Corte di Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 1021 depositata il 16 gennaio 2025
AVVISO ACCERTAMENTO IRAP-IRES-ALTRO 2005
FATTI DI CAUSA
1. A seguito di processo verbale di constatazione, l’Agenzia delle Entrate – Direzione regionale della Lombardia notificava, in data 19 dicembre 2011, al B.P. Società Cooperativa, quale risultante dalla fusione tra il B.P. di Verona e Novara s.c.r.l. e la B.P. Italiana s.c.r.l. (già B.P. di Lodi s.c.r.l.), avvisi di accertamento n. TMB086G00748/2011 e n. TMB036G00747/2011, con i quali accertava, per l’anno di imposta 2005, un maggiore imponibile per € 664.953,21, con conseguente maggiore IRES, riferita al reddito complessivo globale del consolidato, per € 52.359.435,00 e una maggiore IRAP per € 4.474.663,00, oltre interessi. Con tali avvisi, inoltre, venivano irrogate due sanzioni, la prima consistente in una sanzione pecuniaria nella misura massima del duecento per cento della maggiore imposta accertata, determinata in € 104.718.869,00 ai fini IRES e in € 8.949.326,00 ai fini IRAP, la seconda nella sanzione accessoria prevista dall’art. 21, lett. b), del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 di interdizione dalla partecipazione a gare per l’affidamento di pubblici appalti e forniture per la durata di sei mesi.
Tali accertamenti si fondavano sul controllo fiscale effettuato sulle operazioni finanziarie intercorse nel 2005 tra la B.P. di Lodi Società Cooperativa a r.l. – poi denominata B.P. Italiana Società Cooperativa (BPI) – e il Gruppo M., entrambi coinvolti nell’operazione di acquisizione del controllo di B.A.P. Veneta s.p.a.
Sulla base, pertanto, della rilevanza penale dei comportamenti assunti in tali operazioni, a seguito di acquisizione del relativo fascicolo presso la Procura della Repubblica di Milano, l’Agenzia delle Entrate provvedeva a contestare la deducibilità fiscale di taluni costi/oneri sostenuti dalla BPI nell’anno 2005, in quanto ritenuti “costi da reato” ai sensi dell’art. 14, comma 4-bis, della legge del 24 dicembre 1993, n. 537.
In particolare, venivano ritenuti indeducibili, e quindi venivano recuperati a tassazione, i seguenti componenti negativi del reddito: a) svalutazioni crediti per € 923.960,00 ai fini IRES; b) commissioni passive per garanzie ricevute per € 75.125.225,41, ai fini IRES/IRAP; c) costi di destrutturazione delle operazioni su minorities per € 44.070.217,67; d) costi per consulenze tecniche e legali per la strutturazione delle operazioni per € 38.545.550,13 ai fini IRES/IRAP; conseguentemente, per effetto dei suddetti recuperi, veniva diminuita la perdita da trasferire al consolidato da € 471.486.090, come dichiarato dalla società, ad € 312.821.137,00, con maggiore IRES per € 52.359.435,00, e veniva accertato un valore della produzione netta ai fini IRAP di € 93.304.858,00, a fronte di quello dichiarato di € 64.436.135,00, con maggiore IRAP di € 4.474.663,00.
2. Avverso tali avvisi di accertamento, il B.P. Società Cooperativa proponeva separati ricorsi dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano, la quale, con sentenze n. 8561/22/2014 e n. 8562/22/2014, depositate entrambe in data 15 ottobre 2014, li rigettava, confermando integralmente sia la pretesa impositiva che sanzionatoria.
3. Interposti separati gravami dalla stessa Società, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, previa riunione dei ricorsi, con sentenza n. 2178/02/2015, pronunciata il 6 maggio 2015 e depositata in segreteria il 19 maggio 2015, rigettava gli appelli riuniti, con condanna della soccombente al pagamento delle spese di giudizio.
4. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il B.P. Società Cooperativa, sulla base di quattro motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso. La ricorrente ha depositato memoria.
5. All’udienza pubblica del 22 marzo 2024 sono comparsi i procuratori delle parti, che hanno concluso come da verbale in atti.
Il Pubblico Ministero ha concluso chiedendo l’accoglimento parziale del primo motivo di ricorso, rigettati gli altri.
