.l. in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, propone ricorso, affidato a nove motivi, per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe, con cui la Commissione Tributaria Regionale della Liguria aveva accolto parzialmente l’appello principale proposto dall’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, nonché quello incidentale della suddetta società avverso la sentenza n. 228/03/2016 della Commissione Tributaria Provinciale di La Spezia che aveva accolto il ricorso proposto da quest’ultima avverso avviso di accertamento con il quale l’Ufficio, previo p.v.c. della G.d.F. di La Spezia e p.v.c. della D.R.E. Liguria, aveva ripreso a tassazione maggiori costi indebitamente dedotti, ai fini Ires e Irap e detratti, ai fini Iva, in relazione a fatture (emesse da S., E.E.T. Srl etc.) afferenti ad operazioni ritenute oggettivamente inesistenti e contestato maggiori ricavi e ritenute non effettuate in relazione alla erogazione di retribuzioni per lavoro dipendente non contabilizzate.
2. Il giudice di appello – confermando l’impugnato avviso di accertamento fatta eccezione per il recupero di Euro 151.296,25 corrispondente alle retribuzioni per lavoro dipendente non contabilizzate – per quanto di interesse, ha affermato che:
1) era rituale la notificazione dell’atto impositivo “impoesattivo” (a seguito del D.L. n. 78/2010) ex art.14 della legge n. 890/1982 in quanto tale disposizione nel fare salvo l’art. 60 del D.P.R. n. 600/1973 aggiungeva tale forma di notificazione a quella prevista dall’art. 14 cit.; peraltro, la tipologia della notificazione diretta, a mezzo servizio postale, da parte dell’Amministrazione era stata già prevista nell’art. 26 del D.P.R. 602/1973 con riferimento alla cartella di pagamento; non occorreva, peraltro, alcuna relazione sottoscritta per la notificazione dell’avviso di accertamento eseguita a mezzo del servizio postale ordinario tramite raccomandata, con avviso di ricevimento, ex art. 14 della legge n. 890/1982;
2) per quanto concerneva l’accesso dei militari della G.d.F. presso i locali di natura commerciale della società non era necessaria l’autorizzazione del Comandante di reparto essendo richiesta solo per l’accesso dei dipendenti civili dell’Amministrazione finanziaria;
3) il difetto di potere accertativo in capo alla Direzione Regionale delle Entrate non sussisteva in quanto la stessa era titolare del potere di accesso, ispezione e verifica ispettiva in attuazione delle previsioni di autorganizzazione dell’Agenzia delle entrate, ai sensi dell’art. 66, comma 3, del D.Lgs. n. 300/1999, del Regolamento di amministrazione n. 4 del 2000, e della successiva riconfigurazione dell’esercizio del potere di verifica della stessa nei soli casi di contribuenti titolari di ingenti volumi di affari, ai sensi dell’art. 27, comma 13, del D.L. n. 185 del 2008;
4) la circostanza fattuale dell’erogazione di emolumenti “in nero” ai propri dipendenti – contestata genericamente dalla società e, comunque, risultante dalla visione diretta delle buste chiuse contenenti danaro e da rinvenuti prospetti non ufficiali, nella forma di files, con importi corrispondenti a quelli delle buste (quale forma di c.d. contabilità in nero) – faceva presumere il fatto ignoto costituito dalla produzione di ricavi in misura proporzionalmente maggiore di quanto esposto con inconfigurabilità della eccepita doppia presunzione;
5) era legittima la ripresa a tassazione dei costi per attività di manutenzione fatturate dalla S. Snc trattandosi di operazioni oggettivamente inesistenti come risultava non solo dalle dichiarazioni rese da un unico testimone alla GdF ma anche dalla mancanza dei beni (carrelli) presso la contribuente sui quali la S. avrebbe eseguito i lavori di manutenzione; peraltro, l’archiviazione costituiva un dato non vincolante e non assumevano alcun rilievo le annotazioni (con indicazione degli estremi degli assegni bancari versati), relative alle operazioni svolte, effettuate dalla stessa contribuente;
6) era legittima la contestazione dell’indebito utilizzo in compensazione di crediti tributari inesistenti essendo risultate – come emergeva da una serie di elementi presuntivi (mancanza di bilanci e dichiarazioni da parte di E.E.T. Srl a decorrere dal 2009; mancanza di mezzi adeguati e personale dipendente in capo a E.E.T. Srl; inadeguatezza del contratto di permuta di servizi di trasporto stipulato tra le società; anti economicità del servizio di permuta di trasporti; anomalia della contrapposizione tra fatture emesse con “Iva detraibile” emesse da E.E. verso la contribuente e “fatture esenti Iva” emesse dalla contribuente verso E.E. che, da un lato, generava un forte credito Iva della contribuente e, dall’altro, un forte debito di E.E.T., evasore totale; reciproca interessenza tra le società interessate; inesistenza di rapporti tra E.E.T. Srl e F.T.Srl e soggetti terzi)- oggettivamente inesistenti le operazioni intercorse tra la contribuente e le società E.E.T. Srl e F.T. Srl senza che la società avesse assolto all’onere probatorio a contrario quanto alla veridicità delle stesse;
7) l’Amministrazione aveva applicato il cumulo giuridico delle sanzioni assumendo come violazione più grave quella relativa al periodo di imposta in cui si era verificata l’evasione più ingente (2011);
8) sul piano sanzionatorio non si poteva invocare il principio di buona fede atteso che, a fondamento dell’accertamento, erano state poste l’emissione di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti e la dazione di retribuzioni in nero.
3. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
4. La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Considerato che
1. Preliminarmente non può trovare accoglimento l’istanza di declaratoria di cessazione della materia del contendere in base a quanto meramente rappresentato dalla ricorrente, nella memoria ex art. 378 c.p.c. – e ribadito in udienza- di chiusura della procedura di liquidazione coatta amministrativa – alla quale avrebbe partecipato anche l’Agenzia delle entrate tramite insinuazione al passivo anche per i crediti oggetto della presente controversia- e di successiva cancellazione della società dal registro delle imprese.