Con ordinanza interlocutoria depositata il 19 luglio 2024 questa Corte, all’esito di riconvocazione in data 18 luglio 2024, ha assegnato al Pubblico Ministero ed alle parti, ai sensi dell’art. 384, comma 3, c.p.c. il termine di gg. 60 dalla comunicazione della stessa ordinanza per il deposito in cancelleria di osservazioni su n. 2 questioni indicate in motivazione e riguardante lo ius superveniens in conseguenza dell’entrata in vigore del d.lgs. 14 giugno 2024, n. 87 (in vigore dal 29 giugno 2024), e cioè la questione dei rapporti tra il processo penale celebrato nei confronti degli amministratori della società ricorrente ed il presente giudizio tributario, e la questione delle modifiche in tema di sanzioni per infedele dichiarazione, di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 471/1997, ad opera dell’art. 2, comma 1, lett. a), num. 3), del d.lgs. n. 87/2024, e della applicazioni di tali modifiche alle violazioni intervenute precedentemente.
Sia il Pubblico Ministero che i procuratori delle parti hanno depositato le richieste osservazioni.
Il termine assegnato è scaduto il 29 ottobre 2024.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso in esame, come si è detto, è affidato a quattro motivi.
1.1 Con il primo motivo di ricorso, la società contribuente eccepisce violazione e falsa applicazione dell’art. 43, comma 3, del P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nonché dell’art. 331 c.p.p. e 4 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.
Deduce, in particolare, l’illegittimità della sentenza impugnata, nella parte in cui ha rigettato la doglianza afferente alla nullità degli avvisi di accertamento emessi sia ai fini IRES sia ai fini IRAP, in quanto notificati tardivamente, dato che in relazione alla fattispecie contestata in sede tributaria non sussisterebbe l’obbligo di denuncia per uno dei reati fiscali di cui al d.lgs. n. 74/2000, in quanto i costi recuperati non sarebbero “fittizi”.
Secondo la ricorrente, in particolare, nel caso di specie, non ricorrerebbe l’ipotesi delittuosa prevista dall’art. 4 del d.lgs. n. 74/2000 in quanto con l’espressione “elementi passivi fittizi” sarebbero da annoverarsi soltanto i costi non effettivamente sostenuti o sostenuti in misura inferiore rispetto a quelli dichiarati, e non anche i costi effettivamente sostenuti ma indeducibili. Dagli atti del giudizio, infatti, sarebbe pacifico che le componenti negative del reddito, relative alle sopracitate operazione finanziaria, sarebbero state effettivamente sostenute e contabilizzate. Ciò posto, ne deriverebbe che, poiché il fatto denunciato dovrebbe essere almeno astrattamente sussistente, la mancanza quantomeno di un elemento essenziale della fattispecie incriminatrice eliminerebbe lo stesso obbligo di denuncia penale, presupposto necessario ai fini dell’applicazione del regime del raddoppio dei termini. In altri termini, nel caso di specie, adottando l’interpretazione secondo cui per “elementi passivi fittizi”, quale elemento essenziale del reato previsto dall’art. 4 del d.lgs. n. 74/2000, sarebbero da intendersi soltanto i costi fittizi o difformi da quelli dichiarati, la fattispecie incriminatrice non sarebbe neanche astrattamente esistente in quanto i costi oggetto di giudizio sarebbero stati in realtà effettivamente sostenuti, con la conseguenza che non vi sarebbe neppure l’obbligo di denuncia penale e, quindi, mancherebbe il presupposto stesso per l’applicazione del regime del raddoppio dei termini.
In secondo luogo, sempre rispetto al regime del raddoppio dei termini e, in particolare, al ricorrere degli elementi previsti dall’art. 4 del d.lgs. n. 74/2000 e alla conseguente sussistenza o meno dell’obbligo di denuncia, la Società ricorrente ritiene che, ai fini del calcolo del superamento o meno della soglia di punibilità fissata dalla norma, l’espressione “imposta evasa” sarebbe da interpretare nel senso di “imposta effettiva” e non, come invece ritenuto dalla C.T.R., di “imposta teorica”. Secondo l’impostazione seguita dal giudice a quo, infatti, si dovrebbe far riferimento all’imposta calcolata sulla rettifica operata sulla dichiarazione della consolidata, a prescindere delle ricadute che tale rettifica avrebbe sul consolidato. La diversa ricostruzione presentata dalla società, invece, considererebbe quale “imposta evasa” quella risultante dal maggior reddito complessivo globale derivante dal consolidato a seguito della rettifica operata sulla dichiarazione di una consolidata. Tale diversa interpretazione, sottolinea la Società, non sarebbe priva di rilevanza, dato che, rispetto a periodi di imposta in cui una società dichiarerebbe perdite fiscali, bisognerebbe accertare se tale perdita riesca comunque a coprire il maggior reddito accertato, con la conseguenza che comunque nessuna imposta sarebbe dovuta. Nel caso di specie, infatti, sarebbe pacifico che, nell’esercizio 2005, sia la consolidata BPI che la consolidante-parte ricorrente avrebbero sostenuto una perdita fiscale, per come presentata in dichiarazione, superiore e, quindi, assorbente rispetto al maggior imponibile accertato in capo alla consolidata, con la conseguenza che, comunque, non sarebbe stata dovuta alcuna imposta. Conclude la società evidenziando che, mancando l’imposta evasa, intesa come imposta effettiva, non sarebbe superata la soglia di punibilità prevista dall’art. 4 del d.lgs. n. 74/2000 e, quindi, non sarebbe applicabile il regime del raddoppio dei termini, difettando il necessario obbligo di denuncia.