Né, d’altro canto, la ricorrente ha formulato una rinunzia al presente giudizio.
Posto quanto sopra, vanno, di seguito, esaminati i motivi di ricorso.
2. Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 14 della legge n. 890/1982 e 60 del D.P.R. n. 600/1973 per avere la CTR ritenuto rituale la notifica dell’avviso di accertamento “impoesattivo” (a seguito del D.L. n. 78/2010) eseguita ex art. 14 cit. in quanto tale norma, nel fare salva l’applicazione dell’art. 60 del D.P.R. n. 600/1973, aggiungeva tale forma di notificazione a quella prevista dall’art. 14 cit. sebbene in forza di tale clausola di salvaguardia prevista espressamente dal legislatore, la forma di notificazione ai sensi dell’art. 60 cit. a mezzo dei soggetti abilitati (che se del caso potranno avvalersi del servizio postale), dovesse considerarsi “obbligatoria”.
Peraltro, ad avviso della ricorrente, il vizio della notifica effettuata, ai sensi dell’art. 14 cit., inciderebbe necessariamente sull’esistenza dell’avviso di accertamento atteso che, a seguito del D.L. n. 78/2010, il “nuovo” avviso di accertamento non avrebbe soltanto la natura di provocatio ad opponendum ma servirebbe anche per l’instaurazione dell’azione esecutiva da parte dell’Agente della riscossione.
3. Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 14 della legge n. 890/1982, 60 del D.P.R. n. 600/73 nonché 148 e 149 c.p.c. per avere la CTR – rigettando il relativo motivo di appello incidentale – ritenuto che non occorresse alcuna relazione sottoscritta per la notificazione dell’avviso di accertamento eseguita a mezzo del servizio postale ordinario tramite raccomandata con avviso di ricevimento, ex art. 14 della legge n. 890/1982 sebbene l’agente notificatore abilitato – pur nell’ipotesi di notifica diretta a mezzo posta da parte dell’Agenzia – dovesse certificare, ai sensi degli artt. 148 e 149 c.p.c., l’eseguita notifica attraverso la redazione di un’apposita relata, datata, sottoscritta e timbrata, apposta in calce sia all’originale che alla copia dell’avviso.
4. I motivi primo e secondo – da trattare congiuntamente per connessione – sono infondati.
4.1. Costituisce orientamento costante nella giurisprudenza di questa Corte (“in fine” ribadito, in motivazione, da Sez. 5, n. 21797 del 2020) quello a termini del quale, “a partire dal 15 maggio 1998, data di entrata in vigore dell’art. 20 della legge n. 146 del 1998 (che ha modificato l’art. 14 della legge n. 890 del 1982), gli uffici finanziari possono procedere alla notificazione a mezzo (della) posta ed in modo diretto” – senza cioè l’intermediazione di ufficiali giudiziari o messi notificatori – “degli avvisi e degli atti che per legge vanno notificati al contribuente” (Sez. 5, n. 17598 del 2010, Rv. 614598-01), non ricorrendo pertanto alcuna deroga (contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente) con riguardo alla notificazione degli avvisi di accertamento (Sez. 5, n. 34007 del 2019).
Invero, la salvezza delle previsioni di cui agli artt. 60 D.P.R. n. 600 del 1973 e 26 D.P.R. n. 602 del 1973, contenuta nel ridetto articolo, è da intendersi nel senso che l’amministrazione, qualora lo reputi opportuno, può avvalersi dell’intermediazione di soggetti esterni abilitati alla notificazione degli atti giudiziari, ma non è obbligata a farlo: ragion per cui, come reiteratamente affermato da questa Suprema Corte (cfr., da ult., Sez. 5, n. 29642 del 2019, Rv. 655744-01), “in caso di notificazione a mezzo posta dell’atto impositivo eseguita direttamente dall’Ufficio finanziario ai sensi dell’art. 14 della L. n. 890 del 1982, si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, e non quelle di cui alla suddetta legge concernenti esclusivamente la notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 149 c.p.c., sicché non va redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico, e l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, senza necessità dell’invio della raccomandata al destinatario, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., la quale opera per effetto dell’arrivo della dichiarazione nel luogo di destinazione ed è superabile solo se il destinatario provi di essersi trovato, senza sua colpa, nell’impossibilità di prenderne cognizione“.
4.2.A fronte di un siffatto quadro ermeneutico, Sez. 6-T, n. 23435 del 2022, si è peritata (in motivazione) di condivisibilmente aggiungere quanto segue:
– il D.L. n. 78 del 2010, art. 29, comma 1, lett. a), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 122 del 2010 e succ. modific., nulla ha innovato riguardo alla notifica dell’atto impositivo, limitandosi a prevedere, in considerazione della necessità di operare la “concentrazione della riscossione nell’accertamento”, come espressamente recita la rubrica della disposizione in esame, che l’avviso di accertamento rechi anche l’intimazione ad adempiere agli obblighi di pagamento contenuti nell’atto c.d. impoesattivo;
– nessuna modifica è stata apportata alla L. n. 890 del 1982, art. 14, che continua a prevedere “la notificazione degli avvisi… che per legge devono essere notificati al contribuente”, “a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari”, senza alcuna distinzione tra i vari tipi di atti, impositivi o impoesattivi;
– in mancanza di espressa modifica legislativa e di ragioni sistematiche che giustifichino una diversa interpretazione, ed anche alla stregua di quanto affermato dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 175 del 2018 e n. 104 del 2019 (rispettivamente in materia di notifica diretta della cartella di pagamento e dell’avviso di accertamento), secondo cui, “nella fattispecie della notificazione “diretta”, vi è un sufficiente livello di conoscibilità” – ossia di possibilità che si raggiunga, per il notificatario, l’effettiva conoscenza dell’atto – “stante l’avvenuta consegna del plico (oltre che allo stesso destinatario, anche alternativamente) a chi sia legittimato a riceverlo”, sicché il “limite inderogabile” della discrezionalità del legislatore non è superato e non è compromesso il diritto di difesa del destinatario della notifica, deve ritenersi possibile e legittima la notifica diretta a mezzo posta degli avvisi di accertamento impoesattivi, previsti dal citato D.L. n. 78 del 2010, art. 29, convertito.