In terzo e ultimo luogo, secondo la ricorrente, il giudice a quo avrebbe errato nel ritenere applicabile anche all’ imposta IRAP il regime del raddoppio dei termini, non essendo le violazioni fiscali in materia IRAP penalmente rilevanti. La fattispecie incriminatrice di dichiarazione infedele, ex art. 4 del d.lgs. n. 74/2000, infatti, farebbe riferimento soltanto alle dichiarazioni presentate ai fini delle imposte sui redditi (IRES) e dell’imposta sul valore aggiunto (IVA). La C.T.R., in particolare, avrebbe errato nel trattare in modo unitario le doglianze formulate sull’applicabilità del regime del raddoppio dei termini previsto dall’art. 43, comma 3, d.P.R. n. 600/1973, non accorgendosi, invece, che le stesse censure non sono tra di loro sovrapponibili, l’una riguardante l’imposta IRES, l’altra l’imposta IRAP. In altri termini, per quanto riguarda l’avviso di accertamento con il quale è stato contestata una maggiore IRAP, lo stesso dovrebbe ritenersi nullo in quanto non si applicherebbe il regime del raddoppio dei termini, dato che tale accertamento non sarebbe sussumibile sotto la fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 4 del d.lgs. n. 74/2000.
1.2 Con il secondo motivo di ricorso il B.P. Società Cooperativa deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 14, comma 4-bis, della legge 537/1993, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.
Rileva, in particolare, che, con riferimento all’art. 14, comma 4-bis, della l. n. 537/1993, nella sua formulazione previgente e per come successivamente novellato dall’art. 8, comma 1, d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito con modificazione dalla 26 aprile 2012, n. 44, per “costi da reato” si dovrebbero intendere soltanto i costi che si pongano in un rapporto causale diretto con la realizzazione dell’attività illecita. La C.T.R., invece, avrebbe erroneamente interpretato tale disposizione, in aderenza all’operato dell’Ufficio, ricomprendendo tra tali costi indeducibili quelli “riconducibili”, ancorché strettamente, al reato. La disposizione, per come formulata nel testo previgente, e soprattutto per come modificata, prescriverebbe, invece, che, ai fini della indeducibilità, i costi attengano a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento del delitto, con la conseguenza che dovrebbero ritenersi deducibili sia i costi funzionali ad un’attività lecita, come sarebbe quella di acquisizione del controllo di una banca, sia i costi che non hanno alcun legale di causalità diretta con la commissione dei reati, ponendosi cronologicamente “a valle” degli stessi. Nella prospettiva interpretativa offerta dalla Società, pertanto, mancherebbe il fondamento stesso della pretesa impositiva dell’Agenzia, non sussistendo “costi da reato” indeducibili, trovandosi anzi di fronte a “delitti senza costi”, cioè a delitti la cui realizzazione non presupporrebbe l’acquisizione di alcun bene o servizio, o, comunque, trattandosi di costi fisiologici e tipici di una qualunque operazione di acquisizione societaria.
1.3 Con il terzo motivo di ricorso, parte ricorrente eccepisce violazione e falsa applicazione degli 8 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 472/1997, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.
Deduce la ricorrente che la sentenza impugnata era errata, nella parte in cui i giudici avevano rigettato la doglianza della società afferente all’illegittimità delle sanzioni irrogate (principale e accessoria) per oggettiva incertezza normativa.
Nello specifico, il B.P. Società Cooperativa deduce che il giudice a quo avrebbe omesso di pronunciarsi sulla legittimità delle sanzioni irrogate sulla base della mera petizione di principio per cui non sussisterebbe l’esimente dell’obiettiva incertezza, e che la società contribuente non l’avrebbe provata. In sede di giudizio, invece, parte ricorrente avrebbe osservato l’esistenza di una incertezza normativa oggettiva derivante da diversi fattori, tra cui il tenore vago della previgente formulazione dell’art. 14, comma 4-bis, della legge n. 537/1993, l’assenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale e dottrinale, nonché la necessità di un intervento chiarificatore della Corte Costituzionale.