Né a diversa conclusione può pervenirsi desumendo…, dalla precisazione contenuta nell’art. 29 citato circa la facoltà di notificare “mediante raccomandata con avviso di ricevimento” gli atti “successivi” all’avviso di accertamento in tutti i casi in cui siano rideterminati gli importi dovuti in base a questi ultimi, una implicita abrogazione della facoltà riconosciuta all’amministrazione finanziaria di procedere alla notifica diretta a mezzo posta degli avvisi di accertamento, prevista dalla L. n. 890 del 1982, art. 14.
Invero, il citato art. 29, comma 1, lett. a), non si pone affatto su un piano di incompatibilità logica o di implicita contraddizione con la più generale previsione di cui al citato art. 14 (riferito agli “avvisi” e agli “altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente”) e nemmeno prevede che la notificazione a mezzo posta è consentita “solo” per gli atti successivi all’avviso di accertamento…, ma, al contrario, disponendo che la notificazione di tali atti può essere effettuata “anche mediante raccomandata con avviso di ricevimento”, rende evidente l’intento del Legislatore di specificare che anche per queste nuove tipologie di atti, ovvero i c.d. “atti successivi” (non è più prevista infatti l’emissione della cartella di pagamento la cui modalità di notifica è prevista dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26), è attribuita all’amministrazione fiscale la facoltà di procedere alla loro notificazione mediante l’utilizzo della più snella modalità costituita dall’invio diretto a mezzo raccomandata postale con avviso di ricevimento (Cass. sez. 5 n. 10109 del 2023).
4.3. Nella specie, la CTR si è attenuta ai suddetti principi nel ritenere rituale la notifica dell’avviso di accertamento impoesattivo – previsto dall’art. 29 del D.L. n. 78 del 2010, come convertito- effettuata direttamente dall’Ufficio finanziario ex art. 14 della legge n. 890/1982, a mezzo servizio postale ordinario, senza necessità di redazione di alcuna relata di notifica.
5. Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione degli artt. 52, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972 e 33 del D.P.R. n. 600/73 per avere la CTR ritenuto – rigettando il relativo motivo di appello incidentale – che non era necessaria l’autorizzazione del Comandante di reparto nel caso di accesso dei militari presso i locali di natura commerciale della società sebbene i militari dovessero essere debitamente autorizzati all’esecuzione di accessi, verifiche e ricerche previste dall’art. 35 della legge n. 4/1929 e, nella specie, non vi fosse prova agli atti di causa dell’autorizzazione all’attività di verifica condotta dalla G.d.F.- a seguito di altra verifica fiscale autorizzata unicamente nei confronti di altra società S. Snc- e sfociata nel p.v.c. del 22 ottobre 2013 sul quale era stato parzialmente fondato l’avviso impugnato.
5.1. Il motivo è infondato.
5.2. Per giurisprudenza di questa Corte (Sez. 5, sent. n. 16017 dell’8.7.2009; n. 16661 del 29.7.2011; e n. 1444 del 22.1.2013; Cass. sez. 5, n. 17525 del 2019), ai sensi dell’art. 35 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, la Guardia di finanza, in quanto polizia tributaria, può sempre accedere negli esercizi pubblici e in ogni locale adibito ad azienda industriale o commerciale ed eseguirvi verificazioni e ricerche, per assicurarsi dell’adempimento delle prescrizioni imposte dalle leggi e dai regolamenti in materia finanziaria, non necessitando, a tal fine, di autorizzazione scritta, richiesta per il diverso caso di accesso effettuato dai dipendenti civili dell’Amministrazione finanziaria.
5.3. Nella sentenza impugnata la CTR, facendo buon governo del richiamato principio di diritto, ha correttamente escluso che incombesse sui militari della G.d.F. che avevano proceduto all’accesso nei locali commerciali della società l’obbligo di munirsi di specifica autorizzazione del Comandante di reparto.
6. Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 14, comma 2, Cost., 23 del D.P.R. n. 107/2001, 27, comma 13, del D.L. n. 185 del 2008 per avere la CTR ritenuto che la Direzione Regionale dell’Agenzia delle entrate era titolare del potere di verifica sebbene, a seguito del D.Lgs. n. 300/1999, fossero state istituite le Agenzie delle entrate, poi organizzate dal successivo regolamento di organizzazione del Ministero delle finanze con il D.P.R. n. 107 del 2001 che, in forza dell’art. 23, aveva disposto l’abrogazione anche dell’art. 62-sexies, comma 2, del D.L. n. 331/1993, che conferiva espressamente in capo alle Direzioni Regionali il potere di eseguire verifiche fiscali con obbligo della comunicazione dei risultati agli Uffici locali competenti per la successiva fase di emissione degli avvisi di accertamento; peraltro, ad avviso della ricorrente, l’art. 27 del D.Lgs. n. 185 del 2008, anche alla luce della circolare n. 13/E del 2009 dell’Agenzia delle entrate, confermerebbe l’attribuzione ex novo, a decorrere dal 1 gennaio 2009, del potere di svolgere le attività di accertamento in capo alle Direzioni Regionali solo con riferimento ai c.d. “grandi contribuenti” (con volume d’affari non inferiore a cento milioni di euro) – tra i quali non rientrava la società contribuente – competendo, in tutti gli altri casi, agli Uffici locali il potere di operare le verifiche fiscali.
6.1. Il motivo è infondato.
6.2. Occorre premettere che la L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 360, (finanziaria 2008) ha previsto che “al fine di rafforzare l’attività di controllo dell’Agenzia delle Entrate attraverso l’impiego ottimale delle risorse e di facilitare il rapporto dei contribuenti con gli uffici, con il regolamento di amministrazione di cui al D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 71, e successive modificazioni, possono essere individuati gli uffici competenti a svolgere le attività di controllo e di accertamento. Il regolamento si ispira anche ai seguenti criteri:
a) rafforzamento dell’attività di controllo in relazione alla peculiarità delle tipologie di contribuenti e alle diverse fattispecie di accertamento;
b) impiego ottimale delle risorse, nel rispetto dei principi di efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, nonché facilitazione del rapporto dei contribuenti con gli uffici, anche attraverso lo sviluppo delle tecnologie informatiche e telematiche;
c) individuazione dei livelli di responsabilità relativi all’adozione degli atti di accertamento sulla base della rilevanza e complessità degli stessi”.
Con il D.L. n. 185 del 2008, art. 27, comma 13, convertito con la L. n. 2 del 2009, si è stabilito che “ferme restando le previsioni di cui ai commi da 9 a 12, a decorrere dal 1 gennaio 2009, per i contribuenti con volume d’affari, ricavi o compensi non inferiore a cento milioni di Euro, le attribuzioni ed i poteri previsti dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 31 e segg., nonché quelli previsti dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 51 e segg., sono demandati alle strutture individuate con il regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle entrate di cui al D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 71”.
La norma indicata deve, pertanto, essere interpretata sistematicamente con le previgenti norme del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, ed in particolare con l’art. 57, comma 1, che ha istituito la Agenzia delle Entrate cui sono stati trasferiti i “rapporti giuridici, poteri e competenze” – corrispondenti alle funzioni già esercitate dai Dipartimenti delle entrate del Ministero delle Finanze – che “vengono esercitate secondo la disciplina della organizzazione interna di ciascuna agenzia”; con l’art. 61, commi 1 e 2, che ha istituito l’Agenzia delle Entrate come ente dotato di personalità giuridica di diritto pubblico con autonomia regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e finanziaria (cfr. artt. 1, comma 1, e 13, comma 1, Statuto, approvato con delibera CD in data 13.12.2000 n. 6), e con l’art. 62, comma 2, che ha attribuito alla Agenzia delle Entrate tutte le competenze già esercitate dal Dipartimento delle Entrate del Ministero delle Finanze e concernenti i servizi relativi alla amministrazione, alla riscossione, al contenzioso dei tributi diretti ed indiretti.
L’Agenzia fiscale è articolata in uffici “centrali e periferici”, “regionali e provinciali” (a loro volta articolati in strutture di vertice ed uffici dipendenti), secondo le disposizioni del “regolamento di amministrazione” adottato con delibera del Comitato direttivo del 30.11.2000 n. 4 (art. 2, comma 2 e 4; art. 4 comma 1 e 3; art. 5, reg. amm.), in base a criteri organizzativi che combinano l’applicazione del principio di competenza (territoriale e per valore) con il principio gerarchico (fondato su rapporti di sovra e sotto ordinazione: art. 11, comma 1, lett. c), Statuto) ed il principio di sussidiarietà (art. 1, comma 1, lett. d), reg. amm.).
Tanto premesso e considerato che la legge attribuisce alla Agenzia delle Entrate “tutte le funzioni concernenti le entrate tributarie erariali con il compito di perseguire il massimo livello di adempimento degli obblighi fiscali, sia attraverso l’assistenza ai contribuenti, sia attraverso i controlli diretti a contrastare gli inadempimenti e l’evasione fiscale” (D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 62, comma 1; analogamente art. 2, comma 1, ed art. 4, comma 1, lett. c), Statuto), ne segue che la competenza accertativa degli Uffici centrali e periferici può trovare fonte, o in una specifica attribuzione ex lege, o in via generale nelle norme organizzative dell’ente pubblico (Statuto o regolamento di amministrazione) o ancora in una delega specificamente conferita dal Direttore Generale (cfr. D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 57, comma 1); con successivo provvedimento del Direttore dell’Agenzia in data 23.2.2001 n. 36122 pubblicato in GU n. 151/2001, è stata definita, tra l’altro, la struttura organizzativa delle Direzioni regionali che (per quanto concerne le competenze della DRE dell’Abruzzo), prevede l’articolazione in differenti “settori” ed “uffici” tra cui il “Settore accertamento” nel quale è incardinato l’Ufficio controlli fiscali”, con l’attribuzione di “eseguire verifiche e altre indagini tributarie nei confronti dei contribuenti” (Alleg. n. 1 par. 17).
6.3. Questa Corte ha affermato il condivisibile principio secondo cui: “In tema di accertamenti tributari, il D.L. 29 novembre 2008, n. 185, convertito in legge 28 gennaio 2009, n. 2, non ha attribuito alle Direzioni regionali delle entrate una competenza in materia di accertamento fiscale prima inesistente, ma ha inteso fondare su norma di fonte primaria il riparto delle competenze relative all’attività di verifica fiscale, istituendo una riserva esclusiva di competenza, in relazione alla rilevanza economico fiscale del soggetto accertato, a favore della Direzione regionale, già titolare, per disposizione regolamentare, della competenza a svolgere attività istruttoria, utilizzabile dalle Direzioni provinciali ai fini della emissione degli atti impositivi” (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto legittimo l’avviso di accertamento emesso in base a processo verbale dalla Direzione regionale delle entrate) (Cass., sez. 5, n. 33289/18; n. 24263/15, n. 20915/14; Cass., sez. 6-5, n. 9751/2018).
Sul punto è stato, altresì, precisato che “la ripartizione delle competenze degli organi interni, effettuata dal Direttore dell’Agenzia delle Entrate, costituisce diretta attuazione dei poteri conferiti dal D.L.gs. n. 300/99.