In via subordinata, la contribuente lamenta che la C.T.R. avrebbe comunque errato nel ritenere non sussistente l’eccepita esimente delle obiettive condizioni di incertezza. Secondo la stessa, infatti, la predetta esimente troverebbe il suo fondamento nell’obiettiva circostanza che ci si trovi dinanzi a previsioni normative equivoche tali da ammettere interpretazioni diverse e da non consentire, in un determinato momento, l’individuazione certa di un significato determinato. La parola “riconducibili” recata dall’art. 14, comma 4-bis, della l. n. 537/1993 costituirebbe pertanto una incertezza normativa obiettiva e, quindi, caso di operatività dell’esimente in questione.
1.4 Con il quarto e ultimo motivo di ricorso, la società contribuente eccepisce violazione e falsa applicazione dell’art. 7, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 472/1997, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.
Deduce, in particolare, l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui i giudici hanno rigettato la doglianza della Società afferente alla illegittimità della irrogazione delle sanzioni pecuniarie in misura superiore al minimo edittale, non ricorrendo i relativi presupposti di legge. Ad avviso della ricorrente, il giudice di secondo grado avrebbe errato nel ritenere sufficiente, ai fini dell’applicazione della sanzione amministrativa tributaria in misura superiore al minimo edittale, la sola inesistenza della esimente della obiettiva incertezza normativa e non anche i presupposti previsti dall’art. 7, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 472/1997, che fisserebbe il principio secondo il quale l’irrogazione di una sanzione amministrativa in misura superiore al minimo edittale presupporrebbe che la violazione contestata si connoti di particolare gravità, non potendosi invece considerare una sanzione superiore al minimo edittale sempre e comunque legittima. Da tale assunto, ne deriverebbe che, mancando i presupposti previsti dall’art. 7 citato, il giudice di seconde cure avrebbe dovuto rideterminare le sanzioni al minimo edittale.
2. Così delineati i motivi di ricorso, la Corte osserva quanto segue.
2.1 Il primo motivo appare parzialmente fondato, nei termini che di seguito si indicheranno.
2.1.1 Rispetto alle censure sulla corretta interpretazione di “elementi passivi fittizi” e “imposta evasa” ai fini del ricorrere della fattispecie incriminatrice ex art. 4 del d.lgs. n. 74/2000, occorre innanzitutto esplicitare il ragionamento logico – giuridico seguito da parte ricorrente.
Quest’ultima, infatti, si lamenta dell’illegittimità degli avvisi di accertamento in quanto adottati in virtù del c.d. raddoppio dei termini, istituto in forza del quale i termini previsti a pena di decadenza per l’accertamento tributario vengono raddoppiati laddove si sia in presa di una violazione fiscale che preveda un obbligo di denuncia.
Nel caso di specie, pertanto, secondo il ragionamento seguito da parte ricorrente, non sussistendo gli elementi essenziali della fattispecie incriminatrice, individuata nella dichiarazione infedele ex art. 4 del d.lgs. n. 74/2000, e mancando il superamento delle soglie di punibilità ivi previste, non sussisterebbe neanche il relativo obbligo di denuncia e, quindi, l’istituto del c.d. raddoppio dei termini sarebbe stato applicato senza il ricorrere del relativo presupposto, da ciò conseguendone l’illegittimità degli avvisi di accertamento in quanto emessi oltre i termini previsti per l’accertamento tributario.
Rispetto a un tale percorso argomentativo, tuttavia, è necessario porre l’attenzione sul profilo dirimente della questione, cioè la portata dell’obbligo di denuncia, essendo il presupposto giuridico necessario all’applicazione della disciplina del raddoppio dei termini.
Questa Corte, con giurisprudenza ormai consolidata, ha chiarito che «in tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini previsto dagli artt. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, nei testi applicabili ratione temporis, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte cost. nella sentenza n. 247 del 2011, sicché, ove il contribuente denunci il superamento dei termini di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria, deve contestare la carenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, non potendo mettere in discussione la sussistenza del reato il cui accertamento è precluso al giudice tributario (Cfr. Cass. V, n. 13481/2020, ma già Cass. VI-5, n. 11171/2016 ed altre)» (cfr. da ultimo Cass. civ., Sez. V, 10 gennaio 2024, n. 967).
Se ne ricava, pertanto, che ai fini dell’obbligo di denuncia, come ha correttamente statuito il giudice di secondo grado, rileva la sussistenza in astratto del reato, a nulla interessare né l’effettiva denuncia né il successivo eventuale accertamento che riscontri in concreto l’esistenza dell’ipotesi di reato.
Sulla base di quanto appena chiarito, pertanto, le censure di parte ricorrente in merito all’effettiva ricorrenza del reato di dichiarazione infedele ex art. 4 del d.lgs. n. 74/2000 sono da rigettare, dato che l’obbligo di denuncia penale non è in correlazione biunivoca con l’esistenza o meno del reato.