In tale quadro, le Direzioni Regionali, quali organi dell’Agenzia delle Entrate, oltre ad esercitare, nell’ambito della rispettiva regione, funzioni di programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo, svolgono anche attività di verifica fiscale, il cui esercizio è riconducibile ai valori costituzionalmente protetti di solidarietà e contribuzione di cui agli artt. 2 e 53 Cost.” (Cass. sez. 6- 5, n. 20856/16; n. 848/16); in esito alla disamina delle norme di legge e regolamentari che disciplinano la struttura organizzativa della Agenzia delle Entrate, deve riconoscersi, pertanto, in capo alle Direzioni regionali delle entrate (DRE) la competenza a svolgere anche attività istruttoria (ispezioni, accessi, controlli, acquisizione informazioni e documenti, redazione dei relativi processi verbali) i cui risultati potranno essere utilizzati dalle Direzioni provinciali ai fini della emissione degli atti impositivi (Cass. sez. 5, n. 25128 del 2020).
6.4. Nella specie, la CTR, in ossequio al suddetto principio, ha correttamente ritenuto che non sussistesse il denunciato difetto di potere accertativo in capo alla Direzione regionale delle entrate con riguardo all’attività di verifica svolta nei confronti della società contribuente (e sfociata nel p.v.c. dell’11 marzo 2014).
7. Con il quinto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 39, comma 1, lett. d) del D.P.R. n. 600/73 e 2697, comma 1, c.c. per avere la CTR ritenuto che dalla circostanza della erogazione di emolumenti “in nero” ai propri dipendenti – contestata solo genericamente dalla contribuente e, comunque, accertata mediante la visione diretta delle buste chiuse contenenti danaro e i prospetti non ufficiali, rinvenuti in files, con importi corrispondenti a quelli delle buste – si desumevano in via presuntiva, in misura proporzionale, maggiori ricavi non dichiarati, sebbene, le somme corrisposte in busta al momento dell’accesso non costituissero emolumenti “in nero” ma premi di produttività tempestivamente denunciati- circostanza pacifica anche per i verificatori, non essendo stato contestato nel p.v.c. del 22 ottobre 2013 un maggior reddito dal mese di accesso (marzo 2013) – e, comunque, l’accertamento dell’Ufficio violasse il divieto della c.d. doppia presunzione atteso che, pur ammettendo come fatto noto l’avvenuta elargizione di somme di denaro ai dipendenti, la G.d.f. vi aveva tratto, in via presuntiva, un primo fatto ignoto, qual era la corresponsione di retribuzioni “in nero” e un secondo fatto ignoto, qual era la produzione, in proporzione, di maggiori ricavi e delle ritenute asseritamente non dichiarate.
7.1. Il motivo si profila, in parte inammissibile in parte infondato.
7.2. L’accertamento con metodo analitico-induttivo, con il quale l’Ufficio finanziario procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, è consentito, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 600 del 1973, pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacché la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata (Cass., 5 ottobre 2007, n. 20857; Cass., 24 settembre 2014, n. 20060; Cass., 9 giugno 2017, n. 14370).
7.3. La giurisprudenza consolidata di questa Corte è nel senso che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la “contabilità in nero”, costituita da appunti personali e da informazioni dell’imprenditore, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, prescritti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, perché nella nozione di scritture contabili, disciplinate dagli artt. 2709 e ss. c.c., devono ricomprendersi tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore ed il risultato economico dell’attività svolta (v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 27622 del 30/10/2018 Rv. 651078-02; Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 12680 del 23/05/2018 Rv. 648775-01). In particolare, “la “contabilità in nero” (sebbene rinvenuta preso terzi), costituita da appunti personali ed informazioni dell’imprenditore, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39 e – per il suo valore probatorio – legittima di per sè, ed a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro elemento, il ricorso all’accertamento induttivo di cui al citato art. 39, incombendo al contribuente l’onere di fornire la prova contraria, al fine di contestare l’atto impositivo notificatogli” (Cass. n. 12680/2018; N. 14150 del 2016; 4080 del 2015; da ultimo, Cass., sez. 6-5, Ord. n. 10493 del 2022).
7.4. Va, altresì, ricordato che la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, e non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. (tra le altre, tra le altre, Cass. Sez. L, Sentenza n. 17313 del 19/08/2020; Cass. 23518 del 2018; Cass. n. 571 del 2017; n. 19064 del 2006, n. 15107 del 2013).
7.5.Nella specie, il motivo di ricorso, pur prospettando una violazione degli artt. 39, comma 1, lett. d) del D.P.R. n. 600/73 e 2697, comma 1, c.c., in realtà tende inammissibilmente ad una nuova interpretazione di questioni di merito, avendo la CTR, con una valutazione in fatto non sindacabile dinanzi al giudice di legittimità e in ossequio ai suddetti principi, ritenuto genericamente contestata e comunque accertata – in base alla contabilità in nero (prospetti non ufficiali rivenuti sotto forma di files, i cui importi corrispondevano a quelli delle buste contenenti danaro corrisposte ai dipendenti) – l’erogazione da parte della società di emolumenti “in nero” ai propri dipendenti, quale fatto noto, dal quale desumere in via presuntiva, il fatto ignoto, qual era la produzione di maggiori ricavi non dichiarati; con ciò, senza, peraltro, incorrere nella assunta violazione del divieto di “doppia presunzione” o di “presunzione a catena”; al riguardo, come precisato da questa Corte il “divieto di doppie presunzioni” o “divieto di presunzioni di secondo grado o a catena” non è riconducibile né agli artt. 2729 e 2697 cod. civ. né a qualsiasi altra norma dell’ordinamento, ben potendo il fatto noto accertato in base ad una o più presunzioni (anche non legali), purché “gravi, precise e concordanti”, ai sensi dell’art. 2729 cod. civ., legittimamente costituire la premessa di una ulteriore inferenza presuntiva idonea – in quanto, a sua volta adeguata – a fondare l’accertamento del fatto ignoto (ex multis, Cass. sez. 5 n. 19894 del 2021; Cass. sez. 5, n. 20748 del 2019; n. 15003 del 2017; Cass. n. 1289 e n. 9348 del 2015).
8. Con il sesto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c, la violazione e falsa applicazione degli artt. 39 del D.P.R. n. 600/73, 54 del D.P.R. n. 633/72, in combinato con gli artt. 109 TUIR e 2697, comma 1, c.c., 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/92 per avere la CTR ritenuto legittima la ripresa a tassazione dei costi dedotti, ai fini delle imposte dirette, e detratti ai fini Iva, per attività ritenute oggettivamente inesistenti di manutenzione fatturate da S. Snc sulla base della mera dichiarazione di un terzo sebbene la stessa – della quale non vi era nemmeno traccia negli atti di causa – costituisse un mero argomento di prova, non idoneo a fondare il detto recupero.
Peraltro, ad avviso della ricorrente, anche la circostanza dell’avvenuta archiviazione del procedimento penale per l’utilizzazione di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, nonostante il principio del doppio binario tra processo tributario e processo penale, non avrebbe potuto essere ignorata e considerata irrilevante dal giudice di appello.
8.1. Il motivo si profila in parte inammissibile e in parte infondata.
8.2. Con specifico riferimento all’ipotesi, di cui alla presente controversia, in cui l’amministrazione finanziaria contesti l’inesistenza di operazioni assunte a presupposto della deducibilità dei relativi costi e di detraibilità della relativa imposta, questa Corte ha espresso il consolidato orientamento secondo cui la stessa ha l’onere di provare che l’operazione commerciale documentata dalla fattura non è stata in realtà mai posta in essere, indicando gli elementi presuntivi o indiziari sui quali fonda la contestazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, strumenti che vengono di solito adoperati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Sez. 5 – , Sentenza n. 28628 del 18/10/2021).
Più in particolare, la dimostrazione a carico dell’amministrazione finanziaria è raggiunta qualora siano forniti validi elementi che, alla stregua dell’art. 39, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 600/1973, e dell’art. 54, comma 2, D.P.R. n. 633/1972, possono anche assumere la consistenza di attendibili indizi, per affermare che le fatture sono state emesse per operazioni fittizie, ovvero che dimostrino in modo certo e diretto la inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati ovvero la inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione.
Infatti, nell’ordinamento tributario, gli elementi indiziari, ove rivestano i caratteri di gravità, precisione e concordanza, danno luogo a presunzioni semplici le quali, proprio a mente degli univoci precetti dettati dalle sopra indicate previsioni normative, sono idonee, di per sé sole considerate, a fondare il convincimento del giudice.
Assolto in tal guisa l’onere della prova incombente sull’amministrazione finanziaria, grava poi sul contribuente la dimostrazione dell’effettiva esistenza delle operazioni contestate. Pertanto, il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’amministrazione finanziaria, estrinsecando in motivazione i risultati del proprio giudizio; solo in un secondo momento, qualora ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, a tanto onerato dall’art. 2697, comma secondo, cod. civ.
Al fine di individuare, poi, quali elementi presuntivi possono essere forniti dall’amministrazione finanziaria per assolvere al proprio onere di prova in caso di operazioni ritenute oggettivamente inesistenti, gli stessi devono condurre a ritenere, mediante procedimento inferenziale, che l’operazione non sia mai stata posta in essere e, sotto tale profilo, costituisce valido elemento indiziario la circostanza che il soggetto che ha emesso la fattura era privo di idonea struttura organizzativa (locali, mezzi, personale, utenze), posto che è ragionevole inferire che dalla suddetta mancanza degli elementi essenziali per potere operare quale operatore commerciale possa farsi discendere la considerazione conclusiva della mancata realizzazione dell’operazione indicata in fattura (v., con riferimento alle operazioni soggettivamente inesistenti ed in materia di prova della natura di società cartiera: Cass. civ., 20 aprile 2018, n. 9851, punto 6.8).
8.3. A ciò va, altresì, aggiunto che, con riferimento alla prova della consapevolezza di partecipare ad una frode, questa Corte ha più volte precisato che, in tema d’Iva, l’amministrazione finanziaria, che contesti al contribuente l’indebita detrazione relativamente ad operazioni oggettivamente inesistenti, ha l’onere di provare che l’operazione non è mai stata posta in essere, indicandone i relativi elementi, anche in forma indiziaria o presuntiva, ma non anche quello di dimostrare la mala fede del contribuente, atteso che, una volta accertata l’assenza dell’operazione, non è configurabile la buona fede di quest’ultimo, che sa certamente se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il corrispettivo (Cass. civ., 10 novembre 2020, n. 25113, Cass. Sez. 5, Sentenza n. del 2021).
8.4. Nella specie, il motivo di censura – nella parte in cui denuncia l’erroneità del recupero fondato soltanto su una mera dichiarazione di un terzo – non coglie il decisum, in quanto la CTR ha ritenuto assolto l’onere probatorio incombente sull’Amministrazione circa la oggettiva fittizietà delle prestazioni di manutenzione fatturate da S. Snc non soltanto in base alle “dichiarazioni rese da un unico testimone alla Guardia di Finanza” – che di per sé costituiscono elementi indiziari concorrenti a formare il convincimento del giudice se confortati da altri elementi di prova, Cass. sez. 5, n. 9402 del 2007; Sez. 5, Sentenza n. 9876 del 05/05/2011 – ma anche in base alla rilevata “inesistenza dei beni (carrelli) presso la contribuente sui quali la emittente le fatture S. avrebbe eseguito i lavori di manutenzione menzionati nelle fatture“.