L’obbligo di denuncia, infatti, non presuppone la sussistenza di tutti gli elementi essenziali del reato e il superamento delle soglie di punibilità, laddove previste, sostanziandosi in qualcosa di meno, cioè nell’astratta configurabilità dell’illecito penale sulla base delle risultanze probatorie raccolte dall’Amministrazione finanziaria in sede di accertamento.
Per tali ragioni, non può farsi discendere l’illegittimità dell’avviso di accertamento sul presupposto della non sussistenza del reato di dichiarazione infedele, essendo sufficiente per l’applicazione della disciplina del raddoppio dei termini l’astratto obbligo di denuncia.
2.1.2 Ciò chiarito, è necessario però accogliere il motivo di ricorso nella parte in cui censura la sentenza impugnata per aver indistintamente applicato la disciplina del raddoppio dei termini sia rispetto all’avviso di accertamento riguardante l’imposta IRES e sia per quello riguardante l’IRAP.
In materia di IRAP, infatti, come la giurisprudenza di legittimità ha chiarito in modo ormai consolidato, «il c.d. “raddoppio dei termini”, previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, non può trovare applicazione anche per l’IRAP, poiché le violazioni delle relative disposizioni non sono presidiate da sanzioni penali» (cfr, da ultimo Cass. 9 agosto 2023, n. 24244; Cass. 2 agosto 2023, n. 23492; Cass. 17 luglio 2023, n. 20605; Cass. 3 maggio 2018, 10483).
Nel caso di specie, trattandosi di accertamento IRAP relativo all’anno 2005, il termine di decadenza per l’emissione dell’avviso di accertamento era di quattro anni, in base all’art. 43 d.P.R. n. 600/1973 vigente ratione temporis.
L’accertamento, quindi, avrebbe dovuto essere emesso entro il 31 dicembre 2010 (quarto anno successivo a quello in cui doveva essere presentata la dichiarazione); la notifica dell’avviso in data 19 dicembre 2011, pertanto, deve ritenersi tardiva.
In conclusione, il primo motivo di ricorso va accolto esclusivamente con riguardo alla censura dell’illegittima applicazione del c.d. raddoppio dei termini in materia IRAP.
2.2 Deve procedersi ora ad esaminare il secondo motivo di ricorso, che riguarda la deducibilità dei costi da reato, come contestata negli avvisi di accertamento impugnati.
Sul punto, va rilevato che, per i fatti-reato per i quali sono stati recuperati a tassazione costi ritenuti indeducibili, è intervenuta, nei confronti di G.D., amministratore delegato pro-tempore e legale rappresentante della B.P. Italia soc. coop. (successivamente fusa nel B.P. soc. coop., odierna ricorrente), decisione penale di assoluzione “perché il fatto non sussiste”, per il reato di dichiarazione infedele ex art. 10 del d.lgs. n. 74/2000, giusta sentenza del Tribunale penale di Lodi n. 907 del 31 ottobre 2014, passata in giudicato in data 24 marzo 2015 come da attestazione della cancelleria apposta in calce alla stessa sentenza.
Ora, dopo l’abbandono della c.d. pregiudiziale tributaria di cui all’art 21, comma 4, legge 7 gennaio 1929, n. 4, l’art. 12 del d.l. 10 luglio 1982, n. 429, conv. dalla legge 7 agosto 1982, n. 516, aveva disposto la rilevanza nel processo tributario del giudicato penale, sia assolutorio che di condanna, in riferimento ai medesimi fatti materiali, sistema poi superato sia a seguito del nuovo codice di procedura penale che a seguito del d.lgs. n. 74/2000, in vigenza del quale il tema del raccordo tra i due procedimenti è stato interpretato in termini di “doppio binario” e quindi di autonomia dei medesimi.
Sul punto, questa Corte ha costantemente affermato, in tema di rapporti tra processo tributario e processo penale, che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perché il fatto non sussiste”, non spiega automaticamente efficacia di giudicato nel processo tributario, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta decisione è destinata ad operare (Cass. 27 giugno 2019, n. 17258; Cass. 22 maggio 2015, n. 10578; Cass. 12 marzo 2007, n. 5720).