A fronte di tali elementi indiziari stimati idonei ad assurgere a prova presuntiva della inesistenza oggettiva delle operazioni fatturate, la CTR ha poi ritenuto – con apprezzamento di fatto non sindacabile in questa sede – che A. non avesse assolto l’onere probatorio a contrario a proprio carico, avendo prodotto soltanto “annotazioni” formate dalla medesima, contenenti la mera indicazione degli estremi degli assegni bancari versati; quanto all’assunta valenza dell’archiviazione del procedimento penale per utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, questa Corte ha più volte precisato che, in tema di processo tributario, il provvedimento di archiviazione pronunciato in sede penale ai sensi dell’art. 408, cod. proc. pen., non impedisce che lo stesso fatto venga diversamente definito, valutato e qualificato dal giudice tributario, poiché, a differenza della sentenza pronunciata all’esito del dibattimento, detto decreto ha per presupposto la mancanza di un processo e non dà luogo ad alcuna preclusione, non rientrando nemmeno tra i provvedimenti dotati di autorità di cosa giudicata giusto il disposto dell’art. 654, cod. proc. pen. (Cass. civ., 4 agosto 2020, n. 16649; Cass, Sez. 5, Sentenza n. 29346 del 2023).
Nella sentenza impugnata la CTR, nel rispetto del suddetto principio di diritto, ha ritenuto, nell’ambito di una valutazione complessiva degli elementi di prova presuntiva posti alla sua attenzione, il provvedimento di archiviazione come “dato non vincolante e liberamente valutabile in questa sede anche considerando il maggiore livello probatorio richiesto per l’affermazione della responsabilità penale rispetto a quello necessario per l’accertamento di una inadempienza agli obblighi tributari”.
9. Con il settimo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697, comma 2, c.c., per avere la CTR ritenuto legittimo l’addebito relativo all’indebita utilizzazione di crediti tributari inesistenti atteso che- a fronte di plurimi elementi presuntivi della oggettiva inesistenza delle operazioni intercorse tra E.E.T. Srl e F.T. Srl e A. – quest’ultima non aveva assolto all’onere probatorio a contrario; ciò nonostante, ad avviso della ricorrente, la contribuente avesse svolto argomentazioni difensive nei gradi di merito idonee a comprovare la veridicità delle operazioni in questione.
9.1. Il motivo si profila inammissibile in quanto pur lamentando la violazione dell’art. 2697, comma 2, c.c., tende ad una inammissibile rivisitazione di un apprezzamento in fatto operato dal giudice di appello avendo quest’ultimo ritenuto che, a fronte di molteplici elementi indiziari offerti dall’Amministrazione circa l’indebito utilizzo in compensazione da parte di A. di crediti tributari inesistenti (mancanza di bilanci e dichiarazioni da parte di E.E.T. Srl a decorrere dal 2009; mancanza di mezzi adeguati e personale dipendente in capo a E.E.T. Srl; inadeguatezza del contratto di permuta di servizi di trasporto stipulato tra le società; anti economicità del servizio di permuta di trasporti; anomalia della contrapposizione tra fatture emesse con “Iva detraibile” emesse da E.E. verso la contribuente e “fatture esenti Iva” emesse dalla contribuente verso E.E. che, da un lato, generava un forte credito Iva della contribuente e, dall’altro, un forte debito di E.E.T., evasore totale; reciproca interessenza tra le società interessate; inesistenza di rapporti tra E.E.T. Srl e F.T. Srl e soggetti terzi), “l’onere di dimostrare la veridicità delle operazioni fatturate e la legittimità dell’abbattimento de debito Iva o dell’esposizione di credito Iva incombeva sulla contribuente”.
Invero, il giudizio di merito non può essere ulteriormente revisionato in questa sede, tenuto conto del principio di diritto secondo cui: “Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.” (così, Cass., sez. 5, n. 32624 del 2019; sez. 6- 5, n. 9097 del 2017; cfr. altresì, sez. 6 -3, n. 8758 del 2017; v. Cass., 19 luglio 2021, n. 20553, secondo cui la valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito).
10. Con l’ottavo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c, la violazione e falsa applicazione dell’art. 12, comma 5, del D.Lgs. n. 472/97 per avere la CTR, avallando il modus operandi dell’Agenzia, ritenuto applicato il cumulo giuridico delle sanzioni, assumendo come violazione più grave quella relativa al periodo di imposta in cui si era verificata l’evasione più ingente (2011) sebbene l’Ufficio, lungi dal determinare una sanzione unica ai sensi dell’art. 12, comma 5, cit. tenendo conto della identità della violazione contestata per gli anni di imposta 2009-2011, avesse calcolato le sanzioni applicabili per le singole annualità sommandole tra loro, dunque sanzionando per tre volte la condotta della contribuente.
10.1. Il motivo – con il quale la contribuente contesta le modalità di calcolo delle sanzioni indicate dall’Amministrazione nell’avviso e fatte proprie dal giudice regionale, assumendole non rispettose del criterio, pur invocato, del cumulo giuridico – è inammissibile.
10.2. Premesso che con riferimento all’istituto del concorso di violazioni e della continuazione, regolato dall’art. 12 D.Lgs. n. 472 del 1997, questa Corte ha affermato che, dal complesso normativo, si evince che in ipotesi di violazioni rilevanti ai fini di più tributi, la sanzione base a cui riferire l’aumento indicato nel primo comma è quella più grave aumentata nella misura prevista dal terzo comma e che quest’ultima, ove le violazioni riguardino periodi d’imposta diversi, deve essere aumentata per effetto del quinto comma prima dell’ulteriore aumento di cui al comma primo (cfr. Cass., sent. n. 8071/2010; n. 21043/2007), nella specie, la contribuente non ha assolto, in punto di autosufficienza, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., all’onere di riportare in ricorso, nelle parti rilevanti, l’avviso di accertamento in questione onde permettere a questa Corte di verificare gli esatti termini della contestazione e di averne la completa cognizione al fine di valutare la fondatezza della censura; invero, il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (ex multis, Cass. n. 7825 e n. 12688 del 2006; Cass. n. 14784 del 2015).
11. Con il nono motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c, la violazione e falsa applicazione dell’art. 10 della legge n. 212/2000, per avere la CTR ritenuto non applicabile il principio di buona fede e affidamento sul piano sanzionatorio sebbene, come si evinceva dal p.v.c., l’Agenzia avesse escluso qualunque profilo di illegittimità nella sottoscrizione del contratto di permuta di servizi tra la contribuente e le società di trasporti E.E. e F.T., il che, da un lato, escludeva la connotazione dolosa o colposa della condotta della contribuente e, dall’altro, costituiva sintomo di obiettive condizioni di incertezza nella determinazione dell’ambito applicativo di una norma tributaria.
11.1. Il motivo è infondato.
11.2. In termini generali, questa Corte ha affermato che in tema di legittimo affidamento del contribuente, di fronte all’azione dell’Amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 10, comma 1, della L. n. 212 del 2000, costituisce situazione tutelabile quella caratterizzata:
a) da un’apparente legittimità e coerenza dell’attività dell’Amministrazione finanziaria in senso favorevole al contribuente;
b) dalla buona fede del contribuente rilevabile dalla sua condotta, in quanto connotata dall’assenza di qualsiasi violazione del dovere di correttezza gravante sul medesimo;
c) dall’eventuale esistenza di circostanze specifiche e rilevanti, idonee a indicare la sussistenza dei due presupposti che precedono.
La relativa tutela – pur tipizzata in talune ricorrenti ipotesi (come l’art. 10, comma 2, L. n. 212 cit.) – non è ancorata a schemi precostituiti ed al modello formale della validità/invalidità dell’atto, ma richiede una valutazione in concreto in relazione alla diversità delle fattispecie e delle situazioni (Sez. 5 -, Sentenza n. 12372 del 11/05/2021).
11.3. In tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, l’art. 5 D.Lgs. n. 472 del 1997, applicando alla materia fiscale il principio sancito in generale dall’art. 3 L. n. 689 del 1981, stabilisce che non è sufficiente la mera volontarietà del comportamento sanzionato, essendo richiesta anche la consapevolezza del contribuente, a cui deve potersi rimproverare di aver tenuto un comportamento, se non necessariamente doloso, quantomeno negligente. È comunque sufficiente la coscienza e la volontà della condotta, senza che occorra la dimostrazione del dolo o della colpa, la quale si presume fino alla prova della sua assenza, che deve essere offerta dal contribuente e va distinta dalla prova della buona fede, che rileva, come esimente, solo se l’agente è incorso in un errore inevitabile, per essere incolpevole l’ignoranza dei presupposti dell’illecito e dunque non superabile con l’uso della normale diligenza. (Cass. a Cass. 30/01/2020, n. 2139, Cass. sez. 5, n. 9942 del 2022).
Va inoltre ribadita la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui: – “in tema di sanzioni amministrative tributarie, l’incertezza normativa oggettiva è caratterizzata dalla impossibilità di individuare con sicurezza ed univocamente la norma giuridica nel cui ambito il caso di specie è sussumibile e può essere desunta da alcuni “indici” (quali, ad esempio:
1) la difficoltà di individuazione delle disposizioni normative;
2) la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica;
3) la difficoltà di determinazione dei significato della formula dichiarativa individuata;
4) la mancanza di informazioni amministrative o la loro contraddittorietà;
5) l’assenza di una prassi amministrativa o la contraddittorietà delle circolari;
6) la mancanza di precedenti giurisprudenziali;
7) l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, specie se sia stata sollevata questione di legittimità costituzionale;
8) il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale;
9) il contrasto tra opinioni dottrinali;
10) l’adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di una disposizione implicita preesistente (Cass., 17/05/2017, n. 12301; 13/06/2018, n. 15452)”; – “…sussiste incertezza normativa oggettiva, causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 10 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, quando è ravvisabile una condizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, riferita, non già ad un generico contribuente, né a quei contribuenti che, per loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata e neppure all’Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento a cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione (Cass., 1/02/2019, n, 3108)…, quando la disciplina normativa si articoli in una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento concettualmente può risultare difficoltoso per equivocità di contenuto, derivante da elementi positivi di confusione (Cass., 29/09/2003, n. 14476; 24/07/2013, n. 18031)”.
“Come già affermato da questa Corte, tuttavia, (cfr. Cass. n. 35863/2021 in motiv.) va escluso che la circostanza dell’esistenza di contrastanti decisioni di giudici di merito sulla questione oggetto di controversia valga, di per sé, a fondare la considerazione della sussistenza di una situazione di obiettiva incertezza normativa… trattandosi di una possibile e fisiologica condizione che può manifestarsi nella fase applicativa di una previsione normativa tributaria in conseguenza delle diverse soluzioni interpretative di volta in volta offerte”; – “è, invece, necessario che il giudice tenuto a valutare la sussistenza di una situazione di obiettiva incertezza della norma evidenzi ed argomenti in ordine al fatto che le contrastanti decisioni dei giudici di merito trovino la propria ragione proprio nel contenuto di per sé non univoco della previsione normativa, nella sua non chiara formulazione, nella equivocità del contenuto, di cui le contrastanti pronunce di merito costituiscano espressione e, quindi, adeguati elementi di riscontro, mentre nel caso in esame tali deduzioni non sono state in alcun modo prospettate o evidenziate dalla contribuente” (così, tra le tante, da ultimo, Cass., Sez. T, 24 gennaio 2023., n. 2147; Cass. sez. 5, sentenza n. 35911 del 2023).
11.4. Peraltro, in tema di operazioni oggettivamente inesistenti – come nella specie – questa Corte ha precisato che una volta accertata l’assenza dell’operazione, è escluso che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente (rilevante invece nella diversa ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti), il quale ovviamente sa bene se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il prezzo o corrispettivo” (Cass. n. 18118 del 2016, in motivazione; Cass. n. 16473 del 2018).
11.5. Nella sentenza impugnata, la CTR, conformandosi ai suddetti principi, ha escluso la configurabilità della buona fede della contribuente – rilevante come possibile esimente sul piano sanzionatorio – atteso che, nella specie, “a fondamento dell’accertamento (veniva) portata l’emissione di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti e la dazione di retribuzioni in nero”.
12. In conclusione, il ricorso va rigettato.
13. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 18.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito;
Dà atto, ai sensi dell’art.13 comma 1-quater D.P.R. n.115/2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.