Si è precisato, infatti, che l’art. 654 c.p.p., che stabilisce l’efficacia vincolante del giudicato penale nel giudizio civile ed amministrativo nei confronti di coloro che abbiano partecipato al processo penale – norma operante, in base all’art. 207 disp. att. c.p.p., anche per i reati previsti da leggi speciali, ed avente, quindi, portata immediatamente modificativa dell’art. 12 del d.l. n. 429/1982, conv. dalla legge n. 516/1982, disposizione che regolava l’autorità del giudicato penale in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, poi espressamente abrogata dall’art. 25, lett. d), del d.lgs. n. 74/2000 -, la sottopone alla duplice condizione che nel giudizio civile o amministrativo (e, quindi, anche in quello tributario) la soluzione dipenda dagli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudicato penale e che la legge civile non ponga limitazione alla prova “della posizione soggettiva controversa”. Atteso che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova posti dall’art. 7, comma 4, d.lgs. n. 546/1992 (e, in precedenza, dall’art. 35, comma 4, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636), e trovano ingresso, con rilievo probatorio, in materia di determinazione del reddito d’impresa, anche presunzioni semplici (art. 39, comma 2, d.P.R. n. 600/1973), prive dei requisiti prescritti ai fini della formazione di siffatta prova tanto nel processo civile (art. 2729, comma 1, c.c.), che nel processo penale (art. 192, comma 2, c.p.p.), la conseguenza del mutato quadro normativo era che nessuna automatica autorità di cosa giudicata potesse più attribuirsi nel separato giudizio tributario alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tributari, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente. Pertanto, il giudice tributario non poteva limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari, estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all’azione accertatrice del singolo ufficio tributario, ma, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), doveva, in ogni caso, verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui esso è destinato ad operare (Cass. 27 giugno 2019, n. 17258; Cass. 24 novembre 2017, n. 28174; Cass. 22 maggio 2015, n. 10578; Cass. 27 febbraio 2013, n. 4924; Cass. 27 settembre 2011, n. 19786; Cass. 12 marzo 2007, n. 5720; Cass. 24 maggio 2005, n. 10945).
Questa Corte, di conseguenza, ha precisato, quanto alla produzione della sentenza penale di assoluzione nel giudizio di cassazione in sede di memoria difensiva ex art. 378 c.p.c., che il principio secondo cui, nel giudizio di cassazione, l’esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, con correlativa inopponibilità del divieto di cui all’art. 372 c.p.c., non può trovare applicazione laddove la sentenza passata in giudicato venga invocata, ai sensi dell’art. 654 c.p.p., unicamente al fine di dimostrare l’effettiva sussistenza (o insussistenza) dei fatti. In tali casi il giudicato non assume alcuna valenza enunciativa della regula iuris alla quale il giudice civile ha il dovere di conformarsi nel caso concreto, mentre la sua astratta rilevanza potrebbe ravvisarsi soltanto in relazione all’affermazione (o negazione) di meri fatti materiali, ossia a valutazioni di stretto merito non deducibili nel giudizio di legittimità. Ne consegue l’inammissibilità della produzione della sentenza penale, siccome estranea all’ambito previsionale dell’art. 372 c.p.c. (Cass., sez. un., 2 febbraio 2017, n. 2735, di cui fanno applicazione, tra tante, Cass. 26 settembre 2017, n. 22376; Cass. 11 aprile 2024, n. 9900; Cass. 9 giugno 2023, n. 16413).
2.2.1 Tale assetto è stato innovato dall’art. 21-bis lgs. n. 74/2000, introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. m), d.lgs. 14 giugno 2024, n. 87, in vigore dal 29 giugno 2024, rubricato “Efficacia delle sentenze penali nel processo tributario e nel processo di Cassazione”, il quale dispone: «1. La sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, ha, in questo, efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi. 2. La sentenza penale irrevocabile di cui al comma 1 può essere depositata anche nel giudizio di Cassazione fino a quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio. 3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano, limitatamente alle ipotesi di sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, anche nei confronti della persona fisica nell’interesse della quale ha agito il dipendente, il rappresentante legale o negoziale, ovvero nei confronti dell’ente e società, con o senza personalità giuridica, nell’interesse dei quali ha agito il rappresentante o l’amministratore anche di fatto, nonché nei confronti dei loro soci o associati».
La disposizione, che non si accompagna alla previsione di una sospensione obbligatoria del processo tributario in pendenza di quello penale, impone di riconoscere efficacia vincolante nel processo tributario al giudicato penale assolutorio formatosi a seguito di giudizio dibattimentale, purché tale giudicato abbia ad oggetto gli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario e purché l’assoluzione sia avvenuta in base ad una delle due formule sopra indicate; l’efficacia del giudicato attiene quindi agli “stessi fatti materiali”, il che ha indotto i primi commentatori ad evidenziare che, quando si discute di efficacia della sentenza penale nel giudizio tributario non ci si riferisce al giudicato penale in sé e per sé, ma all’accertamento dei fatti contenuti nella relativa decisione. E quindi, ciò che interessa non è il valore extra-penale del dispositivo della sentenza, ma il valore extra-penale degli accertamenti di fatto.
La ratio della riforma, evincibile del criterio direttivo della legge delega e resa esplicita dalla relazione illustrativa al decreto legislativo, è quella di rafforzare l’integrazione dei sistemi sanzionatori nella prospettiva del rispetto del principio del ne bis in idem [criterio di delega di cui all’art. 20, comma 1, lett. a), n. 1, della legge n. 111/2023]; il legislatore si propone la razionalizzazione del sistema sanzionatorio amministrativo e penale, anche attraverso una maggiore integrazione tra i diversi tipi di sanzione, ai fini del completo adeguamento al principio del ne bis in idem.
2.2.2 Questa Corte (Cass. 31 luglio 2024, n. 21584; Cass. 3 settembre 2024, n. 23570; Cass. 3 settembre 2024, n. 23609) ha già ritenuto che l’indicato ius superveniens si applichi anche ai casi (come quello per cui è causa) in cui la sentenza penale dibattimentale di assoluzione sia divenuta irrevocabile prima dell’entrata in vigore del citato d.lgs. n. 87/2024, purché, alla data di entrata in vigore del medesimo, sia ancora pendente il giudizio di cassazione contro la sentenza tributaria d’appello che ha condannato il contribuente in relazione ai medesimi fatti, rilevanti penalmente, dai quali egli sia stato irrevocabilmente assolto, in esito a giudizio dibattimentale, con una delle formule di merito previste dal codice di rito penale (perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non l’ha commesso).
Le disposizioni in esame appaiono infatti avere carattere processuale, incidendo sulla efficacia esterna nel processo tributario del giudicato penale (il primo comma) e sulle modalità di produzione nel giudizio di cassazione (il secondo comma).
Ora, come è noto, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, sono sostanziali le norme che consistono in regole di giudizio la cui applicazione ha una diretta ricaduta sulla decisione di merito, di accoglimento o di rigetto della domanda, mentre hanno carattere processuale le disposizioni che disciplinano i modi di deduzione, ammissione e assunzione delle prove (ex plurimis, Cass. 2018, n. 18912). In particolare, in merito alla prima questione, oltre all’oggetto, il giudicato, e al dato testuale, l’efficacia del medesimo, si deve rilevare che questa Corte, pronunciandosi sull’efficacia del sopravvenuto art. 654 c.p.p. rispetto alla previsione dell’art. 12, comma 1, del d.l. n. 429/1982, conv. dalla legge n. 516/1982, che prevedeva allora la efficacia vincolante del giudicato penale, ha osservato che «la norma attiene ai poteri- doveri del giudice civile (od amministrativo) quando statuisce dopo il formarsi di giudicato penale, e, quindi, alla fase decisionale del relativo procedimento, di modo che deve trovare applicazione quando tale fase sia successiva alla sua entrata in vigore» (Cass. 5 luglio 1995, n. 7403).
Nessun dubbio appare sussistere sulla natura prettamente processuale della disposizione che prevede la produzione del giudicato anche nel giudizio di cassazione (volta ad esplicitare la rilevanza in ogni stato e grado del sopravvenuto giudicato) entro il termine di quindici giorni dalla udienza pubblica o dalla adunanza.
Ebbene, in tema di disposizioni processuali, questa Corte ha affermato il principio che in mancanza di una disposizione transitoria (circostanza che ricorre anche nella disciplina in esame) debba essere applicato il principio per il quale, nel caso di successione di leggi processuali nel tempo, ove il legislatore non abbia diversamente disposto, in ossequio alla regola generale di cui all’art. 11 delle preleggi, la nuova norma disciplina non solo i processi iniziati successivamente alla sua entrata in vigore ma anche i singoli atti, ad essa successivamente compiuti, di processi iniziati prima della sua entrata in vigore (così Cass. 3 aprile 2017, n. 8590; Cass. 30 dicembre 2014, n. 27525; Cass. 12 settembre 2014, n. 19270).
Più in particolare, è stato affermato che «l’art. 21-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, introdotto dal d.lgs. n. 87 del 2024, che riconosce efficacia di giudicato del processo tributario alla sentenza penale dibattimentale irrevocabile di assoluzione, è applicabile, quale ius sperveniens, anche ai casi in cui detta sentenza è divenuta irrevocabile prima della operatività di detto articolo e, alla data della sua entrata in vigore, risulta ancora pendente il giudizio di cassazione contro la sentenza tributaria d’appello che ha condannato il contribuente in relazione ai medesimi fatti, rilevanti penalmente, dai quali egli è stato irrevocabilmente assolto, con una delle formule di merito previste dal codice di rito penale (perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non l’ha commesso)» (Cass. 2 dicembre 2024, n. 30814).
Nel caso di specie, la sentenza penale di assoluzione è stata prodotta e depositata unitamente al ricorso dinanzi a questa Corte, e quindi il termine suddetto è stato comunque rispettato.
2.2.3. Ora, nella fattispecie in esame, nelle more del deposito della sentenza successivamente al trattenimento della causa in decisione reso all’udienza pubblica del 22 marzo 2024 (e quindi in pendenza del giudizio di cassazione), è sopraggiunta, come detto, l’entrata in vigore (a far data dal 29 giugno 2024) del d.lgs. n. 87/2024 (in esecuzione della delega conferita al Governo in forza dell’art. 20 della legge 9 agosto 2023, n. 111), pubblicato sulla G.U. n. 150 del 28 giugno 2024 ed entrato in vigore, come detto, il 29 giugno 2024.
Tale ius superveniens, come già evidenziato, si applica anche ai casi (come quello per cui è causa) in cui la sentenza penale dibattimentale di assoluzione sia divenuta irrevocabile prima dell’entrata in vigore del citato d.lgs. n. 87/2024, purché, alla data di entrata in vigore del d.lgs., sia ancora pendente il giudizio di cassazione contro la sentenza tributaria d’appello che ha condannato il contribuente in relazione ai medesimi fatti, rilevanti penalmente, dai quali egli sia stato irrevocabilmente assolto, in esito a giudizio dibattimentale, con una delle formule “di merito” previste dal codice di rito penale (perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non l’ha commesso) (in tal senso Cass. 3 settembre 2024, n. 23570; v. anche Cass. 11 ottobre 2024, n. 26584).
Orbene, nel caso di specie, va rilevato che, per i fatti-reato per i quali sono stati recuperati a tassazione costi ritenuti indeducibili, è intervenuta, nei confronti di G.D., amministratore delegato pro-tempore e legale rappresentante della B.P. Italia soc. coop. (successivamente fusa nel B.P. soc. coop., odierna ricorrente), sentenza penale di assoluzione “perché il fatto non sussiste”, per il reato di dichiarazione infedele ex art. 10 del d.lgs. n. 74/2000, giusta sentenza del Tribunale penale di Lodi n. 907 del 31 ottobre 2014, passata in giudicato in data 24 marzo 2015 come da attestazione della cancelleria apposta in calce alla stessa sentenza.
In particolare, con riferimento all’anno d’imposta 2005, l’imputazione elevata nei confronti del legale rappresentante della B.P. Italiana soc. coop. riguardava l’indicazione in dichiarazione di elementi negativi di reddito asseritamente fittizi per un importo pari ad € 158.664.953,21, e quindi esattamente l’importo oggetto di recupero a tassazione da parte dell’Agenzia delle Entrate (reato contestato quello di dichiarazione infedele ex art. 4 d.lgs. n. 74/2000).
In particolare, dalla sentenza penale in questione si evince che i costi in questione riguardavano: a) commissione passive per garanzia ricevute per € 75.125.225,41; b) costi di destrutturazione delle operazioni sulle minorities per € 44.070.217,67; c) costi per consulenze tecniche e legali per la strutturazione delle operazioni per € 38.545.550,13 ai fini IRES/IRAP; d) svalutazione crediti per € 923.960,00 ai fini IRES.
Trattasi, all’evidenza, dei medesimi fatti (e delle identiche poste passive recuperate) posti a fondamento degli avvisi di accertamento impugnati; l’assoluzione, peraltro, ha riguardato il legale rappresentante della società ricorrente, che è stato assolto con la formula “perché il fatto non sussiste”, e la cui assoluzione si estende anche in favore della società, ai sensi del terzo comma del nuovo art. 21-bis d.lgs. n. 74/2000.
Da ciò deriva che, spiegando la sentenza penale di assoluzione efficacia di giudicato nell’ambito del presente giudizio con riferimento all’esistenza dei fatti posti a base delle riprese fiscali, deve ritenersi, anche con riferimento al giudizio tributario, che tali fatti non sussistono, così mancando il relativo presupposto impositivo delle maggiori imposte accertate, con la conseguenza che, in accoglimento del relativo motivo, la sentenza impugnata deve essere cassata.
Non essendovi bisogno di ulteriori accertamenti di fatto, in applicazione del citato ius superveniens, la causa deve essere decisa nel merito con l’accoglimento del ricorso proposto in primo grado, e l’annullamento degli avvisi di accertamento impugnati.
3. I restanti motivi restano assorbiti.
4. La portata dirimente, ai fini della decisione della causa, dello ius superveniens giustifica la compensazione integrale delle spese di tutti i gradi del giudizio.
P. Q. M.
La Corte accoglie parzialmente il primo motivo di ricorso, nei termini di cui in motivazione, nonché il secondo motivo, e dichiara assorbiti i restanti motivi.
Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso originario proposto dalla società ricorrente, e per l’effetto annulla gli avvisi di accertamento impugnati.
Compensa integralmente tra le parti le spese di tutti i gradi di giudizio.